A Intervista a Paolo Fresu

Intervista a Paolo Fresu

Partiamo da “Musica Dentro”, la tua autobiografica pubblicata lo scorso 21 ottobre per Feltrinelli. Com’è nata l’idea di scrivere questo libro?

È nata in primo luogo per me stesso. Tre anni fa è stata pubblicata una sorta di autobiografia, scritta a quattro mani con Luigi Onori per Stampa Alternativa che era talmente approfondita e complessa, anche tecnicamente, e rivolta soprattutto agli addetti ai lavori, che chi l’ha letta pur apprezzandola molto poi sentiva il bisogno che in qualche modo mi raccontassi in una maniera più emozionale. Quindi ho iniziato a scrivere delle cose anche per me, per rimettere in ordine tutta una serie di cose, anche per dare a me stesso delle domande alle quali rispondere. Subito dopo Feltrinelli mi ha proposto di scrivere qualcosa e da quell’idea è nato Musica Dentro che è una sorta di racconto per certi versi anche abbastanza intimo che poi si porta all’esterno. In genere si danno per scontate molte cose. Scrivendo ci si rende conto che c’è bisogno di comprendere, c’è bisogno di capire meglio e c’è bisogno soprattutto di fare un cammino introspettivo, una sorta di autoanalisi. Ci sono delle cose che ho scritto e che io stesso non conoscevo, o meglio non ne sapevo le ragioni. Lo scrivere mi ha permesso in qualche modo di approfondire e di portare all’esterno una riflessione che all’origine era solamente mia e che, dal momento in cui si scrive un libro, può diventare di tutti.

 

Musica Dentro mi fa pensare all’autobiografia di un altro sardo: Luigi Pintor. Il fondatore del Manifesto raccontava che da piccolo, quando giocava ai soldatini, istintivamente si schierò dalla parte degli indiani e capì in quel momento che per tutta la vita sarebbe stato dalla parte degli indiani. Tu quando hai capito che il jazz sarebbe stata la tua strada?

Anch’io ad un certo punto ho deciso di stare dalla parte degli indiani. Ho incontrato il jazz alla fine degli anni ’70. Fino ad allora avevo suonato nella banda musicale, nei complessi in giro per le piazze e al mercato dei pomodori. A un certo punto ho scoperto questa musica. All’inizio l’ho scoperta casualmente sentendo alla radio uno che suonava sicuramente un bopper, forse era Clifford Brown e Lee Morgan, certamente non era Davis o Chet Baker perché era uno che faceva una quantità di note talmente impressionanti che mi colpì enormemente. Poi ho scoperto Davis, Chet Baker e sono passato all’aspetto più silenzioso del jazz e quello meno ginnico. Ho iniziato ad apprezzare il jazz proprio per questa sua capacità incredibile di suonare tante cose. Apprezzando questa musica e gli aspetti più estetici e del linguaggio ho compreso che dietro il jazz c’era anche altro. C’era una tradizione, una storia razziale che si era sviluppata negli Stati Uniti in quegli anni per cui il bebop aveva una funzione precisa, era una musica tesa, complicata, perché dietro c’erano ragioni non più solamente musicali. Quindi mi sono appassionato ancora di più perché ho scoperto che i neri erano gli indiani di Pintor e il jazz non era più solo un modo per esprimermi e per fare una musica che avesse il senso del bello, ma anche per raccontare un pensiero molto profondo che mi permetteva di stare dalla parte dei deboli. Questo era un motivo in più per sposare una lingua, quella del jazz, che aveva un significato altro, non più solamente estetico ma molto più profondo.

 

Hai usato l’aggettivo silenzioso. In un’intervista hai detto: “Il suono diventa magia solo se c’è un silenzio che lo giustifica”, che poi forse è anche un po’ quello che pensava Miles Davis quando diceva: “Non suonare quello che c’è. Suona quello che non c’è”.

Rileggendo il libro mi sono reso conto di come le parole più presenti sono “suono” e “silenzio”. Quando ho scoperto Davis, e nel libro c’è un capitolo dedicato a lui, ho capito qual’era il rapporto tra suono e silenzio. Ovvero come la magia della musica sta nella capacità di non dire e di lasciare intendere delle cose che poi gli altri possono raccogliere. Se si dice tutto non c’è più emozione, non c’è più magia. La possibilità invece di togliere delle cose per lasciare spazio significa in primo luogo trovare nuovi spazi e poi lasciare anche la possibilità a chi ascolta di aggiungere del proprio. Questa filosofia del silenzio mi ha poi in qualche modo sempre accompagnato. Sono uno che suona poche note e che parla poco e piano. Mi piace quest’idea del percorrere una strada che è quella dello spazio, inteso come possibilità di aprire delle cose all’interno delle quali può esserci qualcosa da mettere oppure addirittura niente. La filosofia del silenzio l’ho appresa da Davis. Quando l’ho ascoltato per la prima volta mi sono appassionato alla sua musica perché mi piaceva e mi ritrovavo molto in quel modo di essere e in qualche modo Davis mi ha formato dal punto di vista musicale ma probabilmente ho incontrato anche interesse verso quel mondo, verso quella poetica, perché il mio modo di essere era vicino a questa. Da quel momento in poi, quel trombettista pirotecnico e ginnico ascoltato alla radio ha lasciato il posto ad un’altra filosofia di pensiero che era quella che mi appassionava di più. Suono e silenzio sono due degli aspetti della musica che più mi affascinano.

 

Conti una vastissimo numero di collaborazioni con artisti dell’universo pop. L’ultima in ordine temporale credo sia la cover di “Dio come ti amo” nell’ultimo disco di Paola Turci. Come ti relazioni con questo mondo apparentemente molto distante dal jazz?

Oltre al pezzo con Paola ci sono altri due pezzi in arrivo nei prossimi dischi di Claudio Baglioni ed Ornella Vanoni. Il mio approccio è quello solito. Sono sì un musicista di jazz, ma jazz non si sa bene cosa significhi ora, è una parola troppo breve per raccogliere cento anni di musica che si è sviluppata in un secolo, il XX, in cui le cose si sono evolute con una velocità incredibile. Questo vale per la musica in genere, quella classica, ma anche di un certo rock. Si parla di stili musicali che si evolvono e si consumano in un tempo molto ampio. Il ‘900 è un secolo in cui le cose si sono mosse e consumate con una velocità incredibile. Il jazz è nato in quel secolo ed è difficile oggi parlare di questo genere in quanto non si sa bene cosa sia questa musica. È Louis Armstrong, Ornette Coleman e Kith Jarrett.

 

Ti senti un po’ costretto nel genere?

Costretto no. Ma sorrido quando sento qualcuno che mi dice “il jazz non lo capisco”, “non vengo a sentire jazz perché non mi piace”. Ma quale jazz? Ci sono mille modi di fare jazz, di intenderlo, di suonarlo, di respirarlo. Mi ritengo un musicista di jazz nel senso che il mio apprendistato ha a che fare con quella musica. Mi sono nutrito da quei suoni, con Davis, con Chet Baker e poi con Coltrane, Charlie Parker, Billy Holiday e Bill Evans. Non mi sono però mai visto come musicista di jazz nel senso stretto del termine. Quando ho iniziato a suonare il jazz l’ho fatto da autodidatta in Sardegna, non ho frequentato scuole e ho appreso questa musica da solo suonando tutto, il free, il bebop, la musica mediterranea. Mi chiamavano a suonare dal continente Paolo Damiani, che faceva musica mediterranea, Bruno Tommaso, che faceva musica d’avanguardia ma molto raffinata che aveva influenze con musica classica e barocca, e Giovanni Tommaso che mi invitò assieme al suo quintetto con Massimo Urbani, Danilo Rea e Roberto Gatto dove suonavamo il new hard bop di stampo europeo. Mi ritrovai improvvisamente a diventare un musicista di jazz professionista suonando tutto quello che capitava. Non avevo una coscienza precisa o una mia strada.

La mia strada l’ho scelta quando ho fondato il mio quintetto storico nel 1983 e lì ho iniziato a scrivere musiche e a scegliere cosa mi interessava. Quando sono arrivato a Roma mi sono reso conto che nell’ampia, o stretta, dipende dai punti di vista, comunità del jazz quelli che suonavano bop vedevano malamente quelli che suonavano il free, dicendo sostanzialmente che chi suonava free era incapace di suonare per cui suonavano free perché non sapevano fare le note giuste. Quelli che suonavano il free a loro volta dicevano che quelli che suonavano il bop erano alla stregua di coloro che suonavano nel gruppo dei Casadei. Mi ritrovavo a vivere in queste due famiglie così diverse e non riuscivo a concepire questa divisione netta fra i generi, tra gli stili. Suonavo di tutto e soprattutto suonavo una musica che mi piaceva e con musicisti che suonavano bene. La musica si divideva in musica suonata bene e musica suonata male. Questo ha fatto sì che la mia idea di jazz sia stata aperta a 360° e ho continuato in questa dimensione.

Anche nei miei progetti musicali ci sono cose completamente diverse tra loro, dalle cose più classiche a quelle più sperimentali: l’uso dell’elettronica, il mio rapporto con le musiche del mondo, dai balcani ai vietnamiti, ai bretoni, ai sudafricani. Ogni tanto provo a suonare come Davis, in quel mondo e modo lì. Il mio è una sorta di atteggiamento onnivoro con la musica che mi porta a suonare molte cose diverse perchè mi piace l’idea degli incontri, l’idea della scoperta, l’idea di trovare persone diverse, di approcciarmi a mondi molto diversi che a volte possono anche mettermi in difficoltà. Un’idea di jazz, quella che io ho appreso ascoltando i grandi maestri del passato, è quelle che il jazz è stata sempre la musica dell’apertura sotto tutti i punti di vista. L’idea delle sette, delle piccole religioni, dei modi e degli stili, mi sembra che poco appartenga ad un linguaggio che proprio perché nato nel secolo scorso ha vissuto una straordinaria stagione di grandi miscele di cose completamente diverse. C’è poi una musica che mi piace di più, una che mi piace di meno, gli esperimenti, perché non tutte le ciambelle escono col buco, ma è importante farli. Altrimenti rischiamo di continuare ad aggrapparci al passato per cercare di suonare alla Davis, alla Coltrane, alla Charlie Parker, alla Billy Holiday. Il rischio ti porta invece a cadere, a volte in piedi, a volte no, ma comunque a cercare di aprire porte nuove dove poi entri in stanze a volte completamente vuote, senza neanche una finestra, altre volte ad aprire stanze dov’è c’è qualcosa di interessante.

 

Restando in tema di eccentricità e polivalenza, secondo te oggi è possibile per un ragazzo che si avvicina a questo genere muoversi con la stessa libertà?

È auspicabile. Penso che il musicista di jazz debba essere uno che prova un po’ tutto prima di decidere cosa fare e quale strada scegliere. Il buon musicista deve conoscere la storia del jazz, deve conoscere quelli che sono stati gli artisti più importanti. Oggi si è un po’ abituati ad essere paracadutati all’interno delle cose. C’è un grandissimo livello in Italia e in Europa di giovani che suonano benissimo. L’Italia è uno dei paesi, dal punto di vista jazzistico, più ricco. Ci sono musicisti molto diversi che suonano stili diversi. C’è una grande preparazione, sono sorte molte scuole, finalmente il jazz è entrato nei Conservatori di musica. Ci sono un’enormità di etichette discografiche, forse troppe. Forse tutto troppo, compresi i musicisti che suonano e alla fine rimangono a casa perché non ci sono occasioni per lavorare. Ricevo tantissimi dischi e rimango ogni giorno stupito dalla quantità e dalla qualità dei giovani artisti. Quando iniziai a suonare non c’era tutta quest’attenzione. Quando sono andato a Roma per la prima volta c’erano i musicisti affermati e gli altri non esistevano. Oggi ci sono molti più strumenti per apprendere: le scuole, internet e i libri. È anche vero che persiste ancora la barriera della divisione. Vedo ragazzi che guardano male l’altro che suona in un modo diverso. Credo che il jazz debba essere invece prima di tutto una filosofia di pensiero. È questo quello che cerco di insegnare a Nuoro dove dirigo i seminari da ventidue anni. Le scale e gli accordi oggi te li insegna chiunque e puoi apprenderli anche da solo aprendo internet, lavorando con le basi o con i video che ti spiegano come fare tutto. La filosofia della musica è qualcosa che invece si apprende e si metabolizza di giorno in giorno. La filosofia che io cerco di insegnare è quella che il jazz dev’essere innanzitutto una musica aperta, sensibile e legata alla comunicazione e all’interplay. Questo ti porta a fare una buona musica. Altrimenti puoi anche essere un buon musicista ma se ti suoni addosso, se suoni senza sentire gli altri fai una cosa che rimane sterile e fine a sé stessa. Il mio invito in genere è quello di far sì che mai nessuno abbia barriere ma cerchi di essere completamente aperto. Arriverà poi il momento in cui sentirai l’esigenza di scegliere la tua strada, ma prima di farlo di strada da fare ce n’è parecchia.

 

Che rapporto hai con l’elettronica e il digitale?

Sono un uomo da computer ma stranamente non lo uso per fare musica. Lo uso per archiviare cose, per scrivere, ma non l’ho mai usato neanche per scrivere le partiture che continuo a scrivere a mano. L’idea di scrivere a mano mi piace perché so che in qualsiasi momento quella scrittura è talmente labile che posso modificare tutto ciò che mi pare. Uso invece l’elettronica da più di venti anni per filtrare il suono della tromba con delay, harmonizer, e altre varie diavolerie. Decisi di iniziare a suonare con l’elettronica perché all’origine volevo risolvere il problema del rapporto conflittuale con i tecnici del suono e con gli impanti. In ogni luogo che vai trovi un’acustica diversa e, tornando a quello che dicevamo prima su suono e silenzio, trovo che la qualità del suono è fondamentale perché è questa che poi ti porta a suonare in un modo o in un altro, a suonare bene o a suonare male. Se senti il suono giusto suoni bene, se non ti riconosci nel tuo suono inevitabilmente si sterilizza tutto e diventa tutto estremamente piatto. È fondamentale avere quindi sempre lo stesso tipo di suono che ti piace e che ti dà la linfa alla quale attingere per trovare idee. Riguardo la registrazione digitale sono assolutamente d’accordo. Certo, i suoni analogici sono diversi. In questo momento uso tre macchine, tre effetti elettronici di cui due bellissimi digitali che sono due TC Electronic e ho un vecchissimo effetto della Digitek che è un harmonizer analogico che non si trova più in commercio e alla fine il calore che mi da quel suono non lo trovo altrove. L’utilizzo dell’elettronica è per me un modo per tornare indietro nel tempo, lo strumento per ritrovare una tribalità e un aspetto quasi primitivo della musica che sta in un harmonizer non perfettamente intonato, qualcosa che sa di Africa, di Oriente. L’utilizzo della tecnologia per ritrovare una strada che ti porta verso altri luoghi , altri lidi e altri tempi. Che poi è un po’ il concetto dell’utilizzo dell’elettronica di John Hassel o di Mark Isham.

 

Sei una sorta di mente analogica in un corpo digitale.

In effetti sì. E credo sia anche il miglior modo di vivere i tempi di oggi. Altrimenti si rischia sempre di andare in una strada che può essere anche estremamente rischiosa. L’artista deve restare comunque il totale padrone del mezzo. Lo strumento che usi è semplicemente un mezzo per portare all’esterno un pensiero ma quest’ultimo sta dentro di te. Non puoi mettere il tuo pensiero nelle mani di una macchina. È fondamentale che l’uomo rimanga il totale protagonista. È attraverso la tua testa che pensi le cose per poi cedere una piccola idea ad una macchina elettronica che può ampliarne le possibilità, ma solamente se tu conosci quel mezzo e sai dove vuoi arrivare.

 

L’idea di ascoltare Kind of Blue su di un iPod?

Assolutamente sì. Ascolto pochissima musica in viaggio perché mi piace ascoltare la musica con il suono degli ambienti. Ascolto musica sull’iPod e col computer solo quando sono in viaggio e devo sentire una cosa in particolare, una mia registrazione per la quale devo scegliere un brano piuttosto che un altro o un disco che mi è stato dato da qualcuno perché devo scrivere una nota di copertina il giorno dopo. Ho milioni di pezzi su iTunes ma stranamente non ascolto mai niente. Quando sono a casa, al mattino la prima cosa che faccio, prima di prendere il caffè, è mettere un disco sull’impianto e lì la musica va tutto il giorno. Mi piace l’idea di sentire la musica con il respiro che merita piuttosto che con le cuffie in quanto lo trovo un modo un po’ costretto.

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