A Drive Like Jehu - La centrifuga post-hardcore

Drive Like Jehu - La centrifuga post-hardcore

I Drive Like Jehu, originari di San Diego, hanno saputo ritagliarsi un ruolo fondamentale nella scena post-hardcore dei primi anni ’90, elaborando in modo personale ed originale le innovazioni introdotte dai padri Fugazi e Jesus Lizard, e realizzando opere di importanza seminale per tutto l’underground americano del decennio, dal math-rock all’emo”

La carriera dei Drive Like Jehu, pur esaurendosi nell’arco di due soli LP (e nello spazio di 5 anni, fra il 1990 ed il 1995), può venir collocata senza alcun timore reverenziale fra le più originali ed importanti della scena post-hardcore dei primi anni 90’; nonostante l’esiguo numero di pezzi scritti, infatti, il paragone con i “grandi” del genere non pare assolutamente azzardato.

Originari di San Diego, e reduci tutti da significative esperienze musicali e di vita nell’underground USA di fine anni 80’, i Drive Like Jehu (ovvero Rick Froberg, chitarra e voce; John “Speedo” Beis chitarra e voce; Mike Trombino batteria e produzione; Mike Kennedy, basso) sono riusciti nell’impresa di rivitalizzare le atmosfere glaciali, celebrali ed apatiche dell’“epopea Slint”, deformandole in un universo straordinariamente espressivo ed intenso.

Il sound del gruppo, invero, affonda le radici nelle maggiori esperienze maturate in ambito post-hardcore, in primo luogo in quegli artisti che possiamo considerare come i massimi formalizzatori del genere nella sua accezione più classica, ovvero i Jesus Lizard e soprattutto i Fugazi, veri e propri “padri putativi” della band.

I risultati cui Froberg e soci pervengono, tuttavia, sono relativamente differenti e distanti da quelli delle band capostipiti: laddove McKaye e Picciotto erano cerebrali, distaccati, riflessivi e calcolati, lontani da quella che comunemente viene definita l’“urgenza espressiva” dell’hardcore vecchia scuola, i Drive Like Jehu possiedono una carica decisamente più diretta.

I Drive Like Jehu, in fondo, rappresentano una delle espressioni più “alte” ed autentiche di quello che sarà l’“emo-core”, in quanto hanno rivolto le conquiste dei Fugazi verso una forma d’espressione più viscerale e “corporea”, riuscendo nell’impresa di conservare un’aurea di estrema eleganza.

La loro arte è priva di compromessi, tale da risultare quasi eccessiva e spropositata nella sua foga, eppure è estremamente ricca e raffinata.

Nella band di San Diego si ritrovano, seppur in forma particolare, i canoni classici dell’universo musicale di riferimento, ed il suo preludere al mood contemplativo ed indolente che caratterizza molta musica alternativa degli anni ’90. Anche qui, infatti, pare irrimediabilmente perduta la volontà di affannarsi nella ricerca di qualcosa che ricordi la “inside revolution” agognata dalla generazione di inizio decennio. Nessuna utopia: quella di Froberg e soci è senza ombra di dubbio la musica dell’epoca “post-rock” e “post-hardcore”.

Le sue forme, tuttavia, risultano decisamente peculiari.

Fugazi e Jesus Lizard, abbiamo detto; ma il sound dei californiani affonda le proprie radici anche in altri luoghi ed è decisamente originale: quando si parla di Drive Like Jehu è impossibile prescindere dalla vena melodica degli Husker Du e degli Squirrel Bait.

Inoltre, se oggi è possibile individuare derive progressive nel post-hardcore, una fetta importante del merito va attribuita proprio ai quattro di San Diego, musicisti raffinati ed estremamente preparati dal punto di vista compositivo ed esecutivo, fra i pochi ed in ogni caso fra i primissimi in grado di riadattare in un contesto completamente differente le complesse strutture proprie della musica “progressiva”; e non è finita qui: Froberg e soci vanno infatti annoverati anche fra le esperienze più importanti del cosiddetto “math-rock”, attesa l’estrema complessità delle strutture ritmiche (spesso basate su continui controtempi e sugli sfasamenti ritmici tipici del minimalismo, i cosiddetti “patterns”: brevi frasi di metro e lunghezza differenti che, in quanto tali, tendono a creare, all’interno del medesimo pezzo, combinazioni ritmiche estremamente varie).

A conti fatti, la grandezza dei quattro di San Diego risiede nella capacità di assimilare fonti tanto vaste ed ingombranti, per poi ritagliarsi un proprio universo, unico ed inimitabile.

I primi, intensi secondi di “Caress” introducono nei meandri del disco di debutto della band (intitolato semplicemente “Drive Like Jehu”, e pubblicato per la Headhunter nell’anno del giunge, il 1991), a mio parere uno dei risultati più alti cui sia pervenuta l’epoca hardcore.

I feroci glissando della chitarra di Beis non lasciano spazio a dubbi in merito a ciò che l’ascoltatore si appresta ad affrontare: il mondo dei Drive Like Jehu è un concentrato di rabbia, tensioni lancinanti ed angoscia esistenziale; sembra voler richiamare e dar forma a tutto il dolore ed a tutte le speranze adolescenziali del mondo, sembra voler rappresentare il definitivo approdo di tutta un’epopea (l’underground americano degli anni ’80).

Quando gli altri strumenti fanno il proprio trionfale ingresso in scena, il pezzo viene arricchito da un sinistro tocco “sinfonico”; e su tutto si staglia la voce di Froberg, fra le più viscerali della storia del rock: un lama sottile che difficilmente può lasciare indifferenti.

Caress” rende palesi quelli che saranno i parametri stilistici guida di tutto il lavoro: brani relativamente lunghi (fra i 3 ed i 9 minuti abbondanti) e suddivisi in varie sezioni come da lezione progressive; utilizzo ampio del cosiddetto “phasing” nonché di frequenti cambi di tempo; chitarre chirurgiche e calligrafiche; e poi una voce che si riappropria della tradizione hardcore per condurla forse alle sue conseguenze più estreme, in termini di espressività.

Drive Like Jehu” non contiene un singolo pezzo che possa considerarsi riempitivo e anche semplicemente “fuori posto”: la sua grandezza risiede nella sua impeccabilità, che lo avvicina a capolavori coevi come “Repeater”, nonché nella formalizzazione rigorosa.

Formalizzazione che, in fin dei conti, esprime l’umore di chi ha smesso di credere anche nell’ideale che aveva incendiato una fetta della gioventù americana ad inizio decennio, ovvero nell’hardcore-punk e nel suo desiderio di rovesciare come un calzino il mondo della musica e quindi la società americana in toto.

Ascoltare per credere “Spikes to you”, il pezzo più breve e forse più hardcore del lotto, giocato su un sound maestoso e su un ritmo impostato sugli accenti forti con relativo tono vagamente marziale, oltre che sulle mitragliate della chitarra, che si produce in riffs nervosi e quasi “acidi”.

“Step on Chamelon” rincara la dose: un’introduzione puramente strumentale fa da preludio ad un nuovo duetto vocale, costruito su brevi incisi e privo di una vera e propria melodia (tanto che in alcuni momenti richiama l’hip-hop); il tutto si risolve rapidamente in una poderosa accelerazione ed infine in un “call and response” tra Reis e Froberg, in cui il crescendo melodico (costruito su un intervallo di terza maggiore), volto a creare tensione, si assopisce nella “quiete” di una melodia calante.

Con simili composizioni i Drive Like Jehu si dimostrano maestri anche nell’utilizzo di strutture compositive “classiche” in un contesto che si colloca, a tutti gli effetti, agli antipodi.

La stasi ipnotica che introduce “O’ Pencil Sharp” è invece sublime nel suo richiamare le atmosfere della musica ambientale. Dopo oltre due minuti di tintinnii, la band si produce in una sapiente dialettica strumentale di pieni e vuoti, oscurità e squarci di luce. Il tutto si protrae sino al sospirato raggiungimento di una pace, che profuma però di rassegnazione più che di serenità.

Ogni illusione relativa ad un possibile mutamento collettivo è venuta meno, la foga a suo modo positiva ed attiva dell’hardcore dei primi anni ’80 pare svanita nel nulla.

Atom Jack” riconduce verso territori pop-core, sfoderando un’altra melodia notevolissima accanto alle scudisciate delle chitarre ed al solito incedere enfatico della sezione ritmica.

“If it kills you” è pura leggenda, il capolavoro nel capolavoro, uno dei pezzi più belli ed intensi della storia del rock. “If it kills you” significa semplicemente 7 minuti di magia; 7 minuti introdotti da una serie di giri supersonici di basso inframezzati dai tintinnii della chitarra di Reis; il tutto a protrarsi per un interminabile, ipnotico minuto; ed ecco quindi subentrare la prima le percussioni incalzanti di Trombino, poi le chitarre, che si producono in ampie volute, e quindi la voce di Froberg, che disegna una melodia costruita su due brevi incisi in crescendo. Il ritornello si colloca di diritto fra i momenti maggiormente “catartici” ed intensi della storia del rock.

If it kills you” è un meraviglioso inno generazionale a rovescio, la definitiva sepoltura di ogni “Anarchy in the UK” e di ogni illusione annessa.

Good luck in Jail” rappresenta un altro folgorante esempio dello stile della band, contorto, feroce, in cui tanto le spericolatezze della sezione ritmica quanto i voli della chitarra di Reis, che evocano talvolta i Fugazi talaltra i Sonic Youth, sono finalizzati al massimo dell’espressività.

Turn it off” è un assalto frontale giocato sulla dialettica accelerazione-quiete che non concede tregua per oltre 6 minuti. Froberg più che cantare urla, e la melodia è sempre costruita su brevi incisi in crescendo ed un ritornello anfetaminico. E l’atmosfera sembra sempre preludere ad una catastrofe imminente ed inevitabile.

Il disco si chiude con “Future home of Stucco Monstruosity”, ennesimo pezzo impeccabile in cui i Drive Like Jehu riciclano con sapienza, perizia ed originalità il proprio linguaggio.

Al capolavoro seguiranno tre anni di silenzio, interrotti solo dalla pubblicazione del singolo “Hand over first/Bullet Train to Vegas”, prima di “Yank Crime” (Interscope, 1994), secondo ed ultimo lavoro della band.

I tratti salienti del debutto vengono qui rielaborati con personalità, sfociando in composizioni dal sapore decisamente progressivo, ma difettando in parte dell’aurea magica che aveva reso imperdibile il debutto.

Non che manchino, in ogni caso, pezzi degni di nota, veri e propri tour infernali sostenuti da ritmiche incessanti: basti dare un ascolto all’introduttiva “Here come the Rome plows”, forse il capolavoro del disco, un pezzo martellante nel suo incedere marziale eppure capace di regalare passaggi melodici tutt’altro che banali e di vivere di luce propria.

Una lunga introduzione strumentale minimale, durante la quale alla chitarra si aggiungono progressivamente un basso tortuoso e poi la batteria, fa da preludio alla melodia epica di “Do you compute”, altro pezzo notevolissimo conteso fra sezioni al ralenty, in cui Froberg sussurra, ad autentiche esplosioni sonore.

La vena decisamente progressive del disco trova compimento nei 9 minuti e mezzo di “Luau”.

Il pezzo aggredisce l’ascoltatore con le consuete sferzate della chitarra e con la ritmica articolata, mentre sul fondo si intravedono i bagliori di cui luccica l’interpretazione vocale di Froberg, che gioca con la parola che da il titolo al pezzo sino allo sfinimento. La coda strumentale è un coacervo di distorsioni brutali.

Human Interests” sembra cambiare registro, sull’onda di una breve introduzione in cui la chitarra diluisce l’aggressività ritmica e vira verso lidi quasi folk, ma si tratta di un’illusione, giacché il pezzo ritorna rapidamente sulle consuete ed incessanti ritmiche marziali, accompagnate dagli affascinanti volteggi della chitarra: pur conservando un indubbio fascino, la composizione lascia anche intravedere come il linguaggio dei Drive Like Jehu inizi a farsi meno efficace, ed a perdere qualcosa in termini di creatività.

Il pezzo conclusivo, in ogni caso, è da antologia.

Sinews”, con i suoi 9 minuti abbondanti, vira momentaneamente verso atmosfere più malinconiche e quasi slowcore, prima di infiammarsi nel tintinnio della chitarra. La musica acquisisce qui una dimensione onirica e psichedelica inconsueta, in cui anche la componente vocale, costruita sull’alternanza di passaggi “delicati” ed urla debordanti, pare disperdersi.

Il disco segna la fine della breve carriera dei Drive Like Jehu, i cui membri continueranno ad infiammare il contesto post-hardcore americano e non solo con altri progetti (basti pensare a Trombino, che produrrà i Blink 182), fra cui alcuni decisamente degni di nota (Hot Snake su tutti).

Ma nessuno fra i vari eredi, emuli ed ammiratori di sorta riuscirà ad eguagliare la statura dei due dischi a firma della band originaria, vere e proprie pietre miliari per tutto l’underground USA del decennio e non solo (basti ricordare il recente exploit dei Circle Takes the Square).

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

StockholmSyndrome alle 19:49 del 10 febbraio 2009 ha scritto:

Bellissima scheda per un grande gruppo, autore di due album memorabili. Complimenti!

DonJunio alle 20:01 del 10 febbraio 2009 ha scritto:

Preferisco Jesus Lizard e Fugazi, comunque Yank Crime è un discone....benvenuto.

OlioCuoreNero alle 10:31 del 10 marzo 2016 ha scritto:

La voce di Rick Froberg è una delle cose migliori che siano mai capitate alle mie orecchie. Forse solo quella di Jonathan Vance dei Moss Icon mi ha regalato emozioni paragonabili. Ma qui sono bravissimi tutti, un gruppo davvero sublime. Bel ritratto, sentito.