A L'ultimo Valzer – La Musica nel Cinema di Martin Scorsese - Parte Prima

L'ultimo Valzer – La Musica nel Cinema di Martin Scorsese - Parte Prima

Senza la musica sarei perduto

(Martin Scorsese)

La musica è polvere pirica. Ma sono le nostre emozioni a fare fuoco. È azione, impatto, movimento, corpo a corpo. È qualcosa che picchia contro la gabbia toracica, contro la scatola cranica, che grida dalle feritoie del nostro inconscio tutto il suo disperato bisogno di uscire allo scoperto. Di trovare il suo spazio e il suo tempo prescindendo dal nostro. È un modo per raccordare i nostri sentimenti più reconditi, la valvola di sfogo alla banale continuità del nostro esistere, la verità che assume la forma del paradosso. È il rimosso, il presagio, è tutto ciò che sappiamo delle nostre vite ma non riusciremmo ad ammettere neppure con noi stessi.

Tutto questo al cinema è evidente, perché possiamo fare un passo indietro, guardarci dall’esterno nei panni dei personaggi. Le nostre vittime e i nostri carnefici vicari. Le cavie di un esperimento che minaccia, da un momento all’altro, di sfuggire di mano al suo creatore. Come la vita. Ed è questo che fa Martin Scorsese. Butta i suoi personaggi nella mischia, li guarda lottare, sgomitare, picchiare a sangue e uccidere per venirne fuori. Parteggia per loro ma non può fare nulla per aiutarli. Devono arrivare in cima, poi perdere tutto e ritrovare se stessi. Precipitare in un abisso di violenza zavorrati da forze oscure che sono ignari di possedere. O di esserne posseduti. Qualcuno ci riesce, gli altri vanno a fondo.

La musica è la cifra essenziale del suo fare cinema. L’anima profonda ed immortale che si cela dietro la carne dell’immagine. La verità che si fa stile. Non è un elemento decorativo, un sottofondo accattivante, un modo per contestualizzare psicologicamente e storicamente le vicende. È onniscienza applicata. Frammenti di rivelazione. L’occhio del regista è nello stesso tempo quello di Dio e quello di un antropologo che esamina i suoi esemplari nel laboratorio a cielo aperto della metropoli. A lui nulla sfugge e nulla, tuttavia, è tenuto a spiegare con le immagini. Non prima che  il ciclo narrativo glielo consenta. È per questo che esiste la musica. La musica è il nostro informatore occulto, i ritmi, gli stacchi, le note sono altrettante “soffiate”.

Tutto questo è già evidente fin dai tempi di “The Big Shave” (1967), surreale scintilla di genio, un corto di cinque minuti in cui un aitante giovanotto americano si rade metodicamente sempre più a fondo fino a che, fra graffi e tagli, si recide la gola e spira in una stanza piena di sangue. A chiarire il senso di questo apologo un po’ criptico sull’assurda banalità delle abitudini quotidiane in un periodo storico in cui migliaia di giovani proletari e piccolo-borghesi venivano macellati ogni giorno in Vietnam e rispediti a casa in un sacco di plastica, interviene la colonna sonora, una canzone di Bunny Berigan del 1939, “I Can’t Get Started”, letteralmente, “non posso  cominciare”, sarò già morto ancora prima di partire.

 E poi “Mean Streets”, il film che marchierà a fuoco il suo stile, fin dalla scena iniziale in cui il Martin regista si diparte dal Martin sullo schermo, il personaggio di Charlie, l’attore Harvey Keitel, il quale, dopo aver pronunciato una frase fuoricampo (“I propri peccati non si scontano in chiesa, ma per le strade e in noi stessi”), si alza e si dirige verso lo specchio al capo opposto della stanza e parte “Be My Baby” delle Ronettes, sei il mio bambino, un vero e proprio parto, ora il mondo è tuo e dovrai combattere in nome di esso, con tutto quello che comporta. E così andando avanti attraverso un fitto sottotesto etno-musicale che mescola “Malafemmena”, “Munasterio ‘e Santa Chiara” e “Scapricciatiello” di Renato Carosone a “Jumpin’ Jack Flash” (la cristologia italo-americana di Martin in tutta l’ebbrezza del suo dolore “Sono stato affogato, portato a riva dalle onde e dato per morto/ Sono caduto ai miei piedi e li ho visti sanguinare/ Sono rimasto perplesso di fronte alle briciole di una crosta di pane/ Sono stato incoronato con un chiodo che mi trapassava la testa”) e “Pledging My Love” di Johnny Ace (primo agnello sacrificale del rock’n’roll che, nomen omen, al pari dell’altro Johnny, Johnny Boy, interpretato da Robert De Niro, perderà la vita stupidamente, giocando ubriaco alla roulette russa).

 In “Alice Non Abita Più Qui” gli accostamenti sono ancora più arditi: c’è la voce infantile di Alice Faye, una cantante degli anni quaranta che intona “You’ll Never Know” (allusione sibillina ai segreti del plot che solo il regista al momento può conoscere?) sui titoli di testa, e poi antico (Betty Grable canta “Coney Island” dall’omonimo film) e moderno (“All The Way From Memphis” dei Mott The Hoople su un musicista che insegue la sua chitarra con la stessa tenacia con cui Alice, casalinga oltre trentenne e con un figlio, insegue il sogno infantile di diventare una cantante; “Daniel” di Elton John, dove neanche i chilometri messi alle spalle permettono al protagonista di scampare a lungo al suo destino, e tutto questo, checché ne dica De Gregori, Alice lo sa bene, solo non vuole ammetterlo; e “Jeepster” dei T-Rex, la smania di un uomo che vorrebbe possedere la sua donna come se fosse un’auto da corsa, un oggetto di lusso, esattamente quello che hanno fatto o cercheranno di fare tutti i pretendenti di Alice). Cantano anche gli attori: Ellen Burstyn sfoga tutta la sua frustrazione in “I’ve Got a Crash On You” di Ira e George Gershwin e “Where Or When”, mentre Kris Kristofferson, respinto, dietro l’aria da cowboy sentimentalmente inossidabile scalpita “I’m So Lonesome I Could Cry” di Hank Williams.

È coi film successivi, però, che questo rapporto simbiotico diventa manifesto, perfino esteriore o estroverso, “New York, New York” e “The Last Waltz”, naturalmente, “la musica di mio padre e la mia” ammetterà lo stesso regista. Ma fra Liza e la Band, fra Duke Ellington e Neil Young, c’è soprattutto lui, Travis Bickle, lo straniero americano, colui che non riesce a elaborare l’odio che nutre verso se stesso e lo riversa sui bassifondi, il Caronte della Grande Mela, quello che non sa nulla di se, né tantomeno può confessarlo al prossimo, che ripete continuamente “I’m God’s lonely man”, ebbene non è un caso se proprio questo signore è l’unico a non ascoltare mai musica, a non agire mai (diegeticamente) in presenza di questa. È una situazione claustrofobica, di esclusione estrema, di isolamento. Come quella di un pesce in un acquario (una metafora ripresa poi, con esiti spaventosi, da Abel Ferrara per “Ms. 45”, nella scena in cui la sua protagonista sordomuta partecipa al ballo in maschera). Difatti, fra colori sanguinanti e monossido di carbonio, fra pazzi, mafiosi, arrivisti, magnaccia, mariti che odiano i negri, mostri notturni, bambine che scopano, nel film non ci sono praticamente canzoni (a parte l’anonima “Late For The Sky” di Jackson Browne) e la colonna sonora di Bernard Herrmann, forse l’unico esempio di blues nella carriera del compositore, agisce più sul piano dell’atmosfera che su quello del significato, rimandando fedelmente al soffocante mood urbano, con il soffocante calore estivo della metropoli esplicitato dalle note torride del sax di Ronnie Lang.

E intanto, gli anni ottanta, Mtv, i videoclip, la tecnologia digitale, già si profilano all’orizzonte…

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