A Indipendelta @ Cavarzere (VE), 3 settembre 2010

Indipendelta @ Cavarzere (VE), 3 settembre 2010

Prima di qualsiasi contestazione, per la correttezza nei confronti dei lettori e degli appassionati, è doverosa anzitutto una precisazione: l’Indipendelta, festival itinerante di musica ed arte indipendente tenutosi quest’anno nei pressi della località Grignella, a Cavarzere (VE), copre un arco di tempo lungo due giorni, venerdì 3 e sabato 4 settembre. La scelta di raccontare le sensazioni della sola prima serata non è dovuta ad un volontario atto di cesura da parte del sottoscritto, quanto all’impossibilità personale di poter seguire direttamente gli eventi della giornata successiva e, quindi, alla preclusione di poterne scrivere. Il sasso potrà essere certamente lanciato, se non altro, cercando di comprendere a che serva, in definitiva, un report che testimoni in maniera monca uno dei rami più interessanti dello sviluppo impetuoso attraversato da un certo tipo di cultura autoprodotta, diy e volta ad un bilanciamento sempre più apprezzabile di qualità e sostanza. Proviamo a rispondere.

Non parlo mai troppo esplicitamente di politica nei miei elaborati, sebbene abbia un certo occhio critico verso la realtà circostante, e questo perché non ritengo necessario sviare il nocciolo dell’argomento da trattare con molteplici diramazioni esterne di pertinenza dubbia. Questo giro sento, tuttavia, di dovermi esporre in prima persona. Il berlusconismo sarà studiato fra trent’anni, sui libri di storia, come la più pericolosa dittatura mediatica post-fascista che l’Italia abbia mai conosciuto. Tali e tanti misfatti ha tessuto e ricamato l’attuale classe politica al governo, ma uno in particolare mi offende nel profondo, come individuo, studente, persona convinta della necessità della cultura. Appena un anno fa, a Gubbio, Renato Brunetta lanciava anatemi contro una sostanziosa fetta del pur carente apparato intellettuale nazionale, scagliandosi con furia cieca contro i “parassiti dei teatri lirici”, il lato della cinematografia meno interessato al risvolto economico della settima arte, il “culturame” non apertamente schierato, invitando il collega Sandro Bondi a ridurre esponenzialmente i già esigui Fondi Unici per lo Spettacolo e sintetizzando, con perfetta ignoranza e grottesco realismo, la terribile formula valido prodotto artistico = consistenti introiti monetari. Un po’ come Mara Carfagna che dice di preferire schiettamente i cinepanettoni a Nanni Moretti: stessa linea di pensiero, stesse catastrofiche concatenazioni. Ciò che davvero appare pregevole deve per forza vendere (e vendersi): altrimenti è inutile.

Capirete bene che simili ragionamenti sarebbero da distruggere a colpi di trielina. Ma quello che i nostri ministri, ahinoi, espongono pubblicamente, è sostanzialmente il concetto condiviso dalla quasi totalità della popolazione. Il significato dell’Indipendelta, come di qualsiasi piccola manifestazione in giro per l’Italia, al riparo dagli strombazzamenti e dai ricavi, sta in quello che dichiaro semplicemente ad un giornalista locale nella tarda mattinata di sabato: la necessità di punti giovanili di ritrovo, aggregazione e formazione attiva di controcultura. Un qualcosa che non si modelli pigramente sui diktat imposti dai vertici, ma ne combatta le infide debolezze e gli squallidi tentativi di omologazione, proponendo una forma di interazione sincera, comunitaria e convinta, volta a convincere il campione d’italiano medio della possibilità e della fondatezza di un’alternativa coraggiosa. Centocinquanta, forse duecento persone al massimo decidono di far loro questo tipo di messaggio, all’ombra dello sperdutissimo Palazzo Silimbani: inezie, briciole, formiche per le masse brunettiane che si spostano da uno stadio all’altro senza alcuna cognizione personale. Carica, energia, speranza per il nucleo di vitalità che si respira invece in questi luoghi profondamente provinciali (se non la provincia della provincia della… campagna?).

Il cartellone, peraltro, è ricco di nomi davvero importanti, che rendono irrisorio l’esangue contributo richiesto all’ingresso, esaltando ancora una volta il senso complessivo di imprese di cui sopra. Poco oltre le 10 salgono sul palco i trevigiani Lucertulas, freschi di una sfregiante seconda prova (“The Brawl”) finita direttamente nell’Olimpo del materiale da segnalare nel minor tempo possibile. A distanza di appena un mese e mezzo dal concerto patavino del Curtarock, il trio noise mette a segno una conferma di quelle belle grosse, senza nessuna paura di sbagliare. Una coltellata dietro l’altra, con il blues malato e metallizzato di “In This Town” ad aprire le danze, l’esibizione diviene particolarmente interessante allorquando emergono a tutto tondo quei sentori psichedelici avvertiti, ad esempio, nei martellanti sei minuti di “The Widower” – scomposta a piacimento ed inserita in più momenti – o negli estratti del precedente “Tragol De Rova”, filo spinato che sega la carne con la pesantezza lisergica delle derive ambientali. Sparita ogni sorta di timidezza da prestazione, i Lucertulas piazzano colpi a sensazione, come la formidabile “8 Hours” eseguita nella versione italiana presente sul vinile, e i ghirigori su lamiera di “Crowning”. Se stasera sono qui, applauditi all’unanimità, un motivo c’è. A voi scoprirlo al più presto.

Quando i MoRkObOt, da Lodi (ma loro preferirebbero chiamarla L’odi), decidono di snellire la loro proposta, depauperandola della catartica pesantezza del loro ultimo disco “MoRtO” – macrotraccia di oltre quaranta minuti a cavallo fra post-core, ripetuti deliri avantgarde ed esplosioni stoner – e preferendo pescare indietro nel tempo, dall’esordio omonimo e soprattutto dal successivo “MoStRo”, i risultati rifulgono di un candore abbacinante. Armati di due bassi, rispettive gargantuesche pedaliere ed un batterista invincibile, il trio lombardo mette al muro la capacità espressiva di una classica sei corde, ridicolizzandola a più riprese con una serie di riff trattati, colorati, caricati, effettati, distorti, contorti da rimanere basiti. Musica per altri cervelli da altri pianeti, oppure sarà l’istantanea simpatia che suscitano Lin, Lan e Len aldilà del loro aspetto vagamente inquietante: fatto sta che il concerto assume di volte in volte tinte space, freakedeliche, metalliche evitando, con gran classe, di perdere coesione e potenza. L’unico scarico di tensione si ha, come a confermare le nostre ipotesi, proprio con la violenza sludge di “MoRtO Part 2”, tutto sommato prescindibile se messo a confronto con la giostra ad incastri di “Zorgongollac”, per citarne giusto una. Soluzioni sempre rinnovate, gioia per le orecchie e per la mente: trovare un muso lungo a fine esibizione è più arduo del cercare un ago in un pagliaio.

Dulcis in fundo, infine. Standing ovation pressoché continua prima, durante e dopo lo spettacolo degli Zu, professionisti privi di macchia e coercitivamente alieni ad una stanchezza che, dopo migliaia di concerti in giro per il mondo negli ultimi anni a presentare lo sconvolgente “Carboniferous”, sarebbe il segnale di una comprensibile debolezza umana. Cambia davvero poco, in sintesi, se si volessero confrontare modalità, esecuzioni e scalette dei loro concerti: Massimo Pupillo affronta la platea infuocata con una smorfia truce sul volto, Jacopo Battaglia devasta il cuore degli astanti con una prova di suprema leggiadria dietro le pelli, Luca Mai travolge gli avamposti con il rigore free del suo sax baritono. Eppure tutto è perfetto, tutto è rodato in ogni dettaglio. Dalla travolgente “Chthonian”, abissale math-core che inaugura le fauci dell’arena, si passa con vigore insuperabile agli spruzzi industrial di “Mimosa Hostilis”, al singolo “Carbon”, alla traslucida forma metallis di “Erinys”. Resistere è tanto inutile quanto velleitario, alla stregua di chi ancora pensa che il terzetto romano non sia saldamente ai vertici del panorama musicale italiano, in patria e all’estero. “Beata Viscera” manda in visibilio le prime file, che assorbono interamente l’impatto levitante di “Obsidian” e rilasciano una gigantesca onda d’urto con il manifestarsi, fragoroso, della cassa dritta di “Ostia”, baccanale techno-noise sempre più entusiasmante col passare del tempo. Applausi a scena aperta, le discussioni sono azzerate su qualsiasi piano: persino sul gusto di affiancare, alla vibrazione torturante dei tom, le note di “Girls Just Want To Have Fun” di Cyndi Lauper, un dolcetto lanciato ad un pubblico ormai definitivamente conquistato.

L’electro-rock dei comprimari No Seduction, onesta malizia che risuona lontana nelle sale del Palazzo, chiude una serata perfetta, per stile, organizzazione e passione. Resta solamente da capire se qualcuno, a differenza del sottoscritto, abbia avuto la fortuna di godersi la line-up di sabato: gli emergenti The Monkey's Drunk, Fauxenne, Ten Story Apartment, NoNer assieme a Buzz Aldrin, Drink To Me e Giardini Di Mirò. Quello che si dice l’eleganza.

 

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