Bastano cinque note - Il trucchetto della pentatonica
Cantìcchia il riff di Whole Lotta Love dei Led Zeppelin. Oppure quello di Hey Joe di Hendrix. E poi l’inizio della Quinta di Beethoven. O la suoneria standard della Nokia.
Che cosa hanno in comune questi pezzi? Ebbene sì, la scala pentatonica. Pentatonica, non ci vuole un genio del greco a capirlo: cinque toni. Cinque suoni (gli integralisti la chiamano pentafonica, ma sembra il nome di un sintetizzatore degli anni ’20). Cinque note. Ma le note non erano sette? Anzi, no: le note non erano dodici, contando pure diesis e bemolle? Sì, ma ne bastano meno. La Terza Lezioncina di Musica ci dice che le note non sono tutte uguali: alcune sono più uguali delle altre. Cinque.
(riassunto delle puntate precedenti: sto scrivendo delle aperiodiche Lezioncine di Musica, per smontare il giocattolo da dentro e cercare capire questa lingua che ci strappa il cuore passando dalle orecchie. La prima volta abbiamo parlato di note, cosa sono e quante sono. La seconda puntata era una digressione sulla sporcizia, ovvero sulla non-necessità dell’ineccepibilità formale nell’esecuzione di un brano. La terza è qua, lallero, lallà)
Do re mi fa sol la si do. È la scala di do maggiore, lo sanno anche i bambini. Quella della canzoncina della Barilla, o di Fra Martino Campanaro. Elimina il fa, elimina il si. Do re mi sol la do. Escluso il do ripetuto, fanno cinque note: la prima, la seconda, la terza, la quinta e la sesta della scala di do maggiore. Ladies and gentlemen: la scala pentatonica. Nella fattispecie, la pentatonica di do maggiore: stiamo sempre in do nei nostri esempi, con i tasti bianchi del pianoforte si ragiona meglio. Tirare fuori la pentatonica da una scala significa spogliarla, lasciare sul pavimento i suoi ingombranti reggiseni e giocare a spupazzare le note nude: è più divertente, perché puoi mettere le dita dappertutto, e non le metti mai nel posto sbagliato. Arriviamo a questo punto all’inevitabile carta-che-non-canta: lette su uno schermo (senza uno strumento musicale in mano) queste parole sono difficili da capire, e da credere. Ma là fuori c’è un plotone di chitarristi pronto a ghignare d’approvazione: con la pentatonica si va sul sicuro, bambole.
Si va sul sicuro. Ma dove si va? A improvvisare, naturalmente. L’improvvisazione è la cosa meno improvvisata che ci sia, lasciamo perdere i cervelloitici connotati jazzistici e andiamo alla radice del verbo: improvvisare vuol dire suonare (recitare, dipingere) qualcosa che prima non c’era, e farlo adesso. La vertigine da spartito bianco può farci girare la testa, e allora da qualche parte bisogna aggrapparsi: la pentatonica. Cinque note che hanno la stessa funzione dei modi di dire della nonna: quando non sai che cosa dire, dì un modo di dire. Un proverbio. Saggezza popolare. Funziona sempre. La pentatonica è una ciambella che tiene a galla, è il respiro di ogni apnea, la rete elastica delle capriole. Quando non sai che cosa suonare, suona una pentatonica. Oppure, taci: la musica è quella cosa che sta tra una nota e l’altra, ricordi? Un po’ di silenzio, ogni tanto, fa bene al suono. Anche al suono delle parole.
Ci sarebbe da spiegare perché proprio quelle cinque note, e non altre. Oppure sottolineare come la pentatonica di do maggiore abbia le stesse note di quella di la minore, scegli da dove vuoi partire e ti dirò dove potrai arrivare. Ma la disamina teorica ci trascinerebbe in ambiti accademici che non ci appartengono. Esistono trucchi da musicisti, per oggi ci basta sapere questo. La pentatonica è il trucco più vecchio del mondo: per questo la usano tutti. I più bravi sono maghi e non te la fanno vedere, ma c’è da star sicuri: se una canzone suona bene, da qualche parte spunterà una pentatonica. Facciamo una scommessa: ditemi la vostra canzone preferita, e vi insegnerò a suonarci sopra. Con cinque note.
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