A Folletti giganti - Gli incantesimi sonori dei Pixies

Folletti giganti - Gli incantesimi sonori dei Pixies

Avete presente la canzone che accompagna la scena finale di “Fight Club”, quando i grattacieli si schiantano uno a uno in un sinistro anticipo dell’11 Settembre, sotto gli occhi di Brad Pitt e Ed Norton? Era “Where is my mind?” dei Pixies, sunto supremo dello stile del gruppo di Black Francis: paranoico e febbrile, urticante e melodico, incantato e frenetico.

L’importanza della band bostoniana è ormai assodata: assieme ai concittadini Dinosaur Jr i Pixies scrissero la sintassi dell’indie-rock alla fine degli anni 80, preparando l’avvento del grunge e dell’alternative negli anni 90. Fu Kurt Cobain a certificare ciò, quando ammise in una celebre intervista che la composizione di “Smells like teen spirit” fu un tentativo di ricalcare l’inimitabile stile dei folletti, fatto di canzoncine lunatiche lanciate in corsa al confine tra sinuosità melodiche e frammentazioni rumoriste. La storia è nota: i Pixies si sciolsero proprio nel momento in cui “Nevermind” era in testa alle classifiche, non beneficiando di un sommovimento epocale al quale avevano contribuito come pochi altri, ma sarebbero stati citati come influenza dai più importanti gruppi degli anni 90, dai Radiohead agli Smashing Pumpkins.

La leggenda nasce a Boston nel 1985. Charles Thompson (che prenderà il nome d’arte di Black Francis) e il chitarrista Joey Santiago cooptano la bassista Kim Deal ( tramite un annuncio in cui volevano formare un gruppo alla Husker Du) e il batterista David Lovering, Nascono i Pixies, sodalizio che inizia a farsi le ossa nei locali della fiorente città del Massachusets. Vengono notati da Gary Smith, mentore delle Throwing Muses, il quale riesce a farli approdare alla 4AD, che pubblica nel 1987 il primo ep dei nostri, “Come on pilgrim”.

Benché in forma grezza, tale lavoro mostra appieno le coordinate sonore del gruppo, intento a rivoltare come un calzino la tradizione rock americana, con un effetto di insieme dissacrante e sorprendente. Black Francis, cantante sguaiato e chitarrista, è un cantautore spastico e cialtrone, un Neil Young passato in centrifuga Pere Ubu, capace di riversare in canzoni di tre minuti un immaginario cinematografico morboso e inquietante alla David Lynch, tra extraterrestri, torbide visioni e storie bibliche. Pochi gruppi possono dire di aver creato universi nella loro musica, e per i Pixies vale certamente ciò.

Leader tracotante e incontrastato, vocalist capace di sussurrare, urlare e ammaliare con ugual bravura, il pingue Charles trova però in Santiago e Deal gli insostituibili contrappesi che ne renderanno unica la miscela sonora. Il chitarrista di origini filippine distilla coltri di rumore stridente e limpidissimo allo stesso tempo, mentre la bassista sarà l’anima melodica del gruppo, come dimostrerà in seguito con le Breeders.

Abbondano già gli episodi memorabili su “Come on pilgrim”: dalle cavalcate surf punk deformate di “Vamos” e “Isla de Incanta” (Francis, segnato da un’esperienza di studio a Portorico, fu tra i primi a immettere lo spanglish nel circuito pop), al country demenziale di “Holiday song” e “Nimrod’s son” fino al reggae scheggiato di “Levitate me”, anche se il gruppo dà il suo meglio in finte ballate, condite da momenti estatici e lirici, quali “Ed is dead”e “Caribou” (quest’ultima cantata dalla suadente voce di Kim).

Il passo successivo è ancora più ambizioso: nel 1988 esce “Surfer Rosa”. Lavoro da sempre controverso, tra fan e addetti ai lavori, in quanto nel ruolo di produttore è presente Steve Albini. Icona noise con Rapemen e Big Black, Albini diventerà un simbolo del decennio successivo anche grazie a tale lavoro, col quale esaspera le asperità del suono Pixies, costringendo il gruppo a capire perfettamente quali fossero i suoi limiti e le sue potenzialità. Il risultato è semplicemente perfetto, incastonando sferragliate abrasive e caotiche in ruvide tessiture armoniche. Non a caso Cobain, che nel 1989 citò “Surfer Rosa” come suo 33 giri preferito degli ultimi cinque anni, avrebbe scelto Albini per la produzione di “In Utero”.

Classici inossidabili di tale capitolo sono l’opener “Bone Machine” scandita dai marziali e cupi rintocchi di Lovering, il boogie lisergico di “River euphrates” ma soprattutto “Gigantic”, conposta da Deal e Francis in coppia e cantato da Kim: pezzo di straordinaria leggiadria, capace di far deflagrare un sinuoso giro di basso in un vortice di melodia distorta, perfezionando la dicotomia silenzio-feedback. Praticamente il sound di “Nevermind” sta tutto in questa canzone. La già citata “Where is my mind” è infine l’apice di questo album: descritta da Francis come “una di quelle canzoni di Neil Young che si trovano perse nell’universo”, è scandita dal celebre riff chitarristico e dai limpidi contrappunti della chitarra solista. Un pezzo che ispirerà centinaia di epigoni, dai Peppers di “Under the Bridge” ai Weezer di” Say it ain’t so”, arrivando persino agli Interpol di “Rest my chemistry”.

A questo punto i Pixies sono delle stelle assolute dell’underground, popolarissimi soprattutto in Europa, portatori di una filosofia che potremmo definire “pixismo”: cialtroni e sguaiati, misteriosi e ironici nel delineare le frustrazioni tipiche dei college rocker e di quelli che saranno chiamati slacker.

La consacrazione arriva col loro capolavoro , “Doolittle”, del 1989.

Scelto il meno invadente Gil Norton in cabina di regia, Black Francis e soci realizzano un lavoro capace di saldare tutte le influenze del gruppo in maniera freschissima e devastante, dando l’idea della modernità dei tempi come solo i Jane’s Addiction all’epoca facevano. Chiarisce tutto il primo brano, il trascinante sabba “Debaser”, condito dall’invasato cantato del leader, dagli inconfondibili cori della Deal, da un basso fulminante e da riff e intrecci chitarristici memorabili. Esemplare il testo: non tanto per la citazione di “Un chien andalus” di Bu ņ uel, quanto per il rileggere uno degli stilemi tipici della futura “Generazione x” con sguardo disincantato e bizzarro, senza nessuna autoindulgenza. “Tame” è un altro brano quintessenziale: come suggerisce il titolo, cerca di ingabbiare la furia del sound Pixies dentro un ritornello folgorante, “Gouge away” e “I Bleed” schiantano come da prassi irregolari armonie in vertigini rumoriste, mentre la limpida fluidità di “Wave of mutilation” catapulta in una magnifica oasi surrealista.

Se il finto folk di “Hey”, il frizzante ska di “Mr.grieves”, la new wave ironica di “La la love you”, l’acida e tribale “Dead” e le disorientanti armonie di “No 13 baby”, “There goes my gun” e “Sliver” ampliano a ventaglio lo scibile trattato, l’epidermico funky trascinato di “Here comes you man” o la grandiosità trattenuta di “Monkey gone to heaven” ( con misurato arrangiamento d’archi) rivelano appieno il talento pop del gruppo.

Il successivo “Bossanova” (1990) si propone infatti come opera più deliberatamente accessibile e solare. Il rumore diventa ormai un elemento secondario, contorno a ritmicità sempre meno spigolose . “Velouria”, fluttuante ed eterea, è in tal senso un acme insuperabile, mentre il refrain di “Dig for fire” è di bellezza accecante. “Hang wire”, “Alison” e “All over the world” mantengono tracce della tagliente frenesia del passato, ma pare evidente come sia iniziata la parabola discendente di chi aveva raggiunto la perfezione troppo presto. Ne è prova il passo seguente, “Trompe le monde” (1991), di fatto un album solista di Francis. L’inserimento di insistite tastiere rende più pesante il sound, conferendogli un tocco barocco in alcuni frangenti, ma ciò non riesce rivitalizzare più di tanto il sound, deficitario soprattutto in canzoni statiche come “U-Mass” , in cui l’indole rumorista si mantiene sterile senza sfociare in quegli estrosi e irripetibili vortici armonici e disarmonici allo stesso tempo. Restano però alcuni brillanti intuizioni ( come l’incalzante cantato su pesanti accordi distorti della title-track, l’accelerazione spasmodica di “Planet of sound” e “Sad punk” e soprattutto la spiritata cover di “Head on” dei Jesus and Mary chain”).

Dopo lo scioglimento nel 1992, Black Francis ha intrapreso una carriera solista come Frank Black: alacre al limite della bulimia, forse il solo “Teenager of the year” del 1994 è però riuscito a poter rivaleggiare con le mirabilie fatte in passato. Kim Deal ha invece fatto il botto col secondo album delle Breeders, quel “Last splash” che nel 1993 cavalca l’onda montante del grunge grazie all’irresistibile ruvidezza pop-grunge di “Cannonball”, ma non è più riuscita a ripetersi. Inevitabile dunque la recente reunion, per tornare sotto i riflettori. In attesa di vedere se al quartetto bostoniano riuscirà il colpo come ai Dinosaur jr, la leggenda rimane intatta. Estroso, burlone e magico: tale rimarrà per sempre il mondo dei Pixies.

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Marco_Biasio alle 14:54 del 31 luglio 2007 ha scritto:

O_O

DEBAAAAAAAAAAAAAASEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEERRRRRRRRRRRRRRRR

cinnamon man alle 14:18 del 20 agosto 2007 ha scritto:

got me a movie I want you to knowwww

grande retrospettiva, don, come sempre...dei Pixies stupende I've been tired, Holyday song, Here comes your man, Debaser, Gouge Away, Break my body, Monkey, Broken Face...mai amato invece la blasonata Where is my mind...

enjolras alle 16:30 del 31 marzo 2008 ha scritto:

hope everything is alright !!!!!!!

grande pagina donj. ma io ti conosco e lo so come scrivi !sono sempre andata fuori di testa quando in mr. grieves attaccavano con quel pezzo: you can cry you can mope but can you swing from a good rope oooooh oh i believe in mr. grieves..

Grandi.

Lux alle 12:29 del 14 aprile 2008 ha scritto:

Mamma li nani!

Gruppo adorabile