A Live - Cure

Live - Cure

The Cure - Roma - Palalottomatica Venerdì 29 Febbraio 2008

È un’emozione che si rinnova ciclicamente.

Ogni volta si ha la sensazione che possa essere l’ultima, eppure a distanza di anni ci si ritrova sempre immersi in un magma si suoni che scuote l’anima.

Per chi era appena adolescente nella prima metà degli anni ’80, i suoni wave e dark hanno accompagnato un percorso che oggi richiama un misto di sollievo e nostalgia.

Il nichilismo ed il disagio magari sono superati, ma resta l’affettuoso ricordo di tempi così creativi e pioneristici.

La memoria non può evitare di tornare alle esibizioni romane dei Cure del passato: novembre 1987, all’indomani del diluvio sonoro di Kiss Me Kiss Me; giugno 1989, nella pioggia di tastiere di Disintegration, l’ultima zampata vincente del movimento dark; ottobre 1992, con le carinerie del best seller Wish; ottobre 1996, con il passo falso di Wild Mood Swing ma l’attenzione sempre rivolta all’importante passato ed i concerti che diventavano delle piacevoli maratone; giugno 2002, con i fiori sanguinanti di Bloodflowers e la certificazione definitiva di essere una delle band più importanti ed influenti di sempre; novembre 2004, con il Colosseo come magico sfondo di un evento troppo breve e troppo affollato.

29 Febbraio 2008, il Palalottomatica è gremito all’inverosimile per la dodicesima tappa del tour europeo che prelude all’uscita del nuovo album (sarà un doppio?) della band di Robert Smith, i biglietti sono esauriti da settimane, tutti quanti abbiamo mandato a memoria gli altri undici concerti gentilmente postati su YouTube; resta qualche dubbio sulla scaletta, ma sappiamo benissimo come si svolgerà la serata: l’invadenza del web nulla toglie alla tensione dell’evento, perché una cosa è vederli su un riquadro che procede a scatti, e un’altra cosa è averli lì di fronte.

Lui, Robert Smith, icona assoluta anche se un po’ imbolsita, i due amici di sempre Simon Gallup al basso (che sembra più giovane di quando era giovane, con quei capelli tinti di rosso) e Porl Thompson (che fra l’altro ha sposato la sorella di Smith, cosa che gli consente di entrare ed uscire dalla band con una certa libertà) alla chitarra, oggi senza capelli ma pur sempre il miglior chitarrista che i Cure abbiano mai avuto, più Jason Cooper, il batterista della storia recente.

Dopo il buon post rock dei 65DaysOfStatic, i quali fanno del loro meglio per riscaldare l’ambiente, regalando alla platea romana una manciata di brani fra i quali spiccano “Retreat! Retreat!” ed una cover dei Mogwai.

Poi il cambio del palco, la spasmodica attesa, qualche foto per ingannare il tempo, ed ecco che si abbassano le luci e parte il carillion che prelude al miglior inizio che i Cure potrebbero regalare ai propri fan: “Plainsong”.

La scelta di esibirsi in quattro senza tastiere priva il suono di quella magniloquenza barocca che è spesso stato il marchio di fabbrica della band; le parti sono emulate con effetti di chitarra ben gestiti da Smith e Thompson senza che il risultato finale ne risenta (eccezion fatta per “The Walk” che ne esce fuori un po’ forzata).

Le prime tre canzoni proposte disegnano subito uno scenario a forti tinte dark: dopo “Plainsong” seguono “Prayers For Rain” e la in parte inaspettata “A Strange Day”, che resterà la più gradita sorpresa della serata per i fan della prima ora.

Gli estratti da Disintegration dominano la prima parte della setlist, con “Lovesong”, “Pictures Of You” e “Lullaby” in bella mostra, ma il pubblico, soprattutto sugli spalti, appare un po’ ingessato.

Occorre attendere la sequenza dance oriented di “Push” – “Friday I’m In Love” – “In Between Days” – “Just Like Heaven” – “Primary” per vedere tutti saltellare come indiavolati.

Un attimo di pausa con l’elegante inedito “A Boy I Never Knew” prima di entrare nella parte più rock della scaletta dove le chitarre si scatenano su “Us Or Them”, “Never Enough”, “Wrong Number”, l’apprezzatissima “One Hundred Years” e “Disintegration” che chiude la prima parte”.

I tre bis proposti sono tematici.

Il primo pesca quattro canzoni dal disco monumento Seventeen Seconds (non ci sono parole nel vedere il pubblico che canta a squarciagola su “Play For Today” e che impazzisce letteralmente su “A Forest”, da molti considerata il manifesto del dark sound), il secondo trasforma il palalottomatica in un’immensa sala da ballo grazie alla riproposizione di hit del calibro di “Let’s Go To Bed”, “Close To Me” e “Why Can’t I Be You?”, il terzo è dedicato alla riproposizione di cinque estratti da “Three Imaginary Boys” l’indimenticabile disco d’esordio.

In pratica il terzo bis è come assistere ad un mini concerto dei Cure del 1978 con “Boys Don’t Cry”, “Jumping Someone Else’s Train”, “Grinding Halt”, “10:15 Saturday Night” e “Killing An Arab”.

Ed è il tripudio finale.

Trentotto canzoni, tre ore e cinque minuti di musica, palco essenziale, qualche diapositiva proiettata sul maxi schermo, pochi effetti speciali, più che altro qualche effetto luminoso ben studiato, un quartetto di amici rodato dal tempo, un set di canzoni che sono un po’ la colonna sonora delle nostre vite.

Un grande concerto, un’emozione che si rinnova, nuovamente.

SETLIST:

Plainsong

Prayers For Rain

A Strange Day

Alt.End

The End Of The World

The Walk

Lovesong

To Wish Impossible Things

Pictures Of You

Lullaby

From The Edge Of The Deep Green Sea

Please Project (inedito)

Push

Friday I’m In Love

In Between Days

Just Like Heaven

Primary

A Boy I Never Knew (inedito)

Us Or Them

Never Enough

Wrong Number

One Hundred Years

Disintegration

At Night

M

Play For Today

A Forest

The Lovecats

Hot Hot Hot!!!

Let’s Go To Bed

Freak Show (inedito)

Close To Me

Why Can’t I Be You?

Boys Don’t Cry

Jumping Someone Else’s Train

Grinding Halt

10:15 Saturday Night

Killing An Arab

 

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