A Honkeyfinger, Jonny Halifax & The Howling Truth

Honkeyfinger, Jonny Halifax & The Howling Truth

Jonny Halifax è nato a Birmingham, la città dei Black Sabbath, e risiede a Londra, quella dei Rolling Stones. Per destino o coincidenza il suo percorso musicale su disco parte dalla contaminazione del chitarrismo di Keith Richards con quello di Tony Iommi. Ma andiamo per ordine: chi è Jonny Halifax alias Honkeyfinger? Capelli lunghi e barba folta, si presenta sul palco come fosse un comune musicista di strada ma la sua ricetta è genuina e originale. Il fatto che si vesta come un camionista e non parli l’inglese della regina Elisabetta lo fa sembrare un redneck, nonostante gli accenti rurali siano bilanciati da una buona dose di sperimentalismo. Non è un caso che abbia ricevuto apprezzamenti da critici del calibro di Julian Cope: cerchiamo di capire perché.

Jonny nasce armonicista, tentando di imitare il Brian Jones dei primi dischi degli Stones. Appresa a distanza la lezione di bluesman come Sonny Boy Williamson e Sonny Terry, si deve scontrare però con la dura realtà: tra le band della sua generazione non si rileva molta richiesta di armonicisti. Decide quindi di passare al basso e, con quello strumento in dotazione, entra prima nella Lucci Daddo Fuzz Orchestra e poi negli Schwab, esperienze che si collocano tra il garage e il funk. Nel frattempo i suoi interessi musicali spaziano dal blues urbano di John Lee Hooker e Muddy Waters al mod inglese di Who e Small Faces.

Ecco però che un evento imprevisto cambia la sua storia. Jonny si imbatte in una lap steel della Selmer degli anni '40: è amore a prima vista. La scelta di applicare alla chitarra hawaiana una sequela di fuzz box sembra una novità assoluta e decreta, almeno in parte, l’originalità della proposta musicale a venire. Dapprima si esibisce con la lap steel nel progetto sperimentale Fat Midget, che, secondo le parole dell’interessato, cerca di coniugare i Ministry ai Butthole Surfers in un inusitato incontro tra country e musica industriale. Poi, stanco di suonare in una band e desideroso di trovare una formula più spontanea, Halifax decide di mettersi in proprio, sceglie lo pseudonimo Honkeyfinger e inizia ad esibirsi come “one man band”. Realizza, a questo scopo, il suo nuovo set: chitarra lap steel sulle gambe, armonica in bocca e gran cassa e piatti ai piedi. Il tutto corredato da microfoni filtrati, amplificatori valvolari e la famigerata serie di pedali distorsori. La lap steel viene quindi suonata con accordature aperte e il classico effetto di glissato, ottenuto con una barra metallica e la tecnica slide, risulta dilaniato e deturpato da un fuzz cremoso e spumoso.

Il progetto di Honkeyfinger affonda le radici tanto nel delta blues di Bukka White e nell’ hard rock sudista degli ZZ Top, quanto nel canto sincopato dei Beastie Boys. I punti di riferimento principali oscillano però tra il garage punk e lo stoner. Jonny incentra il chitarrismo sui riff, come i “garagisti”, ma conduce l’aggressività del fuzz dal gioioso box auto all’oscurità muffosa della cantina. Da una parte guarda al proto-metal di Blue Cheer e Black Sabbath, dall’altra al proto-punk di Stooges e Mc5. Halifax sguazza nella terra di mezzo tra le due tendenze principali del rock e ricopre, in questi ultimi anni, il ruolo di ultimo tedoforo di un genere ormai minoritario. Il suo stile chitarristico è tagliente, il suono dell’armonica acido e la voce allucinata. A sorreggere l’architettura sonora un ossessivo ritmo tribale scaturisce dalle percussioni azionate con i piedi. In questo suo approccio caotico e scomposto la stella polare non può che essere Captain Beefheart. E’ attraverso l’autore di “Trout Mask Replica” che Jonny, molto probabilmente, ha iniziato ad apprezzare musicisti free jazz come Pharoah Sanders e Albert Ayler. In effetti Beefheart sembra il punto di contatto tra la cultura blues, la musica garage e la sperimentazione free jazz. Ma oltre a questo, cosa accomuna i tre generi in questione? Un certo piglio sanguigno e abrasivo che è storicamente confluito, da tutti e tre gli affluenti, nel fiume in piena del punk. Ed è appunto l’attitudine punk a plasmare il blues di Honkeyfinger.

Al netto di singoli ed Ep, la produzione di Jonny Halifax consta di due dischi: “Invocation of the Demon Other” e “The Bestial Floor”. A livello testuale i due LP hanno nella passione per l’occulto il fulcro tematico fin dai titoli: infatti il primo evoca il nome di un cortometraggio d’avanguardia, a sfondo satanico, del regista americano Kenneth Anger e il secondo un verso dai significati esoterici del poeta irlandese W.B. Yeats. D’altronde, da quando i vecchi bluesman vendevano l’anima presso i crocicchi, il blues è la musica del demonio.

“Invocation of the Demon Other”, uscito nel 2008 a nome Honkeyfinger, è un disco garage blues e lo-fi, molto grintoso e rugginoso. Autoprodotto sotto la sigla Hoarse, avrebbe potuto comodamente fregiarsi del motto “do it yourself” stampato a fuoco sulla copertina. I brani più rilevanti sono i singoli “Got This Rage” e “Running on Empty”, cavalli di battaglia dal vivo. La musica ha una notevole vis punk e l’energia primitiva la fa da padrona. I riff alla lap steel distorta si amalgamano ad un’armonica impazzita e ad un ululato da licantropo. La voce alterata si inserisce nel solco della tradizione che da Tom Waits porta a Bob Log III e si avvicenda talvolta ad un beatbox elementare. Le svisate aspre all’armonica ricordano i momenti migliori del Beefheart armonicista free: “Margarine man” ad esempio. La parte percussiva è scarna e vigorosa e tiene il ritmo ad una registrazione che profuma di live in studio. Scevro dall’invadenza dell’elettronica, Honkeyfinger dal vivo impiega inizialmente soltanto una loop station che integrerà più avanti con una drum machine. Pur non rimanendone ancora sovrastato, l’attenzione per la tecnologia si fa però più marcata negli anni a venire, in vista del secondo lavoro.

Ad un certo punto della sua carriera, Halifax decide di accantonare lo pseudonimo Honkeyfinger e la sua natura di “one man band”, nonostante in certa scena alternativa la moda degli “uomini orchestra” sia ormai dilagante. Si esibisce e incide quindi a suo nome, facendosi accompagnare dall’amico chitarrista Marvin (aka Martin Kindom). Nel 2013 con la ragione sociale Jonny Halifax & The Howling Truth viene dato così alle stampe “The Bestial Floor”. I nuovi classici del repertorio sono “Creeping Jesus” e “Stormbringer”, che rimpiazzano presto dal vivo i due singoli del debutto. L’album si regge sul duello dei due chitarristi, con l’aggiunta sporadica e secondaria di Duke Garwood al clarinetto e Alan Jones alle tastiere. L’armonica, marchio di fabbrica di “Invocation of the Demon Other”, è posta in secondo piano mentre diventa una presenza centrale la drum machine. Nonostante sia stato mixato da Mark Gardener e veda alcune collaborazioni, l’LP è autoprodotto, a nome Greasy Noise Recordings, e lo spirito DIY non è per nulla perso: Halifax infatti non solo registra in proprio la maggior parte delle parti strumentali ma cura anche la grafica.

“The Bestial Floor” è un disco più complesso e arioso del precedente, con brani più lunghi e articolati. Rispetto all’esordio, inciso “alla prima” per restituire all'’ascoltatore l’immediatezza del live, il secondo sforzo creativo va quindi nella direzione opposta, perdendo un po’ in incisività ma guadagnando in costruzione sonora. L’incredibile macchina da riff rappresentata da Halifax viene contrappuntata dal chitarrismo più civilizzato di Marvin. Non si cede all’onanismo virtuosistico e al compiacimento tecnico ma si pone a sistema l’accordatura aperta della lap steel con le scorribande di una seconda chitarra pungente e corrosiva. Con quest’opera il nostro è riuscito a non ripetersi, a cambiare formula senza snaturarsi o contraddirsi. I brani si sono dilatati e dal panorama urbano del musicista di strada si sono spostati verso orizzonti cosmici degni di equipaggi di astronauti come Neu o Hawkwind. In realtà già nel primo album, con pezzi come “Fine Things”, Halifax anticipava certe derive intergalattiche. Ma in “The Bestial Floor” non si limita ad un passo più lento ed evocativo: deraglia infatti dai binari della forma canzone, coniugando il tutto con una massiccia presenza di drum machine. La gran cassa ruspante degli inizi viene quindi accostata in maniera preponderante da una ritmica sintetica proprio per spingere la musica dalla grezza tana verso lidi spaziali. Nel brano “Fever Rising”, la pulsazione artificiale unita al clarinetto free di Duke Garwood dà vita addirittura ad un ibrido tra Suicide e Captain Beefheart. Altre tracce invece, come “Black Desert”, sembrano quasi adatte a fornire un commento sonoro ad immagini cinematografiche: lo stesso Halifax ribadisce più volte nelle sue interviste quanto lo attiri l’idea di realizzare colonne sonore.

I due album, pubblicati a distanza di 5 anni l’uno dall’altro, sono davvero un paio di ottimi lavori e, per quanto diversi, preservano la coerenza di un tragitto sincero e onesto. Di certo Jonny Halifax ha una costante attività live ma non una grande prolificità in studio: d’altronde alterna il suo ruolo da rocker ad una professione più canonica in ambito di grafica e video. Il timore è però che, giunto il momento di tornare in sala d’incisione, un terzo album possa sbandare verso rive pesantemente doom, approdi marcatamente tecnologici o terre troppo rarefatte. E invece no. Jonny Halifax cambierà una terza volta strada, ci stupirà e ci convincerà come nelle prime due occasioni. Go Jonny Go!

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