A L'ironia Nella Canzone: analogie e assonanze tra l'opera di Paolo Conte e quella di Vinicio Capossela.

L'ironia Nella Canzone: analogie e assonanze tra l'opera di Paolo Conte e quella di Vinicio Capossela.

Sono cosciente di incamminarmi, con due saponette ai piedi, lungo una pista di ghiaccio. Sono consapevole dell’opinabilità e della scarsa definitezza dell’argomento che vado a trattare in queste poche righe e per questo chiedo venia e comprensione. Quanto segue va considerato unicamente come un tentativo interpretativo e non come una lettura sistemica in grado di urtare la sensibilità di alcuno.

Quando quello splendido orso gentile, di nome Vinicio Capossela, non fu ancora giunto nell’olimpo dei grandi Artisti, in quell’eccezionale omeostasi che coglie solo certe nobili anime, la sua figura, soprattutto musicale, venne spesso affiancata a quella di due padri putativi: Tom Waits e Paolo Conte. Quest’eredità pesante e un po’ stretta, oltre ad aver reso affettate le prime comunque lodevoli opere del giovane Capossela, ridussero notevolmente certi importanti risultati della nuova leva cantautoriale italiana e generarono una arida polemica intorno alla natura della citazione artistica e del suo uso. Questa incresciosa situazione accompagnò Vinicio Capossela sino a che, a colpi di fanfara ed organetto, una germinale creatività non sono esplose in capolavori immaginifici e immanenti come Canzoni A Manovella e, l’ultimo, Ovunque Proteggi.

Se ripercorressimo la genesi di questa duplice, presunta, paternità sarebbe subito lampante un aspetto: se il richiamo a Tom Waits è ben presente nelle sonorità e nel gusto caposseliano - ed anzi lo è stato sempre di più, almeno fino ad un recente passato - pare più fittizio il legame di parentela con Paolo Conte, legato probabilmente al fatto che Vinicio si avvalesse, ai suoi esordi, di uno staff di provenienza prevalentemente contiana. Ad avvallare questo rilievo superficiale furono le dita degli anni ’90, che per la maggior parte smisero di indicare Paolo Conte come un “Padre”e, diversamente, continuarono fisse ad additare Tom Waits. Vorrei chiedermi in queste brevi righe se l’influenza di Paolo Conte, sul Capossela, non sia stata troppo frettolosamente accantonata, in nome di una analisi superficiale e comportamentista. Se infatti l’influenza waitsiana è ben marcata entro certe sonorità e certi moduli espressivi (e ad onor del vero, oggi ampiamente superata e trascesa grazie all’utilizzo di una gamma di fonti e di gusto decisamente più ampia di quella passata), l’influenza di Paolo Conte, risulta più fine e nascosta, quasi intima, e si mantiene saldamente alle radici dell’opera caposseliana.

L’impero del Valzer, la tradizione gitana e circense, le oniriche visioni felliniane, il garbo romantico e al contempo futurista della lingua italiana, confluite nel composto museo di Canzoni A Manovella, hanno sancito un progressivo distacco da Waits e hanno allontanato le sterili polemiche di plagio del grande maestro americano. L’ultimo disco Ovunque Proteggi è andato ancora oltre, superando largamente i consueti limiti dell’opera musicale, rievocando in qualche modo certe schizofrenie artistiche di Frank Zappa.

Per quanto riguarda le analogie con l’opera di Paolo Conte, esse non sono da ricercare tra gli stilemi e i modi dello scrivere o del suonare, ben oltre, in una dimensione precedente alla stesura delle note sulle partiture e più vicina al momento dell’ispirazione. È l’ironia il grande nesso che sublima queste due opere e le lega nella loro natura più intima. È l’ironia, sopra ogni altra caratteristica, ad accomunare l’intuizione e la scrittura di questi due cantautori. Paolo Conte costruì, al suo debutto nel 1970, un sipario di personaggi osservati con un sarcasmo spietato e raccontati con toni quasi crepuscolari. Stravolse l’uso della parola, sfidando la difficile e puntuta lingua italiana a diventare musicale, ad incastrarsi, non solo con le note, ma facendo del testo uno strumento tra gli strumenti. Certe parole, per chi ha ascoltato la musica dell’Avvocato, sono ancora oggi inscindibili da certe melodie, evocano momenti precisi, sono un tutt’uno con determinati brani del repertorio contiano. Allo stesso modo, e andando oltre il puro gusto della parola come strumento, anche Capossela si è servito dell’ironia e dell’ingenuità comica per elevare la propria poetica. L’estetica caposseliana ha dipinto anche le immagini più struggenti con una fine vena di ironica poesia, sfidando e superando il lirismo melenso e la nenia melodica della vecchia scuola cantautoriale italiana (Resto Qua, I Pagliacci e analogamente di Conte, Uomo camion). Vinicio infatti, è uno dei migliori interpreti delle tradizioni: introduce tradizione in grandi quantità nei propri spartiti ma trascendendola e oltrepassandola attraverso l’uso ironico e giocoso della parola (Con una rosa, Nel blu), o viceversa, affiancando a testi impegnati ed intensi un interpretazione vocale sbadata (Signora Luna), una pronuncia o un passaggio musicale di particolare e ingenua comicità (Bardamù).

C’è un ultimo aspetto poco sottolineato, che allinea le opere dell’Avvocato e del Corvotorvo: Conte è stato l’iniziatore della fuga etilica e geografica nell’altrove, del delirio festoso e stralunato nella canzone (si pensi a canzoni come la Quadrille o Ratafià), Vinicio, in tal senso, ha recepito e amplificato le stesse atmosfere, portandole spesso alle loro estreme e visionarie conseguenze (come ad esempio la splendida I pianoforti di Lubecca o la vecchia Zampanò), in altri casi, foggiando da nuova la tradizione, quella bandistica ne L’uomo vivo o quella Centr’Americana nella recente Pena del Alma. Uno dei più freschi esempi di citazione è il ritornello del brano Dove siamo rimasti a terra Nutless?, che pare qualcosa più di un richiamo a certo repertorio contiano.

Tracciando una summa finale nella nostra modesta digressione, oggi Vinicio Capossela può essere accordato come uno dei migliori artisti italiani, può esserlo per diversi motivi: per il suo bel gusto, per la parola raffinata, per le fosforiche melodie, per le immaginifiche suggestioni da cinematografo, per i suoi valzer asburgici e i suoi animosi esperimenti onomatopeici. Un musicante che serba ancora mani di piuma e voce di sale, e il mestiere di elaborare sapientemente quel corollario di fonti che sa suggerire senza cingersi in definizioni. Ecco il punto, più che un ribollente calderone dove confluiscono vecchi stili e vecchie cianfrusaglie, Capossela è un iridescente riabilitatore, un ardito partigiano della resurrezione della tradizione, un mago che riaccende il colore della rosa avvizzita, un pittore che dipinge il futuro con i colori del passato, un oste che riporta sangue e vino al cuore secco. Lasciamo quindi in pace i grandi numi tutelari del cantautorato, essi hanno consegnato, all’opera di Capossela, lo stesso grande cuore che ha riempito le vite di noi tutti.

Per approfondire: http://www.storiadellamusica.it

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