A Intervista a Rey Villalobos, ossia House of Wolves

Intervista a Rey Villalobos, ossia House of Wolves

Padre messicano, madre italiana. Il nome d’arte, House of Wolves, non è altro che la traduzione del cognome Villalobos dallo spagnolo all’inglese. E’ la casa dei lupi, dunque. E’ la casa dalla finestra aperta che diffonde musica, che la sperde nel vento. La voce. E’ la voce androgina, eterea e delicata che induce a rallentare il passo, che spinge alla sosta, all’ascolto. Voce pacata, benevola, che sgorga da un grammofono antico, impolverato, nella penombra di questa camera disadorna. Melodie tenui, blande, vagamente nostalgiche, immaginifiche. “Promettimi che non morirai”, sussurra la voce androgina, eterea, delicata. E’ un dolore bisbigliato, è una malinconia toccante. Sospeso tra Elliott Smith e Sufjan Stevens, il californiano Rey Villalobos spicca tra le migliori sorprese del cantautorato americano. Intimo, minimale. La sua arte come una tela di Mondrian, apparentemente semplice, essenziale, incorporea. Ma il dipinto cela un cosmo di suggestioni e di incanto. Otto domande, otto risposte. Per capire meglio chi sia Rey Villalobos.

 

Allora Rey, il tuo esordio, “Fold in the wind” (edito nell’estate del 2011) ha bene impressionato. In questi mesi hai girato un po’ in tutto il mondo, per suonare il tuo disco dal vivo. Stai lavorando, ora, ad un nuovo lavoro? Sarà diverso dal primo? Sì, ho rilasciato un album autoprodotto nell’estate del 2011, negli Stati Uniti, e recentemente è uscito in Francia per la Fargo Records. Presto sarà rilasciato anche in Europa, ne sono molto felice. Da quando ho scritto “Fold in the wind” per tre anni ho lavorato su canzoni molto lente, ho colto un’idea improvvisa, ho registrato pezzi di trenta secondi, poi li ho messi via, dimenticati. Ora sto rivisitando proprio queste canzoni per un nuovo album o un nuovo EP. Questi brani avranno per lo più le stesse vibrazioni, alcuni con delle differenze, più scorrevoli e più veloci.

 

I tuoi testi, molto intimi, sono autobiografici? In qualche modo ti ispiri alla quotidianità nella scrittura dei brani? Si, ogni cosa che io scrivo ha origine da ciò che sento in quel preciso momento. Non è mai successo che mi sia detto “ora scrivo una canzone in base a questo o a quello”, è pressoché impossibile. In realtà non scrivo canzoni: le trovo, o loro trovano me. Le parole sono come un dipinto astratto di cosa io sto provando.

 

Il tuo primo approccio alla musica è con il pianoforte. Poi, gradualmente, cambi strumento, passi alla chitarra. Quando componi un nuovo brano, a quale strumento ti affidi principalmente? Con la chitarra ho iniziato a scrivere tardi, però è molto semplice, perché puoi suonare ovunque. L’estate scorsa, tuttavia, mentre ero in tour a Vienna, il locale aveva questo meraviglioso pianoforte: l’ho suonato tutta la notte, il club era ormai chiuso dopo il concerto. Questo mi ha davvero ispirato per tornare a scrivere sul pianoforte, e studiarlo nuovamente.

 

Che tipo di musica ascolti? Le tue più grandi influenze per la creazione di “Fold in the wind”? Vedo molta TV e molti film in cui ascolto musica, soprattutto amo i film. Le più grandi influenze sono indubbiamente John Lennon, David Bowie, Roy Orbison, Patsy Cline, Willie Nelson, la musica classica con Chopin e Debussy.

 

Il tuo progetto precedente era “The coral sea”. La tua voce non si discosta molto da quei brani; tuttavia è evidente il passaggio verso un modo di fare musica più scarno, semplice e intimista. A cosa devi questa metamorfosi? Il passaggio da una band completa alla mia sola persona è avvenuto in modo naturale: adoro il minimalismo nella musica, nell’arte. Dunque intenzionalmente ho lavorato per questa strada, una strada che mi permettesse di creare un album da solo, o al massimo con una o altre due altre persone.

 

Prima di “Fold in the wind”, dunque prima di concerti del tutto tuoi, hai aperto i live di molti altri artisti, un po’ dappertutto. Quali sono i tuoi ricordi di quelle esperienze? Oh mio Dio, pazzi ricordi! Non riesco davvero a rammentare tutto, si è cancellato qualcosa, farà parte di un altro mondo. Ho amato davvero aprire i concerti di altri artisti, la parte migliore è conoscere nuova gente, rimanere sempre sospesi verso l’esterno.

 

Quando pensi debba essere ascoltata la tua musica? Nella calma della nostra camera, o in un viaggio notturno in auto, o in una mattinata di sole in mezzo alla natura? Mentre si sta guidando un’auto in un lungo viaggio, o comunque di notte, quando non c’è molto rumore attorno, con delle cuffie durante una camminata.

 

Sei originario dell’Italia, dell’Abruzzo. Che legame c’è tra te e l’Italia? Che idea hai del nostro Paese? Tornerai a suonare in Italia, nel 2013? Amo tanto l’Italia. Come potrei non adorarla, mia madre è italiana al 100%, i miei nonni sono nati lì. Quando ero bambino chiedevo sempre a mia madre cosa io fossi, e lei mi rispondeva che ero un italiano. Ho suonato in Italia per la prima volta la scorsa estate, al Club Twiggy, a Varese; mi ci ha portato Giuseppe Marmina della Ghost Records ed è stata un’esperienza straordinaria. Tornerò di sicuro in Italia, nell’estate del 2013.

 

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.