A Keith Jarrett Standars Trio @ Vittoriale 21-07-2013

Keith Jarrett Standars Trio @ Vittoriale 21-07-2013

A un certo punto ho temuto mi marchiassero cifre identificative sulle spalle. Ho temuto di ricevere brevi manu l'ennesimo foglio volante ove si consacrava l'ennesima, rigidissima regola. Temevo, a un certo punto, di essere costretto a respirare a minuti alterni. Per di più, ho scoperto che Keith Jarrett mi imponeva di bere solo acqua, anziché ad esempio il the freddo che avrei ingurgitato con gioia da lì a pochi minuti, e credo che questo abbia sollevato interrogativi destinati a tormentarmi per sempre.

E' però bastato che l'omino iniziasse ad agitare le mani sui tasti perché mettessi a tacere la mia verve polemica, il minuscolo Ego che si agitava nello stomaco e nei grandi padiglioni del mio cervello, incitandomi alla battaglia. Che Jarrett fosse bizzoso lo sapevo, ma speravo di non dovermi sorbire le sue bizze in prima persona, visti i bigliettoni che mi ha scucito di tasca. Ora, trovo assurdo che alle star e ai presunti geni in genere (Keith è genio vero, ma la sostanza non cambia) si debba perdonare quintali di arroganza. La verità è che sono talmente serviti e riveriti che giustamente si permettono di tutto, e lo fanno con strafottenza, senza pudore, circondanti dai sospiri sconsolati del popolino. Ieri mi sono dovuto arrendere anche io.

Veniamo al dunque: al Vittoriale (scenario sempre incantevole, il lago di Garda puntellato di luci sullo sfondo), Keith Jarrett e i suoi amici fidati (Gary Peacock al contrabbasso: un lungagnone vicino agli ottanta che maltratta le corde con sagacia; Jack DeJohnette, maestro del groove, batterista tecnicamente oltre) hanno regalato al nutrito pubblico gardesano due ore di musica splendida. Quindi, a malincuore, ho dovuto perdonare l'organizzazione ferrea, ai limiti del ridicolo, che ha consentito di celebrare l'evento.

Il trio ha rivisitato il patrimonio degli standards, lo sterminato territorio di caccia dove i tre arzilli vecchietti trovano pane per i propri denti da oltre un trentennio. Keith è innamorato delle ballads, le restituisce sempre vestite a nuovo, eleganti, raffinate. Il suo pianismo non ha perso nulla rispetto alle età più felici: forse il ragazzotto è cresciuto, forse è un filo meno agile, ma il sound è rimasto corposo, vorticoso, pieno. Accordi complessi e multirivoltati si divorano l'un l'altro originando un flusso avvolgente e immediatamente riconoscibile.

Non voglio sminuire la sessione ritmica, perché Gary Peacock anche ieri ha inanellato saggi di bravura, ora più sornione e melodico, ora più robusto e aggressivo nelle scansioni (parliamo di un musicista che ha scritto la Storia con gente da nulla come Albert Ayler e Bill Evans); perché il batterista ha alternato accompagnamenti lievi, basati sulla scansione appena percettibile dei patti, a robusti terremoti capaci di farti perdere il filo dopo poche battute, con le intricate figure di charleston, i tempi velocissimi, il ritmo trasformato in una spurazzata di schiuma, in folate di vapore.

Il protagonista assoluto della serata, però, era e rimane ovviamente Keith Jarrett. "How Deep is the Ocean" la ricordavo impressionista e dolcissima ("colpa" di Bill Evans), Jarrett l'ha invece irrobustita, pur senza strafare, usando e abusando di capacità tecniche senza pari. "Butch to Butch" di Oliver Nelson ha costretto le signore della prima fila a far tintinnare i gioielli come non sarebbe riuscito neanche a John Lennon, il pezzo ha decisamente movimentato la serata, Jarrett non ha sprecato una battuta. I ragazzi hanno sfiorato vertici di coesione e di bellezza con pochi precedenti, nell'ambito del trio jazz. La cosa stupefacente è che musica tanto complessa e ricercata sul piano armonico, melodico e dell'iterazione fra i vari solisti è capace di conquistare un pubblico generalista e fondamentalmente pop. E non credo che questo succeda perché Jarrett è l'Elton John della musica jazz, ma perché la proposta del trio è meravigliosamente equilibrata. Non si sbilancia sul versante della ricerca, non scade nella musica pop per pianoforte (Allevi? Che il diavolo mi perdoni per averlo citato qui), rimane sospesa a mezz'aria, e quindi è libera di fluttuare verso le due calamite senza mai paralizzarsi.

I colori blues di "Renaissance" hanno scatenato un notevole entusiasmo, Keith ha quindi ampliato i riferimenti rivisitando una fra gli innumerevoli cavalli di battaglia del Duca ("This ain't what they used to be"). Nel finale, i tre sono ricomparsi sul palco per improvvisare una versione rapidissima e contorta di "Straight, No Chaser", sbilenco capolavoro di incastri ideato dalla lucida follia di Thelonious Monk. L'hanno interrotta quando il suono si stava infiammando, quando l'impatto del trio stava diventando avviluppante. E' stato irritante, e bellissimo.

Gli occhi degli ammirati spettatori brillavano, il percorso di uscita era costellato di voci estasiate e aggettivi roboanti. Keith è talmente bravo che incanta tutti, anche chi – come me – è decisamente più incline a innamorarsi di jazz sporco e rumoroso. Qui non c'è l'ombra del free, ma le dinamiche dell'improvvisazione di gruppo sono comunque sublimate in libere interpretazioni, in trame vivide e personali. Keith incanta sempre, anche se a volte suona sin troppo fedele ai parametri del jazz "buono".

Mi importa poco di catalogare, comunque: ho visto un monumento semovibile, sono una persona fortunata.

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