La concezione della Storia nellopera di Neil Young
“Never too clever”. Ossia, mai troppo intelligente. Questa è la sprezzante definizione che alcuni critici americani hanno riservato a Neil Young. Tale designazione si riferisce da un lato alla natura testarda, contadina e anti-conformista del loner canadese, il quale ha sempre tenuto una posizione anomala all’interno della contro-cultura americana scaturita dal filone westcoastiano, non esitando a denunciarne per primo l’irriversibile decadenza a metà anni '70, non avendo paura nemmeno a lambire posizioni che potevano apparentemente lambire il populismo reaganiano pur di affermare la propria irrinunciabile diversità. Dall’altro lato, tale critica intendeva minare la credibilità dell’impianto di fondo di quella peculiare epica americana che ha attraversato in questi 40 anni l’intero opus younghiano. Sbagliando in pieno il bersaglio, perché pochi come il buon Neil hanno saputo rappresentare l’essenza della vera America nella propria opera, forse soltanto The Band ( canadesi come lui, e forse proprio per questo più lucidi e oggettivi). Come l’immenso quintetto di Robbie Robertson, Young ha saputo mettere in scena l’immaginario dei grandi spazi aperti, quella “repubblica invisibile” ( per dirla con Greil Marcus) in cu l’America è rurale, pastorale, comunitaria e più autentica. Ma l’ex Buffalo Springfield ha anche saputo andare oltre, raccontando come nessun altro i cambiamenti, le contraddizioni, le speranze e le ambiguità della grande potenza, in pezzi epocali come “Ohio”, “Southern Man” o “Ambulance Blues”.
Una buona fetta del grande mosaico younghiano si snoda attraverso l’evocazione di fantasmi e miti del passato, in una peculiare visione della Storia giostrata da mastro Neil all’interno delle sue impareggiabili canzoni.
In cosa consiste tale peculiarità? Anzitutto, Neil non è uno storico di professione: la Storia evocata nelle sue canzoni è sovente fumosa e idealizzata, soggetta agli imperscrutabili umori del suo autore, a volte persino simpaticamente apocrifa. Un termine di paragone potrebbe essere lo Stendhal dell’incipit de “La Certosa di Parma”, quello che esaltava l’arrivo dei francesi nella Milano del 1796 come evento purificatore, portando il verbo e l’energia della rivoluzione napoleonica, dimenticando che la Milano illuminista dei Verri e dei Beccaria certo non era reduce da un periodo di oscurantismo. Questa sorta di sublime trascuratezza è visibile chiaramente in quello che è il topos per eccellenza nel canzoniere di Young, l’ America pre-colombiana, sui cui lidi Neil ha regalato due voli pindarici immortali quali “Cortez the Killer” e “Pocahontas”. L’ America dei nativi descritta in “Cortez the killer” è presentata come un’oasi di pace, fratellanza, ma è chiaramente una forzatura. Emblematica una frase come “L’odio era solo una leggenda, la guerra non esisteva”: una visione metaforica della perdita dell’innocenza, ma un falso storico bello e buono. La violenza esisteva già ai tempi dell’impero azteco, non venne certo importata dai pur temibili Conquistadores, i quali nell’ottica younghiana peraltro innestarono nel tessuto americano l'atteggiamento distruttivo e di rapina dell'occidente, incapace di acquisire le altre culture, ma orientato soltanto ad imporre la propria, e di cui Cortez è simbolo. Ciò che preme a Young nella sua celebre cavalcata targata Crazy Horse è però l’enfatizzare la primigenia purezza della civiltà comunitaria pre-colombiana nella struttura organica, resa dalla celebre metafora delle foglie attorno all’albero.
Ma è nella celeberrima “Pocahontas” che Young raggiunge lo zenith come storico sui generis, propinando una visione tenera, fiabesca e commovente del passato indiano. Nei tre minuti di questa inimitabile ballata Neil fluttua tra il tempo e lo spazio, alternando vertiginose panoramiche sui territori perduti della frontiera
“Aurora borealis
The icy sky at night
Paddles cut the water
In a long and hurried flight
From the white man
to the fields of green
And the homeland
we've never seen.”
visioni maestose
“I wish a was a trapper
I would give thousand pelts
To sleep with Pocahontas
And find out how she felt
In the morning
on the fields of green
In the homeland
we've never seen.”
flashback onirici
“And maybe Marlon Brando
Will be there by the fire
We'll sit and talk of Hollywood
And the good things there for hire
And the Astrodome
and the first tepee
Marlon Brando, Pocahontas and me
sintetizzando la sfortunata parabola dei nativi americani con un verso quale “They massacred the buffalo/ Kitty corner from the bank”.
La seconda peculiarità è che nella visione storica del Loner i protagonisti sono ( con la vistosa eccezione di Cortez) le persone comuni, gli “ordinary people” cui non a caso ha dedicato un epico pezzo, oppure grandi personaggi che hanno perso tutto. Nella prima categoria rientra certamente il “Western Hero” del secondo conflitto mondiale dell’omonimo pezzo che sta su “Sleeps with Angels”, forse un po’ retorico ma funzionale ai dolorosi incantesimi di quell’album. L’acme in tale ottica è però dato dall’eroe sconosciuto di “Powderfinger”. Questo è certamente uno dei pezzi più criptici di Young, il quale descrive uno scenario di violenza apparentemente fuori dal tempo ( potrebbe essere il vecchio West o il Vietnam degli anni 70). Il sacrificio dell’eroico ragazzo che si immola nel tentativo di salvare la sua comunità dall’arrivo del nemico armato è reso in una spirale crescente enfatizzata dai tellurici intrecci elettrici e dalle liriche di un Young dallo status letterario, che ci fa premere il grilletto assieme al suo eroe
“When the first shot hit the dock I saw it coming,
Raised my rifle to my eye/ Never stopped to wonder why
Then I saw black and my face splashed against the sky."
Altrettanto ricca è la galleria dei perdenti. Montezuma è probabilmente il più celebre, “with his coca leaves and pearls, in his halls he often wandered with the secrets of the world”, mentre Young ha saputo persino rendere l’onore delle armi al Richard Nixon caduto in disgrazia dopo il Watergate, al grido di “Even Richard Nixon has a soul”: proprio lo stesso Nixon che ai tempi di “Ohio” era stato il bersaglio principe di Neil.
I due fantasmi evocati più controversi sono certamente quelli di Charles Manson e Alan Freed. Del mandante del massacro di BelAir Young traccia un ambiguo profilo nel suo de profundis per la controcultura americana, “Revolution Blues”, riconoscendo nella pur efferata figura mansoniana il capro espiatorio scelto dal sistema per affossare il sogno hippie, ma anche un diabolico vendicatore dell’inesorabile decadenza etica degli ormai imborghesiti sacerdoti di tale sogno. Massima solidarietà invece per Alan Freed, il DJ del famoso scandalo Payola, le mazzette che le case discografiche negli anni '50 elargivano ai DJ per i passaggi radiofonici.
Young si lancia nel 1983 in una vibrata riabilitazione di Freed, finito nell’oblio e morto abbandonato da tutti, in una “Payola blues” al curaro contro l’industria discografica al grido di “perché in confronto a ciò che succede ora tu saresti un santo”, e chiudendo il cerchio con un verso emblematico quale “ I’ve got the Payola blues/ even though I already paid my dues”. Inserendo ancora una volta il giusto tassello della Storia all’interno del proprio mosaico.
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