A Live – Buil To Spill (Milano, 4 Giugno 2007, Rainbow)

Live – Buil To Spill (Milano, 4 Giugno 2007, Rainbow)

Penso che l’essenza dei Built to Spill sia riassunta da un paio di episodi abbastanza eloquenti: fuori dal Rainbow mentre si beve e si scrocca sigarette si nota un tipo che sta seduto su un muretto con la testa tra le gambe a fumare non si sa cosa. È grasso, capellone e ha una barba da far invidia a un rabbino plurisecolare. Appena si alza si guarda attorno spaesato e si avvia recalcitrante verso l’entrata del locale. Il mio pensiero ricorre a quei fattoni che pensano ancora di essere al 1973. Poi il mio compare mi fa “Oh ma quello sembra il terzo chitarrista dei Built to Spill, quello che hanno aggiunto da poco, Brett Netson.”

Più tardi lo ritroveremo uscire dal cesso con un’espressione facciale piuttosto sconvolta reclamante forse ossigeno puro, forse quello che fumava poco prima. E comunque per chi avesse ancora dubbi ebbene sì, era proprio uno dei chitarristi del gruppo.

All’ingresso si aspetta per fare il biglietto e spunta fuori un tipo della Virgin che chiede di poter entrare nel camerino.

“Eh ma un paio stanno dormendo.” è la risposta. Manca mezzora al concerto e questi dormono?

Appena entrati c’è il tavolo con il merchandising della band, che consiste in due magliette identiche e bruttissime chiaramente fabbricate in proprio nei ritagli di tempo e in un cartello che annuncia che non ci sono loro cd ma che se vogliamo ci sono mille taglie di quell’unico orrendo modello di t-shirt. Peccato perché qualche soldo si poteva spendere visto il prezzo già molto basso del concerto (quindici pezzi). Prima di scendere nella grotta del Rainbow si nota un tipo buffissimo vestito in tuta da ginnastica e magliettina anonima in posa scultorea accanto al tavolo delle magliette. Ha una panza enorme (presumibilmente frutto di anni di amore per la birra) e un viso lunghissimo costellato da una pelata considerevole compensata da una folta chioma ai lati e da un barbone assolutamente non curato. Quell’uomo è una leggenda vivente: Doug Martsch, leader di uno dei gruppi più importanti degli ultimi quindici anni.

Se uno lo guarda fatica a crederlo.

Ad ogni modo ci prepariamo ad accoglierli sul palco. Purtroppo i Jennifer Gentle, interessante gruppo pop-psichedelico italiano hanno dato pacco all’ultimo momento e noi ci ritroviamo senza gruppo spalla ad aprire il concerto. Il pubblico come al solito è pressoché inesistente: un centinaio di persone se va bene, roba che ci si chiede come faccia un gruppo del genere a campare con un incasso complessivo da fame.

Quando salgono sul palco i Built to Spill non sono accolti da luci psichedeliche né da nubi di fumo e tantomeno da miriadi di applausi. Devono accordare gli strumenti e effettuare il soundcheck. Roba che Oasis e Green Day (per dire due nomi a caso di gruppi più fortunati commercialmente) non saprebbero forse neanche fare e che in ogni caso non farebbero mai.

Ma i Built to Spill sono degli artigiani della musica. Fanno tutto in proprio e l’unico membro non musicista della band è il giovine delle magliette che probabilmente fa anche da autista del pulmino sgangherato con cui sono arrivati. C’è qualcosa di molto romantico in tutto ciò. Il risultato è però che lo stato d’animo e la condizione fisica dei membri del gruppo non possano essere dei migliori dopo tanta fatica. Quando finalmente sono pronti per suonare le facce sono smunte, di sorrisi non c’è traccia. L’aspetto è poi ingannevole: li guardi e non gli daresti due soldi a questo gruppo di losers che sembrano usciti dai sotterranei del ghetto impiegatizio. Il batterista Scott Plouf sembra il più normale con il suo abbigliamento e il suo aspetto. Gli altri sono un’accozzaglia allo sbaraglio. Di Brett Netson e Doug abbiamo già parlato. Jim Roth, seconda chitarra, si mostra in calzoncini, t-shirt e un cappellino che formano un insieme imbarazzante, specie se calcolato con la sua chioma spazzolata grigia. Brett Nelson, bassista, sarebbe perfetto per la parte del secchione informatico in un film sui college americani.

Poi iniziano a suonare e accade l’incredibile: quello strano essere di nome Doug ha una voce angelica che sembra venire dritta dal paradiso. Mai come in questo caso risulta appropriato il vecchio detto della nonna “l’abito non fa il monaco”. Gli altri non sono da meno. Hanno quarant’anni, ne mostrano sessanta ma suonano come dei ventenni. Partono con Liar e fanno subito i fenomeni. E la maglietta verde-militare di Doug comincia a mostrare chiazze di sudore consistenti. E Netson si accomoda la sigaretta tra le corde della chitarra dando l’impressione di una chitarra che suona fumando o andando a fuoco.

Semplicemente sublime.

Segue Center of the universe ed è un’altra goduria. Il pubblico però non è soddisfatto e anche il sottoscritto concorda nelle critiche. Quando suona il gruppo è tecnicamente impeccabile, non la minima sbavatura. I musi però sono smunti e ammuffiti, tra lo svogliato e l’apatico. Sembra che manchi la passione e questo il pubblico lo sente. Quando poi tra un pezzo e l’altro passa diverso tempo per accordare gli strumenti c’è chi si spazientisce e osa un “Impiegati!”.

Non posso fare a meno di girarmi e dargli un’occhiataccia.

D’altronde essere indipendenti (in tutti i sensi) e sconosciuti comporta anche questo. Ogni gruppo che si rispetti porta con sé qualche schiavo che accordi gli strumenti e glieli lanci al momento opportuno per evitare perdite di tempo. I Built to Spill no.

Ad ogni modo le canzoni passano e sono tutti grandi classici: Kicked in the sun, You were right, Car (eseguita in versione acustica da Doug con un minimo accompagnamento del bassista), In the morning, Made-up dreams, Going against your mind, Nowhere nothing fuckup, Reasons e Big dipper. Ci scappa anche un pezzo del futuro nuovo album che lascia un’ottima impressione.

Man mano che suonano i vecchi ragazzi si sciolgono e si scatenano. Doug saltella e chiacchiera col pubblico, le pause sono ridotte e i pezzi si allungano mostrando una maestria tecnica davvero notevole che francamente il sottoscritto non pensava così elevata. Quando Netson sbaglia una nota e Martsch gli lancia un’occhiataccia questo gli risponde con un sorriso da beone con la lingua in mezzo ai denti probabilmente pensando “oh yeah!”.

Come descrivere le orgie di chitarre che penetrano come lame taglienti nel cuore e brillano di luce propria nel firmamento del Rainbow? Come descrivere la bravura tecnica del bassista Nelson, capace di farsi sentire molto bene in mezzo a quell’orda di amplificatori? E gli splendidi assoli di “Robocop” Jim Roth che non manca di stupire quando Doug gli lascia un po’ di spazio? Come descrivere tutto ciò?

Impossibile.

Carry the Zero è l’ultimo gioiello prima dell’uscita di scena.

Ma le luci rimangono accese e un concerto che si rispetti non può mancare di almeno un bis.

E chi ha ascoltato “Live” sa che in genere l’ultimo brano della serata per i Built to Spill è una maratona inebriante che puzza di sublime.

E infatti eccoli che tornano e attaccano a suonare Randy described eternity.

Inizia alle 11.38.

Termina alle 12.02.

E le previsioni sono esaudite: è il delirio. Scott Plouf finalmente si sveglia, esce dal torpore impiegatizio in cui era rimasto finora e inizia a picchiare finalmente in maniera epica alla batteria dominando la scena: la sua prestazione per quanto mi riguarda entra negli annali. E intanto le tre chitarre partono e compiono il loro dovere: assoli, riff, distorsioni, oguno rigorosamente per conto suo, in un pastiche sonoro straripante.

Io giuro, e vi assicuro che non esagero, che almeno un paio di volte mi sono sentito mancare dall’emozione e dalla goduria.

Io e l’altra manciata di spettatori.

Mentre il resto del mondo continuava a ignorare bellamente l’esistenza di questo manipolo di pazzi sognatori e si perdeva la maglietta di Martsch cambiare colore dal verde-oliva al verde-scuro.

Il mondo, permettemi di dirlo, va proprio alla rovescia.

Per approfondire: http://www.storiadellamusica.it

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.