A Live - Bonnie Prince Billy + Bob Corn (Ravenna, 16.06)

Live - Bonnie Prince Billy + Bob Corn (Ravenna, 16.06)

Introduzione: Milano-Ravenna, Ravenna-Madonna dell’Albero.

Madonna dell’albero è un paese di poche case che sgocciola da Ravenna. Uscendo da uno svincolo su una statale provinciale ci si trova subito su una via affiancata da villette, piccoli bar e circoli ricreativi, ma soprattutto l’immancabile balera romagnola. Siamo sul tardo pomeriggio, cerchi il locale dove dovrebbe svolgersi il concerto. Noti un anziano a pochi metri di distanza che si allontana dal bar fidelizzato; accosti, doppie frecce ma non ce n’è realmente bisogno, qui sembra tutto deserto, chiedi dove si trova il locale. “Non so”. Un posto dove si svolgono concerti di una certa importanza, non dovrebbe passare inosservato… “Io non so niente”. Imperterrito. Nel suo sguardo leggi un misto di terrore e sberleffo.

Noti un parcheggio a pochi metri di distanza, ne predi possesso come di una poltrona libera in un locale affollato, un trono, con la differenza che qui è tutto tranne che affollato, consulti la cartina stampata da Google Maps tre ore e mezza fa prima di partire. Google Maps non può sbagliare.

Alzi lo sguardo, noti il locale a pochi metri di distanza. Forse hai guidato troppo. Intorno, il vuoto. Sono le sei del pomeriggio. Devi tirare le dieci.

 

Bob Corn

Bob Corn è un cantautore. O, ancora meglio, un folk singer. Te lo dice già l’aspetto. Lunga barba, sguardo acuto, capelli arruffati. Hai la conferma quando si siede, imbraccia la chitarra acustica e tesse una serie di brevi ballate autunnali, ma che si stagliano perfettamente contro il sole offuscato di questa lunatica primavera. Un suono cristallino, pochi versi essenziali delineano le situazioni un po’ surreali e un po’ malinconiche raccontate da Tiziano, questo il vero nome di Bob Corn, come introduzione alle canzoni. Avere una maglietta rossa in mezzo ad una folla di persone vestite di nero, e trovare una ragazza con le scarpe rosse. Scusarsi timidamente se un brano può sembrare troppo lungo. Piccole cose che rendono affine una musica, grande un personaggio. E per grande avete capito cosa intendo. Spegnere l’amplificazione e suonare attraversando la folla per farsi sentire meglio. Lasciare un palco già scaldato di poesia folk a Bonnie “Prince” Billy.

 

Bonnie “Prince” Billy

Il cosiddetto main act, la portata principale insomma. Sono in cinque sul palco, si dispongono a semicerchio, e Will Oldham, quasi a sottolineare una natura apparentemente schiva, prende posizione in fondo a destra. E da lì non si muoverà per tutto il concerto, non cercherà mai un posto al centro, non farà nulla per sviare l’attenzione dagli ottimi musici che lo accompagnano e che rispondono ai nomi di Emmett Kelly (chitarra elettrica), Josh Abrams (contrabbasso), Micheal Zerang (percussioni) e Jennifer Hutt, bella e brava, come dicono in tv, al violino. Una formazione che già potrebbe dir molto sulle modalità scelte dal leader, che leader non sembra, per affrontare la tipica revisione dal vivo del suo repertorio. La scaletta proposta questa sera vede susseguirsi soprattutto brani dagli ultimi tre dischi, “Lie Down In The Light”, le cover di “Ask Forgiveness” e il precedente lp “The Letting Go”. Personalmente apprezzo molto la scelta di dare spazio agli ultimi lavori, che spesso vengono bistrattati dal pubblico in nome di una minore ricerca di suoni “alternativi” rispetto ai dischi Palace. Queste canzoni hanno tutta la stoffa dei classici, e vengono riproposti in modo abbastanza fedele agli originali da questo ensemble folk altrettanto classico e raffinato. Con l’aiuto dei quattro musicisti l’autore ci tiene a dare accento alle svolte più corali di certe composizioni (“Other’s gain”, “Where is the puzzle”, “You remind me of something”), oppure a intessere momenti più intimi ma dal sapore quasi teatrale (“You want that picture”, “Bad news” “What’s missing is”) in duetto con la voce femminile del gruppo. Altre volte ancora lascia spazio alla band perché possa divagare con parentesi strumentali dal retrogusto blues o quasi etnico grazie a percussioni quali djambè e tamburello (“Strange form of life” “Lie Down in the light”, “I called you back”).

Inevitabilmente i momenti più apprezzati dal pubblico, come sempre molto caldo di fronte ad uno spettacolo così sincero e spontaneo, sono quelli in cui Oldham snocciola diverse perle inaspettate come “Master and everyone”, completamente riarrangiata, “Viva ultra”, la splendida e amara “Wolf among wolves”, e ancora “Ohio river boat song” e “I am a cinematographer” viste alla luce degli arrangiamenti Nashville del disco “Greatest Palace Music”. I minuti più coinvolgenti e condivisi sono quelli della leggendaria “I see a darkness”, riconosciuta dal primo accordo, un bisbiglio nel parterre si sparge e si trasforma in un lento sussurro che accompagna la voce di Will Oldham per tutta la canzone. Non è uno di quei brani da cantare tutti insieme a squarciagola. Oldham è fatto così, e il pubblico sa che è sufficiente mormorare uno dei testi più notturni e intrisi di malinconia di tutti gli anni ‘90. Sono istanti in cui ognuno è da solo con la voce del cantautore, e se ti concentri sulla tua solitudine sembra di scrutarla, questa oscurità, di tenerla frusciante tra le mani. Tenebra presto lasciata da parte per far spazio alla vivace cover di R. KellyThe world’s greatest” e chiudere in modo epicamente sommesso con “The lion lair” nel secondo bis.

Ancora una volta la spontaneità, la naturalezza e la semplicità si rivelano scelte accurate ed essenziali per portare avanti un genere così antico, possiamo dire, come il folk di matrice americana e, risalendo la corrente, irlandese, con superba classicità ed eleganza delle forme, e della sostanza chiaramente, senza rinunciare però a stupire grazie alla contaminazione con linguaggi alternativi che superano il blues, il cantautorato, il jazz o l‘approccio “indie” e che appartengono ad una back region musicale collettiva, una terra di suoni che riconosciamo istintivamente pur senza averla mai visitata. Con Will Oldham, che si riconferma Principe del genere, questa terra non ci limitiamo a visitarla: la viviamo.

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