Arctic Monkeys @ Forum di Assago (13/11/13)
In coda a I Wanna Be Yours succede che, naturale, Alex Turner smetta di cantare i versi (riadattati) di John Cooper Clarke. Ciò che sorprende, inaspettato, è che il quartetto di Sheffield riesca a traghettare lintero Forum di Assago in una verticale dimensione onirica: luci a sprazzi, roteanti, a raggiungere i fan; un turbinio di emozioni che si dilatano grazie alla profondità emotiva, rassicurante e insieme disperata, della voce modulata del frontman degli Arctic Monkeys. Sicché ci si pianta incantati seduta stante, catalessi ipnotica, a contemplare certi fasci di luce ondeggiare, levigare e risaltare la sua persona, quella degli astanti. Un epilogo così sa solo di tripudio, il (folto) pubblico è in delirio.
E allora è difficile non credere a certo hype in momenti così; a stento ci si potrebbe riprendere, ma lo si fa gioco forza, dato che latto finale di AM è anche quello una prima parte di show estremamente eterogenea nel riproporre quanto (di meglio? In buona misura sì) i nostri hanno rilasciato lungo i loro, soli (benché sembri uneternità), dieci anni di attività.
Ma si torni allinizio, le nove e venti. Scenografia minima (due imponenti A M), una grossa linea di luce che si biforca, un elettrocardiogramma il segno di via: entrano in scena, pratici, le scimmie artiche. Di fronzoli e spettacolini scenici nemmeno l'ombra, pronti ad attaccare senza preavviso. Sul riff pulsante di Do I Wanna Know? il fondale viene perforato da proiettili luminosi, sferrati poi contro le tribune e la platea. Già dai primi minuti si palesa la coerenza espressiva che gli AM hanno voluto riversare nello show, in continuità, quindi, alle produzioni in studio. Eliminando ogni possibile variazione (si vedrà, a prescindere da Arabella) e fedeli alla linea.
Brianstorm e Dancing Shoes innalzano da subito il tasso di adrenalina: la prima con veloci sferragliate, la seconda grazie alla riuscita commistione di pose underground e sbuffi tribali. La platea (incredibile, forse per scelte di sicurezza, che almeno un quinto del parterre sia rimasto libero) si fa massa oceanica, la vediamo dallalto muoversi compatta, con vento a favore che spira oscillatorio. La stessa reazione del pubblico si avrà, più in là, con I Bet You Look Good on The Dance Floor e Teddy Picker due dei loro brani più rappresentativi; la prima, senza esagerare, conferma il suo status di pietra miliare dellindie rock anni zero.
Tutto perfetto; o quasi. E allora: da un impianto così, se lo saranno chiesto i più attenti, ci si sarebbe aspettata unacustica superiore. E invece il suono arriva (almeno in tribuna) ovattato, bidimensionale nella gestalt restituita. Dalla nostra posizione il pubblico (molti sembrano capitati più per richiamo che per devozione, naturale sia così; ciononostante, il confronto tra la dinamicità della platea con quella delle tribune risulta quantomeno imbarazzante) ne risente, privato com'è di una risoluzione adeguata: molti rimangono seduti (non noi) fino allultimo, senza per questo far mancare entusiasmo e calore agli inglesi. Fortuna che i nostri mostrano un rodaggio tecnico che fa passare un po in secondo piano questo (non piccolo) aspetto. Jamie Cook, lunico a non armonizzare le traiettorie di Turner, sia nelle parti soliste sia in quelle di accompagnamento fa un figurone. Nick OMalley passa volutamente un po in sordina nella sua sobria staticità, ma si dimostra di altra categoria quando cè da innescare, nei solchi dei brani, il groove (e che groove: Flourescent Adolescent, Dancing Shoes, One For The Road). Matt Hedlers è chirurgico, sempre, e al contempo raffigura fisicamente tutta la professionalità (gli Arctic Monkeys non si mostrano mai sopra le righe) maturata in centinaia di live. Qualcuno potrà leggerne un risvolto in negativo, automatismi da performance impiegatizia: secondo noi, semplicemente, lo sforzo di realizzare uno show compatto ed esaltante entro limiti (di minutaggio, di espressione) è nota più che positiva.
Si diceva in precedenza delluso simbiotico delle luci con la musica: e infatti la compenetrazione è totale, i laser ad impallinare con mitragliate ocra ogni velleità di seguire, per noi che assistiamo, le traiettorie dei pezzi. A suon di cori da notti mondiali (così come per molti altri brani) Old Yellow Brick, nel suo attacco, merita un plauso inaspettato; due dei tre pezzi ripresi da Humbug si mostrano, invece, come i più deboli (Pretty Visitors, Crying Lightning), benché, al contrario, Cornerstone (su quelle liriche capolavoro, da scriverci romanzi a oltranza) proponga un Alex Turner accorato e intenso fino allo sfinimento. Turner il quale, con camicia a fiori e ciuffo-cresta di granito, improvvisa sexy ancheggiamenti contenuti, nella sua tenuta rock'n'roll modernizzata e molto 50s, proiettando intorno una personalità da icona un po più americana che inglese.
Americanità che si fa attitudine del nuovo corso, e non di meno va a braccetto con molti episodi del dopo Favourite Worst Nightmare: i break fluidi e il riff cangiante di R U Mine?, landatura RnB di Whyd You Only Call Me When Your are High? (brano in cui la laringite che ha colpito Turner nelle ultime settimane si fa sentire - così come in molti falsetti disseminati entro i pezzi), i vuoti e le saturazioni rock di Arabella (in cui fa capolino l'innesto di War Pigs dei Black Sabbath); lunica a non entusiasmare completamente è I Want It All, per noi che scriviamo momento prescindibile di un album altrimenti perfetto quale è il recente AM.
Durante il bis (aperto da una Snap Out of It trascinante nel suo andamento scanzonato), la versione semi acustica (e, perché no, dal flavour oasisiano) - intonata all'unisono - di Mardy Bum (per molte date precedenti, al suo posto, Piledriver Waltz) dà il colpo di grazia a cuori un po' provati (l'annessa inquadratura di una fan dal rimmel sciolto sul finale, n'è prova; nemmeno a pianificarla con la regia sarebbe uscita così bene), con il tutto che si conclude (R U Mine?) in circa unora e mezza.
Lamentarsi, oltre al minutaggio, per lassenza di nuove instant classic (No. 1 Party Anthem, "Piledriver Waltz") o vecchi classici ( When The Sun Goes Down, "Fake Tales of San Francisco") ci sta, ma la sensazione è che si sia assistito ad uno spettacolo in sé speciale. Quel che più conta e resta di questo tuffo carpiato nella nostra adolescenza, a luci accese, è una spinta emozionale che a stento riusciamo ancora a contenere.
Mauro Molinaro
Marco Soncini
Setlist
Do I Wanna Know?
Brianstorm
Dancing Shoes
Don't Sit Down 'Cause Ive Moved Your Chair
Teddy Picker
Crying Lightning
Fireside
Reckless Serenade
Old Yellow Bricks
Why'd You Only Call Me When You're High?
Arabella
I Want it All
Pretty Visitors
I Bet You Look Good on the Dancefloor
Cornerstone
One For the Road
Flourescent Adolescent
I Wanna Be Yours
Snap Out Of it
Mardy Bum
R U Mine?
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