A Dinosaur Jr - La Leggenda del Dinosauro Estinto e Risorto

Dinosaur Jr - La Leggenda del Dinosauro Estinto e Risorto

Non sono tanti i casi in cui un gruppo possa essere indiscutibilmente segnalato come principale vessillifero di un determinato genere musicale, ed è certamente il caso dei Dinosaur Jr. Di quella galassia dai confini sfocati e indefiniti chiamata indie rock, il gruppo di J Mascis è stata la stella più luminosa e influente. Affermazione sicuramente impegnativa, ma gli argomenti a sostegno di tale tesi ci sembrano tanti. La reputazione a prova di bomba anzitutto, con alcuni album cardine del genere per l’etichetta indipendente americana per eccellenza degli anni ‘80, la SST, e l’ aver generato dal suo nucleo un altro gruppo simbolo, i Sebadoh.

Musicalmente, il gruppo fu poi quintessenziale nello sfrangiare le radici post punk, renderle complesse e urticanti, fornendo l’anello di congiunzione decisivo tra nomi fondamentali degli anni ‘70, da Neil Young ai Led Zeppelin, e la generazione grunge.

Infine, i Dinosaur Jr battezzarono quell’attitudine frustrata e disincantata, emersa nel buco nero reaganiano degli anni ‘80, che avrebbe preparato la strada alla “Generatione X” e a “Nevermind”, brevettando per primo la formula di “slacker” che tanti proseliti avrebbe fatto nel decennio successivo. Un gruppo che anticipò i tempi, che finì per esserne superato, ma il cui lascito non ha mai smesso di generare epigoni, e il consenso attorno alla recentissima reunion non ha fatto che confermare quanto capitale sia tuttora quel nome.

Tutto inizia – con la ragione sociale Dinosaur – nel 1983 nell’opulento e liberal Massachussets. Leader indiscusso e dispotico del trio è il cantante chitarrista Joseph Mascis, lungocrinito rampollo dell’alta borghesia reduce dall’esperienza hardcore coi Deep Wound. Certamente non un reietto come Cobain, ma non per questo il suo disagio va sottovalutato, in particolare alla luce della qualità musicale di cui è specchio. Il marchio di fabbrica di J, costituito da parti vocali indolenti e annoiate, da assoli sgangherati e sgargianti, è di quelli indelebili. Completano la formazione il bassista Lou Barlow, epitome del nerd spocchioso e geniale, autore anche lui di vaglia e che, quando si libererà dal giogo masciano si prenderà una bella rivincita, e infine il pirotecnico batterista Murph. Scopo della band ? Esplorare quelle terre all’epoca ancora poco conosciute in cui il debordante rumore chitarristico si incontra con melodie malate, straordinariamente insidiose e dense di sensibilità new wave, rileggendo gli stilemi dell’hard rock in una visione peculiarissima, mischiata con le squassanti tessiture del Neil Young più elettrizzante e con l’impeto dell’hardcore.

L’omonimo debutto del 1985, per i tipi della Homestead, nonostante qualche ingenuità di troppo ( lo scimmiottamento di “Whola lotta love” operato su “Mountain Man”) e una produzione opaca, chiarisce che le armi a disposizione del trio sono affilate e tremendamente efficaci. “The Leper” in particolare è l’archetipo del suono Dinosaur Jr: un basso pulsante fende l’aria, la batteria ci si arrampica sopra, entra la chitarra con accelerazioni rumoriste imperiali ( il celebre “effetto aeroplano”) e infine quella voce sguaiata, propinando nenie impossibili da schiodare dalla testa. Altri classici sono “Forget the swan”, con Mascis e Barlow che si alternano al canto in una melodia alla Cure, e una “Repulsion” che sotto la coltre spessa di rumore mostra le stimmate purissime del folk byrdsiano. Eccellenti anche “Severed lips”, morbido midtempo capace di incastonare il malcontento adolescenziale in un gustoso intreccio di magia e stravaganza di pochi accordi e la bizzarra joint venture Neil Young/Feelies di “Gargoyle”, mentre le radici hardcore si sublimano nelle frammentazioni alla Minutemen di “Cats in a bowl”.

Il passo successivo è del 1987: cambio di nome ( aggiunta del Jr per la causa intentata da una omonima congrega sessantina ) e di etichetta ( la gloriosa SST di Greg Ginn). “You’re Living All Over Me” è con ogni probabilità il lavoro più influente in assoluto dei nostri, autentico spartiacque sonoro del decennio, dominato dalla sei corde masciana, satura di feedback, invettiva e distorsione. “Little Fury Things” perfeziona il connubio melodia –rumore in maniera spumeggiante, “Kracked” e “Lung” azzannano l’ascoltatore in un vortice a rotta di collo, “Sludgefeast” coi suoi incastri di ritmiche zeppeliniane e contorsioni deliranti e ”Raisans” con le sue inafferrabili vertigini non fanno prigionieri, ridisegnando prepotentemente le coordinate del guitar rock. Per non parlare di “Tarpit”, le cui torbide stratificazioni spianeranno la strada ai My Bloody Valentine e al movimento shoegaze. Anche Barlow si ritaglia il suo momento di gloria. Sia nell’obliqua “In a Jar”, le cui fantastiche linee di basso spalleggiano magnificamente gli sghembi sospiri di J e ispireranno non poco seguaci quali i Pavement, sia soprattutto nel brano autografo “Poledo”: un numero sperimentale e lo-fi ante-litteram, che chiude l’album alla perfezione.

A testimonianza del fecondo e irripetibile periodo dell ‘indie rock americano, i Dinosaur Jr riescono persino a migliorarsi l’anno dopo, con quel “Bug” che assieme a “Daydream Nation” dei Sonic Youth e a “Surfer Rosa” dei Pixies forma il tris d’assi calato dal genere nel 1988. Meno febbrilmente schizofrenico del precedente, ma più focalizzato e variegato, “Bug” si apre col brano più celebre del terzetto bostoniano, quella “Freak Scene” all’epoca magistrale inno di tutto il rock underground a stelle e strisce, al pari della “Touch Me I’m Sick” dei Mudhoney. Una “Smells Like Teen Spirit” in sfortunato anticipo sui tempi, scazzata e contagiosa, narcolettica e furiosa. Tutto il resto dell’album non è da meno, forte di una freschezza compositiva smagliante: dalle stupefacenti armonie vocali imbastite sui riff anfetaminici di “Let It Ride” e sull’epica e sfaccettata “Yeah We Know” alle psicotiche pulsioni della violentissima “Don’t”, dagli epidermici stop and go di “They always come” fino alle stordenti accelerazioni di “The Post”, tagliata in due da un riff devastante alla Tony Iommi. È altresì il lavoro in cui emerge definitivamente l’influenza di Neil Young. Mascis ha sempre rispedito al mittente con sufficienza il nome del Canadese ( partecipando però proprio in quel periodo al tributo a Neil, “The Bridge”, sfregiando la soave litania country di “Lotta love” in dimensione hardcore), ma le similitudini non albergano solo nella voce, flebile e straziante. “No Bones” ha un attacco praticamente identico a quello di “Alabama” tanto per dirne una, e anche tenui cavalcate di frammenti lisergici come “Yeah We Know” e “The Pond” presentano costruzioni armoniche imparentate con l’autore di “ Harvest”, icona che già i vari Sonic Youth hanno cominciato a sdoganare verso il ruolo di “padrino del grunge”.

A questo punto i Dinosaur Jr sono i re indiscussi dell’indie rock ( sovrani senza corone: afasici nelle interviste e svogliati dal vivo), venerati persino nella sciovinista Inghilterra, portatori di un suono innovativo, devastante e immediatamente riconoscibile. I contrasti tra Mascis e Barlow fanno invece esplodere il gruppo. Se sia stata colpa del primo, insofferente verso Lou, o piuttosto di un Barlow deciso a non fare rovinare le sue composizioni dal distorsore del leader la storiografia rock non l’ha ancora completamente chiarito. Fatto sta che il gruppo è formalmente sciolto, l’occhialuto Lou avrà la sua vendetta coi Sebadoh e i Dinosaur Jr rimangono per diversi mesi in uno stato di animazione sospesa, mentre la SST congeda il gruppo con la raccolta di singoli “Fossils” , in cui svetta la b-side “Keep the glove”, autentico gioiello country-rumorista. Fino a quando la Warner Bros non ci mette lo zampino. Siamo nel 1991, i Sonic Youth sono andati in tour con Neil Young, i Jane’s Addiction e il Lollapalooza hanno rivoltato la scena musicale come un calzino e manca soltanto “Nevermind” per assestare il colpo definitivo alle gerarchie musicali dello zio Sam. Nonostante l’assenza dalla scena, il lunatico e scontroso J è ancora venerato ( nel 1991 il tour con Sonic Youth e Nirvana, immortalato dal documentario “The Year Punk Rock Broke”, suggella la trimurti del rock alternativo all’apice) e il nuovo contratto major riporta in auge un fondamentale precursore. “Green Mind” è formalmente un album solista del nostro ( suona quasi tutti gli strumenti), e batte con estro alterno ma con brillanti sfumature di fondo i sentieri dei dischi precedenti. Brano di punta è certamente il singolo “TheWagon”, in pratica l’attualizzazione all’era di MTV delle intuizioni di “The Leper”, mentre “Thumb” inaugura il filone delle ballate morbide e stralunate. Smessi i panni di terrorista sonico e di traghettatore, si avvia dunque il processo di istituzionalizzazione di Caronte-Mascis. Il successo dei Nirvana sta spalancando innumerevoli porte del resto, e i frutti non tardano ad arrivare. Dopo aver ripescato Murph e cooptato al basso Mike Johnson, tutto è pronto per l’assalto allo stardom: nel febbraio del 1993 è pubblicato “Where You Been”, il best-seller del gruppo. Successo ampiamente meritato, anche se i livelli spropositati dei coevi gruppi di Seattle rimangono un miraggio. L’album in questione è certamente il migliore del periodo major, benché leggermente inficiato da una produzione che riduce al minimo gli spigoli: un concept sul viaggio ( esemplare la copertina, col celebre autostop per il nulla) e su rapporti interpersonali dominati da sensazioni quali struggimento, disinganno e incomunicabilità – una sorta di slacker’s speen – che contraddistingue ormai indelebilmente il songwriting del nostro. Il quale è ormai un autore maturo, capace di bilanciare fulminanti e tenebrose parti elettriche orientate verso i Crazy Horse di “Rust Never Sleeps” ( “Out there”, “On the way” e la sontuosa “Hide”) con languide ballate midtempo come “Get Me” e “What else is new” ( con tanto di archi), per poi forgiare definitivi omaggi a mastro Neil nelle soffici “Not the same” e “Drawerings” . Fino all’apice del disco, l’ombrosa “Going home”: una divina ballata a lume di candela, solcata da un organo che emana arcane suggestioni dylaniane

Niente sembra poter arrestare la marcia del nostro, il quale appare sulla copertina di Spin Magazine sotto il titolo “J Mascis is God”. Il vento però comincia a smettere di soffiargli alle spalle. Nel settembre 1994 – col grunge in procinto di cominciare il proprio riflusso – esce “Without A Sound”, album godibile nonostante l’usura, ma che mostra come ormai il DNA del Dinosauro stia perdendo quella intensità e quell’urgenza che lo avevano contraddistinto in passato, riuscendo a sfornare al massimo gradevoli singoli come “Feel The Pain” e“I Don’t Think So” o lucenti perle acustiche quali “Seemed Like The Thing To Do”. Murph defeziona definitivamente proprio nel 1994, mentre Lou Barlow pesca il jolly in classifica coi Folk Implosion e lentamente i Dinosaur Jr iniziano ad apparire una reliquia giurassica; il loro ultimo album - “Hand It Over” del 1997, discreto e arrichito dalla collaborazione con Kevin Shields - viene accolto con indifferenza. Un’ opera che certamente non svetta nella valle dei dinosauri, nonostante le saltellanti armonie di “Sure not over you” e il mastodonte elettrico di “Alone” si facciano ricordare anche a distanza di anni. La Warner rescinde il contratto, prologo all’inevitabile dissoluzione del gruppo. Mascis del resto aveva pubblicato l’anno prima l’introverso debutto solista “Martin And Me”, e la carriera solista appare lo sbocco inevitabile per colui che troppo volle comandare e alla fine restò solo. Il resto della storia è noto: un altro album in proprio nel 2000, e un culto che non manca di estendere la sua influenza su una miriade di band, dai Modest Mouse ai Built To Spill.

Mentre altri nomi gloriosi di fine anni ‘80 come Jane’s Addiction e Pixies tornano insieme, spunta nel 2005 fuori la notizia che mai ti saresti aspettato. Si riformano i Dinosaur Jr in line up originale, con Barlow e Mascis: la vecchiaia riappacifica gli animi, notoriamente. Parte un tour accolto da osannanti consensi, in un rito orgiastico di feedback e amplificatori per dimostrare che quei tre hanno ancora una marcia in più ( benché i due amici/nemici non si rivolgano la parola sul palco), preludio al ritorno in studio di imminente pubblicazione, sul quale ci proponiamo di tornare presto in sede di recensione. Pare sia un grande album. La speranza di rinviare ad libitum il lieto fine della leggenda è dunque seriamente concreta. Per dirla con Lou Barlow: ancora e sempre Gimme gimme indie rock!

Per approfondire: http://www.storiadellamusica.it

C Commenti

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Nadine Otto alle 20:18 del 20 marzo 2007 ha scritto:

Articolo veramente stimolante. Complimenti Junio!

doopcircus alle 21:59 del 21 marzo 2007 ha scritto:

In attesa del risveglio del Dinosauro

Amarcord bellissimo di una delle pagine più belle dell'indie rock, in attesa che il dinosauro risorga defintivamente nel nuovo disco. Davvero complimenti!

Bodhisattva alle 21:49 del 23 marzo 2007 ha scritto:

Pur non conoscendo il gruppo, quindi non essendo in grado di esprimere un'opinione su di esso, voglio ugualmente fare i miei complimenti a Junio per questa monografia.

Scritta in maniera affascinante, è evidente non solo la conoscenza che Junio ha del gruppo, ma anche dell'ambiente musicale in genere, nonché del quadro storico in cui il tutto si svolge.

Non tutti infatti, a mio modesto parere, riescono a captare quanto è strettamente legata l'evoluzione della musica alla situazione storica, politica e sociale.

Un plauso quindi a Junio. Complimenti!

Mboma alle 21:58 del 23 marzo 2007 ha scritto:

benedetti dinosauri!

Ho sempre avuto sentimenti contrastanti sui Dinosaur Jr. Mi hanno sempre divertito molto, ma li vidi una volta dal vivo e furono scandalosamente svogliati... a loro modo comunque fondamentali, anche s eper me sono ungradino sotto agli Huskker Du. Il loro periodo migliore è certamente quello SST come hai evidenziato, negli anni 90 si erano troppo appiattiti sui loro stereotipi, e Mascis in ogni album alternava ottime canzone ad alcune stucchevoli lagne sbrodo-elettriche. I miei voti ai loro album sono DINOSAUR 7 YOU'RE LIVING ALL OVER ME 8 BUG 8 GEEN MIND 6 WHERE YOU BEEN 6 WITHOUT A SOUND 7 HAND IT OVER 5...brani migliori: The leper, Sludgefeast, Freak scene, let it ride, better than gone e outta hand. Il nuovo album è davvero bello, con reminiscenze da You're lving all over me e alcune ballate non troppo svenevoli. Grande ritorno.

Bartleboom alle 10:13 del primo aprile 2007 ha scritto:

They Always Come..

Con un ritardo che definire imbarazzante è poco, sono qui giunto e finalmente posso farti i complimenti! Splendida pagina.. Cultura musicale e amore per la musica: non conosco chi avrebbe potuto fare meglio! e l'uscita di Beyond si avvicina.. Ciao Don e complimenti

cinnamon man alle 18:13 del 17 aprile 2007 ha scritto:

oh yeah!

monografia esauriente...concordo su tutto...come ti avevo già detto in altra sede, aggiungerei ai padri dell'indie-rock personalità come Greg Sage (Wipers) e Curt Kirkwood (Meat Puppets), che prima dei grandi Mascis e Cobain hanno "traghettato" negli anni 80 gli insegnamenti del sommo Neil Young.

gigino alle 12:07 del 28 maggio 2010 ha scritto:

J is god

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