Ecco come la morte di Michael Jackson mi ha cambiato la vita (per un'ora)
Dove eravate, cosa vi stava accadendo quando è morto Michael Jackson?
Sono passati tre anni, oramai, e nel frattempo è cambiato quasi tutto.
Ma il 25 Giugno del 2009, per il sottoscritto, è rimasto un giorno particolare.
La morte di personaggi celebri – ma così celebri da perdere ogni contatto con il genere umano e tramutarsi in entità ultraterrene - in qualche modo ci segna sempre, volenti o nolenti. Anche quando si tratta di musicisti che, in fondo, non abbiamo mai non dico amato, ma neanche considerato più di tanto. Forse succede perché la morte li reintegra nella nostra specie, ci consente di tirare un sospiro di sollievo e di vagliare la loro arte in quanto tale.
Ho dovuto fare i conti con questa sensazione in diverse occasioni, ma solo la morte di Michael Jackson mi ha costretto a ragionarci, per ragioni anagrafiche e non solo.
Ricordo perfettamente che nel Novembre del 1991 il baffone che dava la voce ai Queen è prematuramente scomparso, e ricordo anche il lutto dei miei compagni di classe (lutto da cui molti non si sono mai ripresi, peraltro). Nella mia testa si materializza anche l’immagine dell’amico che, nella primavera del 1994, mi prende in disparte e mi racconta della tragica fine di tale Kurt Cobain, ragazzotto sfortunato che ha deciso di farla finita con un’arma da fuoco, dopo essersi nascosto in qualche buco nella foresta piovosa del nord-ovest americano.
Ma anche in quel caso, l’età mi ha impedito di arrovellarmi sul significato culturale della “scomparsa di un musicista famoso”.
Forse c’entra anche l’importanza del nome: Michael Jackson era la star per eccellenza, roba che personalmente, quanto a potere iconografico, solo il vecchio Elvis ed il suo movimento pelvico (o, se vogliamo, quei parrucconi dei Fab Four) gli si piazzano davanti.
Jacko era l’ominide strambo che ha cominciato ad infastidirti sin dai primi anni ’80, quando ancora indossavi il grembiule all’asilo infantile, perché il suo moon-walk raccoglieva consensi unanimi a destra e a manca, tanto che la vicina di pianerottolo decideva di assegnare il suo nome ad un bastardino ed alcuni genitori facevano persino di peggio (cosa mai avranno fatto di male certi figli per meritare un simile supplizio?).
Naturale quindi che, per quelli della mia generazione, Michael sia non tanto un’icona quando L’icona, anche più di Madonna o degli illustri personaggi sopracitati.
Come reagisci alla scomparsa di una mezza divinità, o forse sarebbe meglio dire di un cartone animato, di una persona che da troppo tempo non sembra più neanche tale (tanto da chiederti se esista veramente o se non sia piuttosto una creazione di qualche astuto manager della TV)?
Un personaggio che peraltro ti infastidisce sin da quando, per la prima volta, ti sei imbattuto nel suo volto (che sembra uscito da un magazzino della Lego) e nelle sue ostentate stramberie (ma come si fa a costruirsi una Disneyland personalizzata?), perché rappresenta l’antitesi di quello che cerchi - o credi di cercare - nella musica?
Io ho qualche ricordo, ed ho deciso di sbattervelo in faccia nell’illusione che questo piccolo “percorso” possa interessare a qualcuno.
Il 25 Giugno del 2009 (se ben ricordo, era un mercoledì) mi ero alzato di prima mattina, ed ero preoccupatissimo perché era il giorno della “barba”, il che significava doversi preparare con almeno dieci minuti di anticipo per liberare il viso dalla consueta, fitta coltre di peli neri, prima di raggiungere l’ufficio e dedicarsi anima e corpo a pratiche legali e corredo vario. Ricordo che stavo ingurgitando mezzo litro buono di caffè-latte, quando qualche irritante TG mattutino mi ha sbattuto la notizia in faccia: “Michael Jackson è scomparso nella notte”.
Lì per lì non ho dato troppa importanza alla cosa, anche perché la barba incombeva.
Poi, durante il tragitto che mi conduce alla scrivania, ho sobbalzato: “Oh cazzo Michael Jackson è morto. Michael Jackson? Lui? Ma no dai…E adesso?”
Naturalmente, in quel periodo si avvicinavano esami di stato importanti e complessi, e per di più avevo appena riscoperto alcuni pezzi da urlo degli Echo & The Bunnymen, diventati improvvisamente Il gruppo della vita, e quindi ero parecchio su di giri.
Per un attimo tutto sparì nel nulla: è morto quel pazzo furioso di Michael Jackson, e la sua assurda esistenza rappresentava una fra le poche certezze della mia vita. Tanto più che lo odiavo da anni, forse decenni, e che questo sentimento faceva a pugni con il dispiacere umano che naturalmente ci pervade davanti ad ogni la perdita, chiunque sia la persona che ci lascia. Era come se fosse finito sui campi elisi il compagno di classe che detestavi perché aveva circuito la ragazzina dei tuoi sogni per poi aspettarti nel cortile della scuola e riderti in faccia.
Verso le 10 del mattino presi in mano il mio cellulare antidiluviano e chiamai la mia ragazza, per riferirle dell’accaduto. “L’ho sentito, mi dispiace tantissimo, era il mio idolo!”. Cosa? No, dopo quattro anni di frequentazioni scoprivo che Michael Jackson non solo le piaceva, ma che addirittura era “il suo idolo”. L’idolo di una persona che passa le giornate a giocare con gli spartiti di gente come Bill Evans, Errol Garner o Thelonious Monk! Pensai seriamente a tagliare i ponti, almeno per un po’: pausa di riflessione perché non puoi adorare Michael Jackson!
Cercai conforto nei colleghi: niente da fare, Michael piaceva a tutti, tutti erano enormemente dispiaciuti ed uno decise addirittura di collegarsi a Youtube per ascoltare “Billie Jean”.
Ero solo, quindi: e costretto a fare i conti con un’inevitabile overdose mediatica destinata ad esasperare la situazione, il che sarebbe avvenuto rapidamente visto che in quel periodo avevo deciso di vivisezionare il mondo della Tv nella speranza di trovarci qualcosa di decente, perché il mondo reale (e soprattutto legale) cominciava veramente a darmi sui nervi (ed infatti, le cose peggiorarono quando vidi Paola e Chiara reinterpretare alcune sue composizioni in diretta on stage).
Comunque, il sabato mattina dovevo partire per Milano, per raggiungere la ragazza ed altre persone. Prima di partire (per inciso, Michael era morto da tre giorni ed MTV gli dedicava speciali su speciali non-stop, roba talmente macabra che ti viene voglia di vomitare anche solo all’idea di affrontarla), mi fermai nel solito negozio di dischi, che oggi assomiglia tanto ad una catena di montaggio e che tre anni fa invece conservava ancora una barlume (piccolo piccolo eh) di umanità.
Quantomeno le commesse ti sorridevano e potevi scambiare due parole con l’amico di turno sul tale ultimo disco della tale ultima sconosciuta indie-band scandinava, mentre oggi hai perso anche questa piccola soddisfazione, e devi stare ben attento a non trattare i dischi della tua vita in modo diverso da come tratti un’anguria o un pezzo di formaggio, perché altrimenti qualcuno potrebbe insospettirsi.
Ecco la follia: corroso dall’entusiasmo che mi circondava, mi comprai una breve raccolta di Michael, anche perché nella tracklist vidi “Man in the Mirror”, l’unico pezzo di Jacko che (sino ad allora) mi piacesse sul serio.
Naturalmente non lo dissi a nessuno, perché in quei giorni spuntavano fan di Michael come funghi; gente che da sempre ignorava la sua esistenza e che comunque si era persa per causa di forza maggiore il Jackson vero (parlo di ragazzini nati nei primi anni ’90), improvvisamente si riscopriva a canticchiare sulle scale mobili dei centri commerciali “Billie Jean” o “Smooth Criminal”.
Una cosa straziante, una cosa che – se non fosse per la tragedia personale – potrebbe indurti a sputare su questo artista e sulla cerchia dei suoi fan dell’ultima ora con tutta la cattiveria di cui sei capace.
La sensazione di essermi omologato a questa brodaglia dai gusti-banderuola mi dava un terribile fastidio, e rischiava peraltro di rovinare la mia reputazione di presunto esperto-appassionato di musica seria ed alternativa. Quindi fui ben attento a non far notare a nessuno la copertina del CD, che solo una volta in macchina scartai ed inserii con rapidità e decisione nel lettore. “Mi attende un’ora di autostrada”, pensavo, “e tanto vale concedere una possibilità a questo personaggio così inquietante (lo ammetto, il suo viso mi ha sempre inquietato) ed assurdo.”
“Tanto conosco già tutto e so che non mi piacerà nulla, dopo un paio di pezzi rimetto London Calliong”: il mio pregiudizio era forte, radicato da decenni di sopportazione sofferta ed anche da alcuni episodi quali una lite risalente ad alcuni anni prima, celebratasi nel salotto di casa mia, quando fui costretto a sfoderare unghie e denti per difendermi ad un gruppo di pseudo-amici, che parevano intenzionati a farmi la pelle per il semplice fatto di non aver riconosciuto in Jacko “il più grande artista di tutti i tempi”.
Ecco, quell’episodio aveva soffiato nelle trombe del mio ego anticonformista ed un po’ narciso (avevo replicato con un “Ve lo meritate, Michael Jackson!” di morettina memoria), tanto che mai e poi mai avrei immaginato di poter rivedere, anche solo in parte, la mia fermissima posizione.
Potere quindi immaginare il fastidio, la rabbia che ho dovuto reprimere quando ho scoperto che Michael, se preso a piccole dosi, specie se targate anni ’70, non solo non faceva schifo, ma addirittura mi piaceva. Una sensazione irritante che si è insinuata poco a poco nella mia testa, quell’afoso pomeriggio di fine Giugno; una sensazione prima rinnegata, quindi repressa ed infine serenamente accettata.
È uno di quei momenti in cui ti senti costretto a riporre l’ascia di guerra ed a fare pace con un nemico immaginario, fosse anche solo perché il giro di basso di “Smooth Criminal”, la languida malinconia di “Man in The Mirror” o la scarica di adrenalina di “Beat it” ti costringono per un segretissimo minuto a tenere il tempo sul cruscotto, e forse persino a canticchiare il ritornello sotto il sole cocente, mentre progressivamente scorrono i cartelli verdi che ti accompagnano verso la città.
E tutte le battaglie pro musica alternativa, e tutte le diatribe sul Jackson solo personaggio-e non musicista? Improvvisamente mi parvero delle emerite stronzate, e sentii che in qualche modo dovevo scusarmi con lui, per averlo maltrattato per tanti anni, valutando (proprio io, che detestavo un simile approccio) prima il personaggio e poi la musica (che poi non fosse solo farina del suo sacco importava poco).
Solo in quel momento realizzai che Jacko, probabilmente, non era il mostro che avevo sempre visto in lui; anzi, forse era addirittura il personaggio più solo e più triste dell’intero star-system, un Peter Pan costretto a vivere in una bolla di vetro senza spifferi né spiragli di luce sin dall’età di 5 anni, un afro-americano deturpato dalle proprie ossessioni per il colore della pelle, un ragazzo talmente oppresso dal mondo dei media da diventare, poco a poco, la triste caricatura di sé stesso.
Sì, forse, nonostante i miliardi, le pagliacciate e la tanta produzione-spazzatura post 1987, Michael meritava più comprensione che odio, più simpatia che disprezzo.
Glielo dovevo, perché – contro ogni previsione -. mi aveva allietato per un’ora buona, con poche cadute di stile e con tanto groove da rizzare i peli sul collo, grazie a canzoni che riscoprivo molto più interessanti ed avvincenti di quanto pensassi: dovetti allora fare i conti con il mio ego ed ammettere che Michael, sotto sotto, almeno in alcune fasi, era stato un musicista interessante, e mi piaceva.
Intendiamoci, quel viaggio non ha cambiato la mia vita: non sono diventato un fan di Jackson, nonostante le pressioni della ragazza, né ho speso più un euro per un suo disco; ma da quel momento ho imparato a rispettarlo, e forse a rivedere alcune rigide convinzioni inculcatemi dal mondo indie, che rischiavano di trasformarmi in una sorta di robot che seleziona gli ascolti sulla base della provenienza e del nome dell’autore, snaturando il concetto stesso di amore per la musica.
Ecco, in cuor mio, quel pomeriggio ho promesso di riscattare tutto il fango gettato addosso a Michael per anni ed anni con questo piccolo omaggio, che naturalmente serve solo ed esclusivamente a me stesso, e che proprio per questo mi lascia particolarmente soddisfatto, quasi mi fossi confessato e quindi redento.
Ciao Michael, e grazie per l’ora di spasso.
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