Canzoni di protesta e arte rivoluzionaria. La lezione di Hanns Eisler
“Se cambia la musica, cambieranno anche le istituzioni più importanti.”
Platone
“Sono un artista rivoluzionario. La mia arte è impegnata per il cambiamento.”
John Lennon
Il caso sovietico del realismo socialista è stato per molti versi assai inquietante, soffocando completamente l’artista e giungendo in certi casi a conseguenze grottesche, mostrando chiaramente a quali livelli di tracotanza potesse arrivare un partito nella spregiudicata subordinazione dell’arte ai propri scopi.
Altri partiti, movimenti e individui seppero invece mantenere un atteggiamento per nulla dispotico ma ugualmente fedele alla volontà di restare fedele all’ideologia marxista-comunista.
Un tipico artista-teorico che ha saputo portare avanti questo ideale in campo musicale è stato Hanns Eisler, compositore tedesco nato nel 1898 a Lipsia e deceduto a Berlino nel 1962. Allievo di Schonberg e Webern, fu uno dei primi a coniugare tecnica dodecafonica e ideologia militante comunista.
Nonostante l’ostilità per la musica leggera, per l’arte popolare e per quella che successivamente verrà denominata industria culturale Eisler non esita ad avventurarsi nella sperimentazione sonora introducendo nel proprio stile elementi più “popular”, traendo spunto da altri generi in voga come la musica jazz e il cabaret. La giustificazione di questa operazione segue l’assunto che “[…] sia la forma musicale sia la tecnica dei pezzi musicali debbono discendere dallo scopo vero, che è la lotta di classe.” Di conseguenza “lo stile […] deve adeguarsi di volta in volta allo scopo della musica. […] Non abbiamo rigidi parametri estetici, controlliamo la nostra produzione secondo gli scopi rivoluzionari del momento.”
E se lo scopo principale dell’arte borghese è il piacere la classe operaia sceglie invece come grande associata l’arte, la cui funzione si trasforma. Ciò che era stato il fine principale, il piacere, diventa il mezzo per il fine. Il testo non soddisfa più l’esigenza estetica dell’ascoltatore, ma si serve del bello per educare il singolo, per rendergli accessibili e comprensibili le idee della classe operaia, gli attuali problemi della lotta di classe.
Di qui la necessità di risolvere il problema più pressante per l’autore: realizzare delle musiche rivoluzionarie che non diventino noiose e ostili per il proletariato. Se lo scopo principale della nuova arte rivoluzionaria è per Eisler il suo carattere educativo e di lotta rimane aperto il problema di come realizzare una musica “leggera” (cioè accettata dalle masse proletarie) e contemporaneamente “pesante” (in grado cioè di comunicare un messaggio politico). la prima difficoltà deriva dal credo ideologico di Eisler, secondo cui “nella società capitalista l’antagonismo di classe si riflette anche a livello della sovrastruttura artistica; anche la musica, lungi dall’essere un linguaggio “universale”, è legata al ruolo egemone o subalterno delle classi.”
La consapevolezza di questa difficoltà è evidente nelle analisi della cosiddetta “musica avanzata” dei maestri Schonberg e Webern: “La musica avanzata, sebbene si ponga in una posizione critica nei confronti della classe di cui è espressione, non è per questo più vicina alla nuova classe in ascesa. Essa conduce in effetti una esistenza quanto mai difficile: la borghesia la respinge e il proletariato non ha ancora i presupposti politici e culturali per impadronirsene.” Nel momento in cui Eisler si discosta sostanzialmente dalla musica avanzata borghese (e non tanto per considerazioni artistiche ma per motivi sostanzialmente politici) e decide di mettere la sua musica al servizio della lotta di classe, cerca di trovare un linguaggio comprensibile al proletariato. I problemi che si ponevano a Eisler non erano di facile soluzione: “la rinunzia alla complessità della musica avanzata borghese non poteva significare l’acquiescenza alla stupidità e volgarità della musica pseudo-popolare, in realtà borghese anch’essa nella misura in cui è perfettamente funzionale all’ideologia dominante e in cui veniva imposta già allora dall’industria culturale attraverso i mezzi di comunicazione di massa.”
L’intelligenza dell’autore lo portava a non ripudiare del tutto ogni tipo di esperienza estetica passata (e quindi in definitiva l’intera produzione di tipo borghese), ma di partire da tali presupposti per “giungere a forme di comunicazione artistica effettivamente nuove.” I criteri artistici che informeranno questa nuova produzione “non potranno essere puramente e semplicemente quelli dell’estetica borghese, anche se una nuova arte popolare non potrà non tener conto di fondamentali acquisizioni dell’arte che si è sviluppata durante l’egemonia della borghesia.”
A sorprendere maggiormente è però il metodo con cui viene effettuata la ricerca musicale: “la lezione eisleriana di una valida e convincente unione tra tendenza politica e qualità artistica è potuta riuscire grazie a un continuo, non superficiale contatto con quel pubblico al quale il suo discorso si rivolgeva, e non in maniera volontaristica e individualistica. Questo continuo contatto con il proprio pubblico di riferimento ha potuto evitare che egli facesse della musica soggettivamente rivoluzionaria, che rimanesse però di fatto estranea alla comprensione e alle esigenze dei suoi destinatari”. L’apertura al proprio pubblico e la messa a disposizione del proprio genio artistico alle masse non impediva però all’autore di tenere fermi alcuni punti ideologici cui non si era disposti a cedere.
Così attraverso la rivista Kampfmusik, oltre a ribadire certi assunti ideologici di fondo si davano anche indicazioni pratiche e concrete, tra le quali quella significativa di “rompere con la tradizione del concerto, che deve essere sostituito da manifestazioni di propaganda rivoluzionaria mediante le quali far prendere coscienza dei problemi politici all’ordine del giorno. Bisogna anche rompere con il repertorio tradizionale dei cori operai e stimolare invece la creazione di nuove canzoni rivoluzionarie che possano venir facilmente cantate anche dal pubblico.”
Tutto ciò mostra l’idea della nuova funzione sociale affidata alla musica e all’arte in genere. Questo aspetto non è affatto secondario come potrebbe sembrare, in quanto il carattere produttivo ed esecutivo della musica è un aspetto fondamentale per Eisler, che da questo punto di vista segue la prospettiva di Walter Benjamin, secondo cui “la tendenza politica, per quanto rivoluzionaria essa possa apparire, ha di fatto una funzione controrivoluzionaria fin quando lo scrittore è solidale col proletariato solo in virtù delle sue idee e non in quanto produttore.” Benjamin “postula la necessità di non “rifornire” soltanto l’apparato produttivo dominante, ma di cercare, per quanto possibile, di modificarlo, mediante innovazioni tecniche, in senso socialista. Altrimenti non si farà altro che proporre, anche presentando contenuti rivoluzionari, solo novità apparenti, che vengono assimilate tranquillamente dalla società borghese, e che dunque invece di una funzione di contestazione delle strutture sociali tradizionali ne acquistano una eminentemente stabilizzatrice.”
Riassumendo si può focalizzare sul fatto che per Benjamin “un autore che abbia coscienza delle condizioni della produzione attuale non deve lavorare solo ai prodotti, ma contemporaneamente ai mezzi di produzione.” La concezione che sta alla base della riflessione teoretica di Eisler non è dissimile da quella di Benjamin: “sia Eisler sia Benjamin cercano di applicare il metodo del materialismo storico all’analisi della produzione artistica. […] Eisler ricorre al concetto di forze produttive musicali, senza darne una definizione chiara e univoca.” Una definizione si trova invece nella Introduzione alla sociologia della musica di Adorno: “fa parte delle forze produttive […] non solo la produzione in senso strettamente musicale, cioè il comporre, ma anche il vivo lavoro artistico dei riproduttori e l’intera tecnica, di per sé non omogenea. [...] E’, come si vede, una definizione estensiva del concetto che abbraccia tutto il processo di produzione e di riproduzione del lavoro musicale. Si tratta, per quanto ne sappiamo, della prima volta che questo concetto del materialismo storico viene applicato a un fenomeno della sovrastruttura, e in particolare alla musica che è, fra l’altro, una delle attività che più sembra essere lontana dal mondo pratico.”
La trasposizione di questi concetti dal livello della base materiale a quello della sovrastruttura, che della prima è funzione, può a tutta prima sorprendere. Come è possibile, infatti, che una dimensione dell’attività umana – la sovrastruttura artistica – che dipende dalle leggi secondo le quali si sviluppa un’altra dimensione – la base economica – si sviluppi secondo la dialettica di quest’ultima dimensione – quella di forze produttive e rapporti di produzione – di cui dovrebbe essere invece il (sia pure non meccanico) riflesso?
In realtà bisogna stare attenti ad un rapporto rigidamente deterministico di questo tipo, e lo stesso Eisler nelle sue formulazioni più mature rifiuta questa particolare concezione tra lo sviluppo della struttura economica e quello della sovrastruttura musicale. Si tratta del resto di una corretta applicazione del metodo storico-materialistico. Già Engels parlava di “relativa autonomia della sovrastruttura nei confronti della base materiale, nella fattispecie dello stato nei confronti della produzione.” Engels si riferiva soprattutto alla filosofia, ma “la cosa vale evidentemente anche per altri campi dell’attività umana, dunque anche per la musica”.
Se quindi viene riconosciuto all’uomo uno spazio di azione resta da capire come tale spazio vada gestito in maniera corretta per non cadere nel tranello di una musica solo fintamente politica (e in realtà confacente al sistema). La necessità che emerge in Eisler (così come per Benjamin, e così sarà anche per Adorno) è quindi quella di far uscire il campo della musica dall’asfissiante rapporto con il concetto di merce, fattore determinante nel capitalismo e gradualmente affermatosi nel corso dell’età moderna. La teoria di Eisler prevede insomma di interpretare la musica rivoluzionaria come tale se è avanzata sia dal punto di vista formale che dei contenuti, fermo restando che determinanti sono questi ultimi, poiché è solo a partire da essi che è possibile giungere a nuove soluzioni formali effettivamente valide.
“Un’arte esteticamente rivoluzionaria non lo è ipso facto anche da un punto di vista politico, per il semplice fatto che le novità formali non presuppongono necessariamente un rinnovamento dei contenuti. Questa è anche una delle ragioni per cui molta arte che presume di svolgere una funzione di contestazione nei confronti della società finisce entro breve tempo non solo per venire assimilata, ma addirittura per svolgere una funzione stabilizzatrice all’interno di quello stesso ordinamento sociale che pretendeva di criticare.”
(estratto rimaneggiato tratto da "Popular Music Politica. Un'analisi storico-sociale sul contesto italiano")
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