A Folk e Country - Le vertigini di Gene Clark

Folk e Country - Le vertigini di Gene Clark

Dici Gene Clark e non puoi che pensare ai Byrds, gruppo simbolo del rock americano degli anni 60. Della band californiana l’uomo del Missouri era stato il leader indiscusso, interprete di quella miscela di rock, beat e folk che permise loro di combattere ad armi pari la British Invasion. Certo, l’artefice del marchio di fabbrica del gruppo era il chitarrista Roger McGuinn, dalla cui Rickenbacker si irradiava il celeberrimo luccichio jingle jangle che cambiò le carte in tavola con l’elettrificazione di “Mr Tambourine man”.

Ma perle quali “I’ll feel a whole lot better”, “Here without you” e “Set you free this time”, destinate a non vedere mai un grammo di polvere posarsi su di loro, uscirono dalla penna dell’ introverso Gene. L’avventura di Clark nei Byrds si esaurì inopinatamente , nel 1966, subito dopo aver posto il proprio sigillo alla straniante “Eight miles high”, l’ingresso nell’era psichedelica sancito da quell’incredibile assolo coltraniano di McGuinn. Roger, che provava per Gene quella gelosia che avrebbe poi maturato anche per David Crosby e Gram Parsons, aveva iniziato a fargli terra bruciata attorno, e approfittò del celebre attacco di panico di Clark prima di un volo a Memphis per estrometterlo dal gruppo.

Tutti fatti ben presenti in qualsiasi storia rock che si rispetti. Peccato che non altrettanto si possa dire del percorso solista di Gene Clark, nonostante egli abbia regalato una messe di canzoni straordinarie in almeno due capolavori, fulgidi archetipi del country-rock tanto in voga a cavallo degli anni 70. Nonché pietre miliari del cantautorato tutto, grazie a un lirismo visionario con pochi eguali, sprigionato dai delicati intrecci del virile baritono di Gene con soffici ghirigori di chitarra e organo.

I Think I’m gonna feel better (alone in the countryside)

La prima volta in proprio di Gene è datata 1967 : “Gene Clark with the Gosdin brothers”. Album particolarmente sfortunato nelle vendite anche per la decisione della CBS - che mal aveva digerito il suo divorzio da McGuinn - di farlo uscire nella stessa settimana di "Younger than yesterday", senza contare la co-intestazione coi Gosdin Brothers (che forniscono solo melodie vocali). Tra questi solchi Gene ondeggia da par suo tra reminiscenze folk-beat e suggestioni wescoastiane declinate dal suo cristallino talento pop in piccole gemme come la disincantata "I think I'm gonna feel better", la squisita "The same one" e il gustoso arabesco di "Is yours is mine": e che dire del supremo pastiche melodico di “Echoes”, scandito dal pianoforte barocco di Leon Russel?

L’album in questione sancisce inoltre uno dei primi ibridi del nascente country-rock. Convenzionalmente, si attribuisce la paternità di quel genere al Gram Parsons, che proprio nel 1967 per primo unì le steel guitar dei padri alle chitarre taglienti dei giovani virgulti con la sua International Submarine Band, per poi suggellare la rivoluzione roots trasformando proprio i Byrds di “Sweetheart of the rodeo”. Clark si inserisce nel medesimo filone, pur rimanendo un folk rocker intento a sfrondare la tradizione musicale a stelle e strisce, e non un autore country tout court come il fenomenale Gram. Si può tuttavia a ben donde affermare che gli esiti siano stati speculari: una nuova american music di straripante vitalità e profondità (“Cosmic” per Parsons, più intimista per Gene), certamente coeva alle visioni di “americana” che nello stesso arco di tempo Bob Dylan & The Band stanno forgiando nella celebre magione a Big Pink.

Non è un caso che tra gli ospiti del debutto di Gene figurino Clarence White e Doug Dillard. Il primo, chitarrista bluegrass di rinomata fama che avrebbe suonato proprio su “Sweetheart of the rodeo”, arricchisce di scoppiettanti fragranze made in Nashville la tiratissima “Tried so hard”, fulgido esempio di country-rock che sarà interpretato dai più svariati artisti (dai Flying Burrito Brothers agli Yo La Tengo). Dillard è invece un virtuoso del banjo, entrato nel giro di Clark avendo aperto per i Byrds diversi concerti nel 1965 con la sua band bluegrass. Ragazzone solare di campagna, egli convince Gene a lanciarsi in un’avventura nuova di zecca, la Dillard & Clark, affiancati dal fior fiore dei musicisti di estrazione roots (dal futuro Eagles Bernie Levin a Byron Berline)

L’America vista da un sidecar: la Fantastic Expedition

Il sodalizio dura un paio di album: "The Fantastic Expedition of Dillard & Clark" (1968) e “Through the morning, through the night” (1969). Il primo raffigura in copertina i due in un sidecar fiammante, “easy riders” lanciati verso un pionieristico viaggio a rotta di collo per le polverose strade americane, in un delirio di fiddle, steel guitar,  bottleneck, banjo e organi che sposano le accattivanti composizioni di Clark, e le sue storie intrise di innocenza perduta e di un candore accecante. L'iniziale "Out on the side" è un esauriente e sublime manifesto di "americana": soul di profondità sconfinata, affrescato da un organo sinuoso e da fiati smaglianti. Si prosegue con le filastrocche romantiche di Gene impastate nel country-rock convulso di "She darked the sun",  "In the plan", "Lyin' down the middle", "Don't come a rollin" o nello stupefacente sincretismo country-rockabilly della presleyana "Don't be cruel": ardenti quanto una palude dicembrina prosciugata ma rese vivide da quel cantato perennemente strappato all'oscurità, dal quale grondano lirismo e soave malinconia. Perché il segreto di Clark è sempre stato quello, fin dai tempi delle risacche byrdsiane: sotto le asperità frenetiche si cela la sua tenerezza disarmante, in gemme melodiche quali "With care from someone" (struggente noir dal retrogusto jazz), la spagnoleggiante "The Radio song" e la limpida e sofferta "Something's wrong". Fino al brano più celebre del lotto, la dolceamara "Train leaves here this morning", condita dalle armonie e le fragranze dei grandi spazi aperti americani. Un autentico capolavoro, benché conosciuto soltanto a una cerchia ristretta di appassionati: la materia sonora trattata è del resto troppo in anticipo sui tempi, che soltanto di li a poco vedranno un fiorire di fiddle e steel guitar.

Miglior sorte non tocca a “Through the morning, though the night”, opera che accentua la ricerca stilistica attorno allo scibile roots ( numerosi standard vengono rivoltati come un calzino dal banjo di Dillard), oscurando parzialmente il particolare lirismo di Clark, in grado pur sempre di sciorinare coriandoli incantevoli quali la title track, “Kansas City Southern” e “Polly”. Per l’instabile Gene è giunto il momento di scendere dal sidecar.

La luce bianca

Dopo due anni passati in California tra abusi alcolici e un crescente isolamento dalla scena, il 1971 segna l’apice del Gene Clark solista,“White Light”. Leggendario a partire dalla copertina: un uomo solo, intento a suonare sullo sfondo di un tramonto californiano. Una "luce bianca" filtra, lasciando trasparire l'immensità dell'infinito e un banale refuso tipografico priva l'album del suo titolo. Precede di pochi mesi due pietre miliari del cantautorato quali "Harvest" e "Pink Moon", ai quali è certamente affine. Dell'opera più celebre di Neil Young, esso condivide lo spleen westcoastiano e le ariosità nashvilliane, tra organi, bottleneck e squisiti soffi d'armonica. Il coinvolgente intimismo sonoro e lirico, l'atmosfera volutamente fuori dal tempo e il minimalismo di parecchie composizioni lo rendono invece l'equivalente americano dell’ epitaffio di Nick Drake.

“White light" si compone di nove episodi di bellezza adamantina, in cui la voce di Gene e il suo peculiare modo di pizzicare la sei corde ammaliano sia quando dipingono asciutti e struggenti quadri come in "With tomorrow" o "Where my love lies asleep", sia quando intarsiano spumeggianti elegie dal sapore byrdsiano in "White light" e " 1975". Altrove prende forma un'odissea visionaria che, pur narrando i dolori di questo mondo, si sublima in un canto pieno di speranza, come in "The virgin", "Because of you", "One in a hundred" o nella magnifica "Spanish guitar". Di quest’ultima Bob Dylan in persona - della cui “Tears of rage” è presente una cover maestosa - affermerà che avrebbe voluto ospitarla nel proprio canzoniere, e miglior complimento non crediamo possa esistere.

Across the bridge, across the river where we’ve never been before

Dopo la rimpatriata coi vecchi sodali McGuinn e Crosby del 1973, Gene torna in pista un anno dopo con “No Other”, ennesimo eccellente album che si propone come una svolta nella propria carriera. Da una parte la produzione spectoriana di Thomas Jefferson Kaye calca la mano su calibrati arrangiamenti, a base di cori gospel e arzigogolate soluzioni, che inficiano episodi come “Some misunderstanding” o "Strenght of strings".

Il Clark più autentico non manca di certo, illuminando con il consueto calore il country sommesso di “The true one” e “Life’s greatest fool”, o le buone vibrazioni folk della title track. In un ipotetico “best of” del nostro non potrebbero poi mancare le forme dilatate di “Silver Raven” o la rapsodia dylaniana di “Lady of the North”. Inutile ribadire come anche questa volta la proposta di Clark venga ignorata dal grande pubblico, che dell’ormai dominante country-rock all’epoca sembra apprezzare solo le banalizzazioni autostradali dei vari Eagles e John Denver e che cercava di ingabbiare lo stesso Neil Young nel cliché nashvilliano.

Ma se il cocciuto Neil uscirà dalla crisi post-Harvest ( soltanto commerciale, non certo artistica) della trilogia maledetta col colpo di reni di “Zuma”, Gene Clark si lascia sopraffare dall’alcool e quella sua voce dolente sa sempre più di sconfitta. Da lì in poi alternerà reunion coi Byrds ad album solisti meno ispirati e più disillusi e che, sebbene lontani dai bagliori di “White light” sapranno sempre riservare sottili piaceri a chi vi ci si avventurerà.

Si pensi al discretoTwo Sides Of Every Story” del 1977 e al placido “Firebird” del 1984, che tiene a battesimo una generazione cresciuta nel solco clarkiano: R.E.M., Tom Petty e l’intera scena Paisley Underground. Canto del cigno del nostro eroe è invece il variegato e morbido “So Rebellious A Lover” del 1987 ( in coppia con Carla Olsen), con gli ultimi gioielli del suo scrigno:Why Did You Leave Me Today”, “Gypsy Rider “e “Del Gato”, toccanti sunti della sua carriera. Nel 1991 il cuore di Gene, l’uomo che a otto miglia di altezza scoprì le vertigini del successo, smetterà di battere: lasciando un’ eredità preziosa, ribadita da numerosi attestati di stima e tributi (si pensi alla “Gene Clark” dei Teenage Fanclub.). Una cima del songwriting difficilmente eguagliabile, una luce bianca che non smetterà mai di brillare.

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loson alle 17:37 del 14 giugno 2009 ha scritto:

Ottima retrospettiva di questo grande - e poco celebrato - artista. Bravo Don!

FrancescoB alle 10:15 del 6 gennaio 2011 ha scritto:

Questa mi era sfuggita. Grande Don, e grande Gene, artista immenso.

hiperwlt alle 18:57 del 26 novembre 2011 ha scritto:

ricostruzione sublime, per un'artista che sto cominciando solo ora ad apprezzare - a partire da "white light" - in veste solista.

Utente non più registrato alle 13:29 del 4 aprile 2016 ha scritto:

Molto bello No Other