A Here Comes a Regular: il mito dei Replacements

Here Comes a Regular: il mito dei Replacements

Quando stavo al college, suonavo in una band e il mio sogno era diventare il nuovo Paul Westerberg”.

Ci vuole questa frase, fatta pronunciare da Bret Easton Ellis, il più importante scrittore americano contemporaneo, al protagonista di uno dei suoi romanzi più celebri, per inquadrare adeguatamente l’importanza storica dei Replacements presso un’intera generazione nei freddi anni Ottanta.

Sviscerare il lascito del gruppo che forse più di ogni altro ha incarnato l’essenza selvatica e più autentica del rock and roll, è sempre una trappola. Il rischio è sempre quello di sfondare nella retorica, di lasciarsi trascinare dall’irripetibile epopea di Paul Westerberg e dei fratelli Stinson oltre i reali meriti di un gruppo che ha comunque marchiato a fondo il rock venuto fuori dal punk.

Due sono indubbiamente le conquiste del gruppo di Minneapolis. Anzitutto, furono tra i primi a traghettare il rock a stelle e strisce oltre la rivoluzione punk e hardcore, recuperando gli stilemi più tipici dei Seventies ( a partire dagli assoli chitarristici di stampo hard) forgiando così un modello che avrebbe ispirato decine di musicisti . Inoltre, i Mats ( da sempre chiamati così dai fan) furono la testa di ponte per la scoperta del rock underground da parte delle major ( con l’album “Tim” del 1985), che inaugurarono un filone aureo che sarebbe arrivato fino a “Nevermind”.

Ma a conferire il quid alla vicenda dei Replacements fu un rock fragorosamente vissuto sulla pelle dei suoi protagonisti. Cantante, chitarrista e deus ex machina indiscusso era Paul Westerberg: semplicemente uno dei più dotati songwriter di sempre, capace di forgiare canzoni disperate e vibranti nei quali confluivano i due archetipi fondamentali del rock. L’energia e l’impeto giovanile, e il travaglio nel passaggio all’ età adulta, che sovente miscelano rabbia e disincanto senza soluzione di continuità in una poesia del quotidiano di struggente bellezza. L’anima del gruppo, nonché il fondatore, era il chitarrista Bob Stinson, depositario di uno stile ruvido e dissennato, perfetto contraltare per la voce disperata e rabbiosa di Westerberg.

Stinson formò il gruppo a Minneapolis, la gelida e spettrale metropoli del Minnesota, insegnando al fratellino Tommy i rudimenti del basso e inviando dietro le pelli l’amico Chris Mars. Narra la leggenda che mentre i tre provavano nel garage di casa Stinson, Westerberg passando da quelle parti venne folgorato dal chiassoso fragore che quasi sfondava i vetri e decise di unirsi al gruppo. Pienamente coinvolti nella scena hardcore locale, che vedeva negli amici-rivali Husker Du gli indiscussi alfieri, i Mats iniziarono così a farsi notare grazie a dei tellurici concerti, sempre che non fossero troppo ubriachi per salire sul palco. I modelli erano del resto risaputi: qualunque gruppo formato da reietti e perdenti, dai Ramones alle New York Dolls per finire a quell’Alex Chilton da sempre feticcio del frontman.

Il debutto sulla lunga distanza è del 1981, licenziato dai tipi della Twin Tone: “Sorry Ma forgot to take out the trash”: un album di semplice, dolcissimo, sofferto, grintoso e travolgente rock and roll. Da omaggi a Buddy Holly rivisti in chiave hardcore “ I hate music” o “Careless” o agli stessi Huskers ( “Something to du”), agli inchini ai fratelli Ramone “Hangin’ dowtown” e “I’m in trouble” o alle bambole newyorchesi “Raised in the city”, emerge già chiara una capacità unica di coniugare le asperità postpunk e le prime tentazioni melodiche di Westerberg, all’insegna del recupero della tradizione cantautoriale americana. Due brani fanno del resto capire che non ci troviamo di fronte a un gruppo qualunque. “Shiftless when Idle” esplode di un’innocenza bubblegum vibrante che ne fa un classico power pop, grazie anche a un testo emblematico: “I ain't got no idols/ I ain't got much taste/ I'm shiftless when I'm idle/ And I got time to waste”.

Johnny’s gonna die” è invece una toccante e feroce elegia dal sapore blues per Johnny Thunders, composta ben prima che il leggendario chitarrista di New York Dolls e Heartbrakers morisse, benché fosse risaputo che l’ago lo avrebbe prima o poi portato via. L’allora ventunenne Westerberg fotografa con sconvolgente lucidità il più tragico dei circoli viziosi dello show business, alternando giudizi al vetriolo ( “He’s got friends without no guts, friends that never ache”) a sublimi immagini maturate sotto il plumbeo cielo di Minneapolis (“And New York City , I guess it’s cool when it’s dark/ There’s only one way you can leave your mark, and Johnny’s gonna die”). Uno degli apici del rock di sempre senza alcun dubbio, e un brano che a posteriori suonerà come una maledizione per i Mats.

Il 1982 vede il canto del cigno dei Stinson boys in ambito hardcore, con l’ep “Stink”, all’insegna di una sporcizia sonora e di distorsioni incrostate che lo renderanno una delle principali influenze nientemeno che di Steve Albini, inaugurate dal rauco “Fuck You” con cui è salutata l’irruzione degli sbirri a una festa. Il piatto forte sono una serie di inni inanellati con facilità quasi irrisoria: “Fuck School", "Stuck In The Middle" , "God Damn Job" , ma c’è anche la prima simil-ballata di Westerberg (“Go”) e il clamoroso rock –blues di “White and Lazy”, che passa il boogie di Bo Diddley in centrifuga hardcore.

Con il successivo “Hootenanny” del 1983, è evidente che le ambizioni dei nostri sono troppo ampie per essere contenute nella scena hard-core, che infatti gridò al tradimento.

Ma non di abiura si trattava, bensì di semplice evoluzione. Non che mancassero frammenti di cavalcate supersoniche tra questi solchi(dai rantoli etilico-rockabilly di "Take me to the hospital" alle caustiche accelerazioni di "You lose" e "Run it"), ma ormai Westerberg stava trasformandosi in finissimo cesellatore di melodie e quadretti adolescenziali, e il gruppo lo assecondava alla perfezione dilatando la materia sonora trattata, lambendo persino lidi country, boogie e byrdsiani. A dare già la statura del classico a "Hootenanny" sono tre brani, tra i migliori in assoluto nel canzoniere di Paul. Il trascinante sabba di "Color me impressed" è l'archetipo di tutto il college-rock venuto dopo, con una linea melodica incantevole incastonata nella scorza dura degli Husker Du. "Within your reach" è invece un numero a dir poco sorprendente: un synth tipicamente new wave, un'atmosferica tastiera che attraversa le rauche confessioni di Westerberg, con una goccia di prosopopea da primi U2. Ma è in "Willpower", innestata da una linea di basso di Tommy Stinson tanto semplice quanto insidiosa, che i Mats si superano: una lancinante cavalcata tra fulgide e selvagge derive psichedeliche che avrebbero ispirato al limite del plagio i R.E.M. di "Oddfellows Local 151" o "I remember California" e Westerberg che eleva il suo grido in un testo scarno e desolato, mostrando disperazione e vulnerabilità in egual misura.

Proprio Peter Buck dei R.E.M. è ospite nell’album della consacrazione, “Let It be” del 1984, il lavoro in cui tutti i tasselli del mosaico trovano la commistione magica tra reminiscenze hard ( la smargiassa cover di “Black diamond” dei Kiss), strepitose impennate ( “We’re coming out”, “Gary’s got a boner”) e inusitato plusvalore glam ( la pianistica bowiana di “Androgynous” e l’urlo alla Bolan del singolo perfetto “I Will dare”). Completano il lotto l’esuberanza melodica di “Favorite thing” e un tris di ballate targate Westerberg da leggenda. La caustica “Answering machine”, definitivo inno ai loser metropolitani, la toccante “Unsatisfied”, aperta da un arpeggio byrdsiano incantevole e giostrata in un saliscendi emotivo fantastico negli intrecci chitarristici e con Paul che sciorina la frustrazione dei kids americani al grido di “I’m so Unsatisfied”. Con “Sixteen Blue” il carismatico frontman inaugura invece il filone adolescenziale dolce-amaro, immortalando le irripetibili paure, sogni e speranze di un sedicenne sciolte in una melodia byrds- velvettiana senza tempo, con un piglio e un’innocenza da far venire il magone a ogni ascolto.

A quel punto i Replacements sono il gruppo simbolo di un rock rigeneratosi alla sorgente del punk senza dimenticare il proprio codice genetico più autentico, e due anni di concerti ininterrotti negli States li rendono autentiche icone. Sarebbero potuti andare avanti e diventare stelle di grandezza superiore persino a quei R.E.M. che hanno sempre fatto dell’unità e della coesione il punto di forza. Ma da perfetti perdenti, i Mats scelgono di andare in pezzi. Bob Stinson non riusciva ad abbandonare lo stile di vita dissennato e spericolato che Westerberg intendeva superare per aspirare definitivamente all’istituzionalizzazione, anche grazie ad uno smussamento degli angoli che configgeva con l’impostazione caustica e abrasiva di Bob. “Tim” del 1985 riesce per l’ultima volta, in maniera mirabile, a cristallizzare le spinte centrifughe della band e tramutarle in musica eterna, nonostante il corroborante punk stinsoniano lasci spazio a un rock più maturo e arioso che sovente strizza l’occhio a Springsteen.

Westerberg prende completamente in mano le redini della band, sfornando cavalcate epilettiche (“Days of thunder”), vertiginose ( “Left of the dial”), agrodolci (“Little mascara” e “Hold my life”, la quintessenza dell’urgenza westerberghiana) e due perle innodiche e liberatorie come le celebri “Bastards of young” e “Kiss me on the bus”, che concorrono a rendere “Tim” il “Nevermind” degli anni 80. Per poi superarsi nuovamente con due ballate. La tenerissima e struggente “Swingin’ party” è la cronaca di una ideale festa di addio all’estate, al primo calar delle foglie a settembre : prima Paul sussurra con celeste nostalgia “Bring your own lampshade, somewhere there’ s a party/Here it’ s never ending , Can’ t remember when it starded” per poi trascinarci in un vortice di rivalsa e riscatto al grido di “If being afraid is a crime, we hang side by side/At the swingin’ party down the line”. E poi la conclusiva “Here comes a regular”, la ballata generazionale più toccante dai tempi dello Springsteen di “The River”. Una semplice sequenza di accordi scippata a “Knocking on heaven’s door”, appena vivacizzata da tenui tocchi d’archi e pianoforte fa da sfondo al miglior testo e alla miglior interpretazione mai sfornata da Paul, capace di sublimare in poesia eterna la condizione di un ragazzo qualunque intento a riflettere al bancone di un bar sul suo futuro, contemplando quella fredda linea d’ombra davanti alla quali si incrina il tuo mondo. Per poi uscire dal bar, sistemarti il bavero della giacca per ripararti dal vento pungente, mentre ti chiedi se la sera dopo tornerai nello stesso locale o chiuderai i conti con una giovinezza sfuggita come un granello di sabbia dalle dita andando via dalla tua città.

L’uscita di “Tim” coincide con la cacciata di uno Stinson sempre più assente e perso nella droga e nell’alcool: il suo posto viene preso dal veterano della scena di Minneapolis Slim Dunlap, ma non era più la stessa cosa, sarebbe mancato il suo tocco roccioso nel conferire il rovente disprezzo degli Eighties al classico boogie westerberghiano. “Pleased to meet me” del 1987, che inaugura l’avventura dei Mats nel magico mondo delle major, è il naturale sbocco del percorso di Westerberg, ormai sempre più piazzato nell’alveo della tradizione americana, sfornando una serie di cioccolatini alla Big Star ( “I don’t Know”, “Valentine” e ovviamente la splendida “Alex Chilton”) e il suo canto del cigno da balladeer, con la morbidezza lisergica di “Skyway”.

I successivi album “Don’t tell a soul” del 1989 e “All shook down”, pur baciati da un lusinghiero riscontro commerciale, canonizzano senza troppi guizzi uno stile ormai classico, risultando ormai nient’altro che un paravento per le ambizioni soliste di Westerberg, che scioglie la band al debutto della nuova decade. Paul inizia una carriera solista alterna, icona del college-rock in gran spolvero coi vari Lemonheads, ma in cui il peso di un passato tanto ingombrante ha sempre costituito un’ombra implacabile, senza che peraltro arrivasse il successo di massa agognato, a parte la furba cavalcata dell’onda grunge nel 1992 con la partecipazione alla colonna sonora di “Singles” . Nel frattempo, Johnny Thunders era stato definitivamente infognato dall’eroina nel 1991, ma “l’ago e il danno compiuto” si portano via anche Bob Stinson, ritrovato senza vita in uno squallido appartamento di Minneapolis nel febbraio del 1995. La più crudele delle nemesi si era compiuta, ma in fondo i quattro ragazzi di Minneapolis ce li immagineremo per sempre sul cancello di casa, con la busta della spazzatura in mano e una lattina di birra nell’altra.

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cinnamon man alle 20:32 del 12 giugno 2008 ha scritto:

magone

a me quando si parla di Mats vengono subito i brividi...se poi le parole vengono da un altro che, come me, va in brodo di giuggiole quando ne sente parlare...veramente fantastica, Don...molto bella l'immagine che evochi con Here Comes A Regular (brano che peraltro rappresenta, dal mio punto di vista, il punto debole della loro carriera)...a me non piacciono molto i primi dischi, troppo caciaroni...fin dagli esordi penso che Westerberg abbiano dato il meglio di sè nelle ballate ("Johnny" e soprattutto l'amarissima "Go")...la svolta poi è arrivata con Color Me Impressed, uno dei capolavori del rock...da lì fino a Skyway è stata una sequenza esaltante di brani stratosferici (almeno una dozzina di canzoni memorabili, Favourite Thing, Seen You Video, Androgynous, Unsatisfied, 16 Blue, l'angosciosa The Ledge, la dolcissima Skyway, la travolgente Red Red Wine, tutto Tim a parte Dose of Thunder, Regular e Little Mascara)...li amo...solo un appunto su questa bellissima mono, Don: secondo me la prova di Stinson su Tim è favolosa (proprio per quel senso di impalpabilità)...

DonJunio, autore, alle 23:05 del 12 giugno 2008 ha scritto:

You and I fall together

Eh, sapevo che avresti apprezzato, dato che sei il maggior esperto di Replacements che io conosca. Sul discorso di Stinson-Tim: è vero che ritengo a volte impalpabile il suo contibuto, ma ho anche scritto che "Tim" riesce a "cristallizzare le spinte centrifughe della band e tramutarle in musica eterna", quindi per me l'album coglie perfettamente l'equilibrio che andava spezzandosi e le sue mille sfumature, pur trovando che sia un gradino sotto l'inarrivabile "Let it be". Su "Here comes a regular", penso sia un po' eccessivo definirlo il punto debole della loro carriera. Musicalmente è certamente inferiore a tutte le grandi ballate del disco precedente, ma il testo e l'interpretazione di Paul la riscattano ampiamente.

Alessandro Pascale alle 15:33 del 22 giugno 2008 ha scritto:

complimenti junio

ottimo lavoro, conciso ma allo stesso tempo preciso e completo, nonchè molto scorrevole da leggere. E poi i replacements se la meritavano un'analisi così. Senz'altro uno dei 5 migliori gruppi degli 80s, pochi cazzi. let it be è uno degli album che ci si porterebbe su una spiaggia deserta.

ozzy(d) alle 13:52 del 25 giugno 2008 ha scritto:

what a mess on the ladder of success

Se penso a un songwriter, il primo che mi viene in mente è immancabilmente Paul Westerberg. Un'autentica leggenda americana, come gli straordinari Replacements: giovanissimi, etilici, disperati, forse il più grande gruppo degli anni 80.

FrancescoB alle 17:05 del 8 gennaio 2011 ha scritto:

Retrospettiva eccellente per uno dei pochi gruppi in grado di cambiarti la vita. Grande Don.