Genesis - Monografia (2/5)
III - "Play me Old King Cole" e altre storie
Non tutto è rose e fiori per i "nuovi" Genesis: subito dopo le registrazioni del disco, Phillips lascia, provato dai ritmi frenetici della vita on the road e poco convinto dell'atteggiamento più professionale che la band va maturando; più tardi se ne va anche Mayhew, inspiegabilmente (a tutt'oggi risulta non aver mai riscosso le loyalties su "Trespass"). Ormai avvezzi alle difficoltà, i tre superstiti non si perdono d'animo e, anzi, colgono l'occasione per rafforzare l'organico e dare alla band il suo aspetto definitivo. Con l'ingresso del batterista/corista Phil Collins e del chitarrista Steve Hackett (entrambi ingaggiati dopo una serie di annunci sul sempre provvidenziale "Melody Maker"), la formazione è al gran completo e può imbarcarsi, assieme a Van Der Graaf Generator e Lindisfarne, in una tournée di nove date organizzata da una Charisma ansiosa come non mai di esibire ai quattro venti i suoi pezzi pregiati.
La fitta attività concertistica prosegue senza soste fino al giugno del '71, quando Gabriel si frattura una caviglia durante uno show ed è costretto a sospendere per alcuni mesi le sue peripezie sul palco. Ancora una volta, l'apparente accanimento della cattiva sorte si tramuta in una gradita pausa di riflessione, durante la quale il gruppo ha modo di pianificare con più calma le sue prossime mosse e, in particolare, dare corpo al nuovo album. In realtà, a detta di Hackett, gran parte del materiale era pronto già ai tempi di "Trespass": in particolare la celeberrima "The Musical Box" che, sempre secondo il chitarrista, era stata in larga parte composta da Phillips (per inciso: è proprio di quest'ultimo l'idea di accordare in fa diesis le prime tre corde della 12-string guitar e ottenere così quel suono arcaico che contribuirà non poco alla riuscita del brano).
Con "Nursery Crime" (1971) i Genesis entrano nella loro stagione aurea e definiscono, una volta per tutte, la cifra stilistica che li accompagnerà fino al periodo immediatamente successivo alla dipartita di Gabriel. Si tratta, per lo più, di brani complessi ed articolati, pregni di arabeschi classicheggianti così come di digressioni acustiche che testimoniano una mai sopita passione per il folk inglese. Emblema di questo stile è appunto la sinistra "The Musical Box", una delle pagine più consistenti e giustamente celebrate del complesso, sognante altalena di arpeggi medioevali e trascinanti cavalcate elettriche che, proprio in coda, sfodera quel maestoso finale che farà scuola fra le giovani leve della scena italiana. Altrettanto baldanzose sono le altre due suite: "The Return Of The Giant Hogweed" (guidata da un mostruoso lavoro di Hackett all'elettrica) e "The Fountain Of Salmacis", con gran dispiego "mellotronico" di un Banks che si lascia un po' prendere la mano. Altrove il gruppo coltiva i delicati fiori primaverili di "For Absent Friends" e "Harlequin", entrambe spoglie e dolcissime, oppure si lascia rapire dal vaudeville surreale della vivace "Harold The Barrell".
Le velleità letterarie si sciolgono invece come neve al sole fra le storie improbabili della piccola Cyhthia che gioca a cricket con la testa del coetaneo Henry, dell'ambiguo Hermafroditus che lancia una maledizione sulle acque di Salmacis o di mostruose edere giganti che invadono il Regno Unito. Conforta però notare come l'inconsistenza di questi soggetti sia funzionale alla creazione una dimensione "altra" - che trascenda cioè la morbosità del reale - in cui trasportare l'ascoltatore/spettatore. Tutto ciò conferma le osservazioni fatte in partenza: i Genesis parlano una lingua che la mente razionale non può comprendere e che, spesso, ripudia. Una lingua eccessiva, a tratti fastidiosa, sovraccarica di metafore e simbologie frastornanti, ma che, nel suo essere palesemente fittizia e deputata alla pura evasione, assolve un compito fondamentale: ricordarci il (dis)piacere della creazione fine a se stessa, del vaneggiamento, della fantasia (e, si badi, non di quella fantasia "alta" e letteraria di un Lewis Carroll ma di quella inutile e assolutamente scevra di pretese concettuali di un fumetto di serie Z comprato dal giornalaio all'angolo).
Con profondo sconcerto di Gabriel e compagni, il disco segna un sonoro tonfo di vendite in Inghilterra: appena 6.000 le copie smerciate nei primi mesi, davvero poca cosa rispetto alle cifre ben più sostanziose che altri gruppi "progressivi" possono vantare all'epoca. Stavolta la band sembra davvero ad un passo dello scioglimento quando, inaspettatamente, buone nuove giungono da terre straniere: si tratta del Belgio e dell'Italia, dove "Nursery Crime" sta registrando vendite da capogiro e il pubblico pagante muore dalla voglia di vedere i cinque in azione. Detto fatto: il gruppo fa le valigie e inizia un tour trionfale in quei paesi, mostrando alle genti del continente quel mondo incantato fatto di antiche leggende (inventate) e soffici planate sinfoniche, giocandosi come asso un Gabriel ormai sbocciato autentico performer di razza.
Qui nel bel paese, in particolare, le esibizioni del gruppo destano sensazione: un'intera generazione di appassionati conserverà il ricordo di quelle serate e dell'eccitazione palpabile che si avvertiva nel confrontarsi con quella musica che aveva barattato la ruvida spigolosità del rock'n'roll per la smussata ascesi delle tastiere e quei levigati giochi chitarristici mai troppo invadenti. Ed è proprio in Italia, e precisamente a Napoli, che i Genesis hanno l'intuizione principale per quella "Watcher Of The Skies" che diverrà uno dei brani di punta del loro nuovo long playing.
IV - Lo stratagemma della volpe
Per le registrazioni del successore di "Nursery Crime" la Charisma - evidentemente ansiosa di far breccia nel diffidente mercato americano - affida la band alle cure di Bob Potter, già alla console per Bob Dylan e Simon & Garfunkel. L'intesa non è delle più felici (la lunga introduzione strumentale di "Watcher Of The Skies" procurerà diversi sbadigli al produttore) e così, dopo una sola settimana, il "maghetto" Potter se ne va. Subentra tale Tony Platt, ma anche con lui non c'è intesa. Alla fine la band opta per David Hitchcock e l'ingegnere del suono John Burns, il cui apporto sarà preziosissimo per modellare i suoni e dare alla band il risultato sperato.
Il superbo "Foxtrot" esce finalmente nell'Ottobre del 1972 ma, curiosamente, il 45 giri che la casa discografica fa uscire di lì a breve contiene un lato A che nemmeno è presente nel disco (la modesta "Happy The Man") e come B-side ripesca addirittura "Seven Stones" dal precedente LP. In poche parole: un disastro. A volte c'è davvero di che stupirsi nell'insensatezza di certe logiche mercantili (leggasi: l'ansia di avere un singolo ad ogni costo per la gioia di poche migliaia di ascoltatori distratti) che, paradossalmente, finiscono per danneggiare un gruppo piuttosto che incrementarne il seguito.
Fin dalla copertina, il disco si presenta come il capitolo più kitsch di tutta la discografia dei Genesis. Attenuati i toni arcani dei dischi precedenti, qui la band può finalmente sfogare la sua vena più parodistica e dar vita ad una spumeggiante "commedia progressiva" mascherata da poema sinfonico. Stiamo parlando ovviamente di quella "Supper's Ready" che, nei suoi 22 minuti, illustra il tentativo di creare una sorta di music-hall "totale" in cui far confluire tutto lo scibile in fatto di musica popolare. Il brano è infatti un mastodontico, putrescente ammasso di materiali eterogenei (anche e soprattutto di serie B) legati fra loro a mò di sketch d'avanspettacolo ed inseriti a forza in un caos quasi "mahleriano" dove il vocabolo popolare coesiste con l'enfasi romantica e il grottesco va a braccetto con il tragico.
La storia, come al solito, è contraddistinta da una quasi ossessiva ricerca del trash più sublime: due amanti vengono catapultati dal salotto di casa nel bel mezzo della lotta fra bene e male (avete presente l'episodio di South Park "Inferno Vs Paradiso"?), in cui è tutto un proliferare di personaggi assurdi e situazioni paradossali (buffissima è la discesa nell'ade a tempo di marcetta) e dove, alla fine dei combattimenti, il Cristo vittorioso (risorto per l'occasione) guida l'umanità intera verso la nuova Gerusalemme. I testi, di conseguenza, sono tutto un proliferare di riferimenti biblici, battute alla Monty Phyton e metafore burlesche che lasciano sovente allibiti per ricercatezza e potenza evocativa.
Altrettanto corposo è l'elenco dei riferimenti musicali: hard-rock, folk, cabaret brechtiano, classicismi a profusione, ricami medievaleggianti, metriche sghembe ("Apocalypse In 9/8" è esattamente quel che il titolo promette), il tutto miscelato con l'inconfondibile "stile Genesis" che conferisce alla pietanza il giusto grado di compattezza e sapidità.
Incredibilmente, il resto del disco è solido ed inventivo: se l'epica, ossessiva "Watcher Of The Skies" ci guarda dall'alto della sua perfezione sintetica (merito del ritmo sincopato e vagamente jazz di Collins e del mellotron ubriaco di Banks), le ballate "Time Table" e "Can-Utility And The Coastliners" (spartana e nostalgica la prima, foriera di spunti evocativi la seconda) sigillano un patto indissolubile con l'ascoltatore nel (ri)proporre l'eterno fluire di un suono ormai divenuto archetipico.
La palma di brano più spassoso se l'aggiudica però "Get 'Em Out By Friday", un altro quadretto umoristico dal brillante taglio cinematografico che si dipana fra accelerazioni frenetiche e momenti più pacati (fate caso alla qualità squisitamente narrativa dell'interludio strumentale) in cui Gabriel, ancora una volta, alterna diversi registri caricaturali per vestire i panni dei personaggi coinvolti nel varietà. Singolare è invece la brevissima "Horizons" che vede il riflettore puntato sul solo Hackett, intento ad arpeggiare con l'acustica un motivo non troppo originale (che sia la sua risposta a "Mood For A Day" di Steve Howe?).
A conti fatti, "Foxtrot" resta un grandioso distillato di quel suono obeso di trovate che, sotto diversi punti di vista, è il tratto più distintivo dell'arte di Gabriel e soci. Attenzione, però, a non confondere l'abbondanza di orpelli con la prolissità o il cattivo gusto (due vizi dai quali la musica migliore dei Genesis è sostanzialmente immune): uno dei più alti meriti del complesso sta proprio nel riuscire sovente a snellire l'ingombrante carico ornamentale mediante la spigliatezza dell'apparato strumentale e una capacità di scrittura al di sopra della media. Il che, in un genere affetto da una quasi congenita tendenza alla pesantezza, non è certo poco.
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