A Intervista a Bob Corn

Intervista a Bob Corn

Sono circa le sei di sera. Sono partito da Milano in autunno e quando arrivo a Ravenna, davanti al locale Bronson, non sembra proprio la fine della primavera, al massimo può essere “The hottest autumn ever”: significa che c’è la luce giusta per farsi una chiacchierata con Tiziano, folk singer nostrano che risponde al nome d’arte Bob Corn. O al nomignolo Tizio. Comunque lo si chiami, è sempre lui: un personaggio acuto e semplice come la musica che suona. Una chitarra e una voce che possono rimanerti in testa e nel cuore, una spontaneità compositiva e una freschezza malinconica da riuscire a regalare occhi lucidi a chiunque sia pronto ad aprire orecchie e anima a questi brani suonati in punta di chitarra. Forse non lo sapete, ma ognuno di voi ha un ricordo legato ad una sua canzone. Volti, fotografie, qualche libro, istantanee di viaggi e concerti, un po’ di pioggia e qualche raggio di sole, un organetto, un violino o una voce femminile che talvolta fanno capolino tra gli arpeggi e le pennate. Questa è la pasta da cui traggono sostanza e ispirazione le canzoni di Bob Corn, e il resoconto che segue è ciò che è venuto fuori discutendo e passeggiando davanti al locale in attesa di Bonnie “Prince” Billy, artista di cui Tiziano avrebbe aperto il concerto.

Perché hai scelto di comporre i tuoi brani in inglese?

“Più che una scelta, è stato un processo spontaneo. Potrebbe sembrare che in italiano sia più difficile comporre versi originali, in verità fin da subito scrivere in inglese mi è sembrato più poetico, e così risulta pure a chi mi ascolta. È vero che non sarà un inglese perfetto dal punto di vista tecnico e di pronuncia, però tutto ciò ha potuto rendere le composizioni più personali. Molte persone di origine anglofona hanno giudicato i miei testi poetici, proprio perché erano scritti in un inglese non perfetto, questa “diversità” dall’inglese “scolastico” ha dato una sfumatura più artistica alle mie composizioni, che non scrivo in italiano e poi traduco, ma mi vengono in mente direttamente in inglese. Per quanto riguarda la pronuncia, c’è poco da dire, una pronuncia della lingua inglese “standard” non sembra esistere, nella stessa Londra convivono diverse inclinazioni linguistiche ed accenti.”

La tua musica, i tuoi dischi così brevi ed essenziali, sembrano una conferma del fatto che un certo tipo di folk parla proprio un linguaggio completamente diverso rispetto a quello del rock più canonico, figuriamoci poi di certi dischi concettuali, e quasi epici. In un’intervista i Mercury Rev han detto che preferiscono fare dischi brevi perché dopo 40 minuti l’attenzione dell’uomo cala, è naturale. Che ne pensi?

“È vero, anche per questo preferisco scegliere la brevità. Inoltre non scrivo tantissimo, e ogni disco appartiene ad una fase ben precisa, terminata quella fase il disco è pronto. I primi due contengono 7 canzoni, quest’ultimo è un po’ più lungo, 10 brani, però la formula di brevità, come dici tu, rimane la stessa, in ogni caso per quest’ultima prova mi sento come se mi fossi rimesso in gioco, data appunto la maggior lunghezza”

Questo ti avvicina molto, non solo musicalmente, a Bonnie Prince Billy.

“Come sai ho una piccola etichetta e organizzo concerti da anni,e il primo concerto di un artista straniero che ho organizzato è stato proprio di Will Oldham, dieci anni fa. E da li è nato il “nostro” rapporto.”

Vorrei parlare con te di alcune questioni riguardanti il cantautorato. Durante il tuo concerto in apertura dei Dinosaur JR, ho sentito alcune persone dire che se vuoi fare il cantautore, devi farlo così, da solo, chitarra e voce, semza una band. Secondo me non è poi così vero, e credo che lo stesso Oldham, e un’infinita generazione di cantautori prima di lui, l’hanno dimostrato, senza bisogno di andare a citare il Bob Dylan della svolta elettrica. Tu che ne pensi?

“Beh, penso che in parte hai ragione, ma bisogna capire anche l’approccio. Un conto è fare in cantautori con una band di supporto, anche io ho suonato talvolta qualcuno che mi accompagnava, ma la formula non cambiava… e un conto è essere una band, che vuol dire far canzoni insieme, che non sono più l’espressione di una volontà, di una sensibilità sola, ma di un collettivo.”

Come hai iniziato a suonare?

“L’unico modo in cui ho iniziato a cimentarmi in composizioni mie è quello che propongo ancora adesso, chitarra e voce. Non è stata una scelta, è stata una necessità spontaneo, anche perché non so suonare!”

Ma…

“No no, non so suonare! Nel senso che i due accordi che mi vedete fare è tutto ciò che so fare con una chitarra. Ma mi piace e sento il bisogno di fare canzoni. O almeno provarci.”

Quali sono gli autori che ti hanno spinto a continuare con questa forma di cantautorato?

“Beh, i classici, Bob Dylan e compagnia, ma anche i Velvet Underground devo dire che sono stati importanti per me, per il mio modo di intendere la canzone. Però il primo cantautore che mi ha fatto veramente strippare è stato Will Oldham. Mi è stato detto che alcuni brani che ho scritto ricordano Leonard Cohen, che non conoscevo bene, poi l’ho ascoltato molto e certe cose vorrei averle scritte io, tanto le sento mie.”

Finiamo giusto di discutere di passioni musicali comuni, che vediamo arrivare Bonnie “Prince” Billy. È il momento del soundcheck, perciò Tiziano torna ai suoi impegni nel locale e io aspetto assorbendomi uno degli ultimi pomeriggio di primavera, o dell’autunno più caldo, all’ombra di una chioma d’albero appena smossa dal vento.

Ringrazio moltissimo Bob Corn per la sua disponibilità, i suoi racconti e lo splendido concerto, perfetto preambolo alla musica del Principe Oldham.

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