A Codeine Live @ Locomotiv, Bologna, 31/05/2012

Codeine Live @ Locomotiv, Bologna, 31/05/2012

Si sente spesso usare la parola “amore” a proposito di un gruppo, un disco o una canzone. Ecco, se c’è un gruppo per cui posso usare la parola “amore” con giustezza, senza nessuna iperbole, sono i Codeine. Un cult assoluto, per il sottoscritto. Sicché sarà facile immaginare la mia gioia nel sapere dell’inaspettata reunion che, in questi mesi, li sta portando nuovamente sui palchi di mezzo mondo diciassette anni dopo la loro ultima apparizione live. Un evento. Anche se il tour pare “ispirato”, più che da spontanei moti degli animi, dalla necessità di dar visibilità all’imminente ristampa - in un lussuoso cofanetto - dell’intera discografia del gruppo (uscirà col titolo When I See The Sun e comprenderà le John Peel Sessions, oltre a outtakes e b-sides varie). E vabbè, mica sono un integralista. Al concerto ci vado eccome, per di più da solo come se fosse un pellegrinaggio. E le dovute pippe sulla “reunion” me le risparmio. Tanto più che anche il cofanetto da ultra fan me lo comprerò di sicuro.

Esco dal lavoro, una tappa obbligata al supermercato per riempire in economia la pancia di cibo e l’auto di birra, poi via, attraverso un’Emilia resa paranoica dal flagello sismico più persistente ed infido che si ricordi su (sotto) queste terre. È strano come, pur non cogliendo segnali dall’autostrada, lo sgomento si insinui sottopelle facendo violenza. Ecco cos’è che rattrista il mio viaggio, altro che l’esser solo.

Incredibile a dirsi, arrivo al Locomotiv con grande anticipo. Non capitava da quando ai concerti ci andavo in treno. Alle nove e mezza non c’è quasi pubblico. Locale vuoto, Codeine in prospettiva e l’intensità dei Comaneci sul palco: tutto perfetto. Il duo ravennate è ovviamente il primo a dirsi “felice di far da spalla ai Codeine”. Pure loro, è quasi certo, hanno un debito con i newyorchesi. L’esibizione - una decina di brani, buona parte dei quali ancora inediti e programmati per la pubblicazione nei prossimi mesi -  è sincera e toccante, addirittura devastante nella resa live di On My Path (la voce preziosa di Francesca Amati, meno male, qualcuno l’ha registrata e rimarrà) e perfettamente credibile anche nel finale, quando i due omaggiano l’amico Bob Corn - residente nelle zone più colpite dal sisma - imitandolo nel scendere dal palco per cantare un brano acustico in mezzo alla gente.

Gente che è arrivata, e il locale ora è quasi pieno. Gli Anni Luce (da Settlefish e Juniper Band), di cui non ho mai sentito un brano, salgono sul palco davanti a proiezioni cosmiche. Io invece devo uscire con una birra, perché il tabagismo e l’età impongono ritmi blandi e regolari, con qualche inevitabile privazione. Al rientro, infatti, Gli Anni Luce sembrano far bene: un post-rock strumentale, costruito sull’alternanza di parti ambient acide con altre invece estremamente geometriche e regolari, che quasi fanno venire voglia di ballare. È vero, ho perso un paio di pezzi, ma insomma, non ce l’avrei fatta a farmi tre gruppi di fila a un metro dal palco. Invece così, bello riposato, riguadagno sbavando la posizione durante il cambio palco fatidico. E finalmente, eccoli lì.

Escono timidi, quasi imbarazzati, mentre un locale adorante, tra l’altro con diversi giovani veri, li applaude entusiasta. L’impressione è quella di una band effettivamente ipersensibile, molto fragile, molto umile, senza forse neppure la consapevolezza della propria importanza. Immerwahr sembra un ex astronauta, uno che ha visto cose che noi umani… Ha due occhi pallati e un carisma inquieto che non c’è dubbio, quella musica lì poteva inventarsela solo lui. Brokaw  è molto più figo, anche più giovanile, ma neppure lui riesce a nascondere le tracce di un vissuto intenso e di un’interiorità complicata. Il più personaggio, però, è John Engle: il chitarrista sembra che col tempo stia fisicamente trasformandosi in Lou Reed. Sta lì, testa china e timidezza da fanciullo, con addosso una ESP rosa inguardabile che lui maneggia con dita che sembrano carote spezzate, come se suonasse la chitarra da un paio di settimane, oppure non ne toccasse una da diciassette anni. Il tocco e le armonizzazioni, però, sono inconfondibili. “Good evening, we’re Codeine from New York City”, attacca Immerwahr, come se ci fosse bisogno di presentarsi. “Sticazzi”, penso io, davanti a un mito giovanile materializzato, “sono proprio loro”. Iniziano come iniziarono tanto tempo fa: D ad aprire la danza delle lacrime, Cigarette Machine, a seguire, con le sue tensioni elettriche. Il suono è potente e ben reso, da non credere che sul palco siano in tre. L’essenzialità aiuta, certo, lì davanti hanno sì e no un pedale a testa per la distorsione e la batteria è di quelle fatte con poco. Come riesca, però, un impressionante Chris Brokaw a riempire tutto a quel modo dando un colpo all’ora resta un mistero. Si precipita immediatamente nell’inevitabile stato catatonico tra estasi e paralisi. E però, dal vivo, il suono appare più vellutato, caldo, in generale più umano di come reso su disco. La scaletta mette in fila un capolavoro dopo l’altro, senza tuttavia tralasciare nulla: trovano così spazio anche brani meno noti, due inseriti nell’EP Barely Real (la title track e Realize, proposta dopo il rientro) e altri due estratti dalle Peel Sessions (le bellissime Median e Broken Hearted Wine, quest’ultima presentata come “una canzone forse non felice, ma almeno non così triste”). Per il resto il set si muove in egual misura tra i due storici LP del gruppo: Tom, Sea e le due perle Washed Up e Loss Leader a rappresentare il sophomore The White Birch; Pickup Song (con Immewahr allo “slide bass”), Cave-In e un’intensissima Pea (Brokaw passa al basso, niente batteria, come anche nella finale Broken Hearted Wine) quelle tratte dall’esordio Frigid Stars.

Un’ora e mezzo di concerto memorabile. Forse non impeccabile - robot Brokaw a parte - solo dal punto di vista dell’esecuzione, con piccolissime imperfezioni qua e là. Ma insomma, provateci voi a suonare a 40 bpm incastrando basso e chitarra in quel modo. Sono umani anche loro. Anzi, molto umani. Le occhiatacce benevole di Immerwahr a Engle, che non riesce ad accordare, sono uno spasso; il bofonchiare di quest’ultimo e il suo sollievo nell’uscire dai pochi momenti di protagonismo, pure. Sembrano un famiglia, che si prende pure per il culo da sola (“L’ultima volta che abbiamo suonato a Bologna molti di voi avevano dieci anni”, scherza Immerwahr sul palco). Come si fa a non voler bene a questa gente qui?

L’uscita è, per me, di quelle rapide. Perché dopo i trenta le ore di sonno contano. Ho tempo tutto il viaggio di ritorno per affogare nei ricordi di quei drammi lontani, ma ancora indimenticati (quella grandissima putt…), in cui questa musica di cristallo e lacrime mi sprofondò per poi regalarmi un’impagabile salvezza. Diciassette anni fa. E oggi l’ennesimo, insperato regalo: ché l’ultima volta che hanno suonato a Bologna, l’ultima per davvero, c’ero.

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Cas alle 11:10 del 6 giugno 2012 ha scritto:

bellissimo e sentito report paul! e a vedere il video di D viene la pelle d'oca... che esperienza, ti invidio... (aihmè, tutti noi -io di certo- abbiamo avuto le nostre grandissime putt... che ci hanno buttato a fondo. ma avere roba come i Codeine aiuta)

paolo gazzola, autore, alle 13:36 del 6 giugno 2012 ha scritto:

Grazie mille Cas, in effetti un concerto "importante", per me. Grazie anche a chi mi ha permesso di andarci.

bargeld alle 15:58 del 7 giugno 2012 ha scritto:

Brividi, Paolo!

NathanAdler77 alle 17:19 del 7 giugno 2012 ha scritto:

"...Perché dopo i trenta le ore di sonno contano.": sacrosanto! Un report coi controfiocchi, Paolo.