Live - Isobell Campbell & Mark Lanegan (Bologna, 31.05, Estragon)
Sono già le 22 e 30, quando arriviamo, e l’Estragon è pieno per meno della metà, con ampi spazi fra i gruppetti di persone che seguono vociando l’ultima parte del set di Vasco Brondi, alias Le Luci Della Centrale Elettrica. “Ma chi è quello di Paz che fa Rino Gaetano?” chiede la mia amica mentre sono ancora chino sul bancone ad ordinare la prima birra. Annoto mentalmente l’osservazione e mi riprometto di ascoltare quel cd, presto o tardi, visto che il suo sembra proprio il tipico sasso nello stagno “inditalico”. Basta. Ci spostiamo agilmente nel sottopalco poco gremito e, tempo di scolarmi la media chiara, si spengono le luci sui Nostri che, zitti, zitti, fanno il loro ingresso sul palco. Mi guardo intorno, saremo un centinaio e non c’è speranza che la platea si assiepi più di così.
Età media piuttosto alta, over 30, diciamo, tanto che, per la prima volta da parecchio tempo in qua, mi sento quasi un giovanotto: qualche capello bianco, coppiette quietamente abbracciate, ragazzini nostalgici del grunge con le magliette di Soundgarden ed Alice in Chains. Loro, invece, sono impeccabili, come sempre: lui, completo nero e viso eburneo perfettamente rasato, lei, cinturone sui jeans attillati e parecchi strati di mascara.
Li accompagna un ensemble talmente intimo (un batterista che suonerà con le spazzole per quasi tutto il tempo, chitarre e un tuttofare che s’ingegna un po’ dove occorre: slide, marimbas, tastiere) che il bugigattolo dell’Estragon sembra quasi la ribalta d’un saloon. Non sorridono, non salutano, si guardano per un attimo dritti negli occhi ed attaccano. La scaletta pesca in modo pressoché equanime dalle due opere, alternando Deus Ibi Est a Who Built The Road, The False Husband a Seafaring Song, ma, come nell’ultima più riuscita prova, è Mark a fare la parte del leone e a beccarsi gran parte degli applausi che scrosciano ad ogni ruggito, mentre Isobel cesella a mezza bocca i suoi graziosi controcanti e ogni tanto si siede ad accarezzare le quattro corde con l’archetto. L’arrangiamento è scarno, essenziale, molto ritmico, la band da l’impressione che potrebbe suonarle anche su un piede solo, con gli occhi bendati e le mani legate dietro la schiena, quelle canzoni.
La piega blues di Back Burner, The Flame That Burns e Ramblin Man (diligentemente elettrificate) scalda i battimani del pubblico, mentre l’interludio isolato di Lanegan (The Circus Is Leavin’ Town) prelude ai bis a lume di candela, per i quali il duo si riserva il suo materiale più soft: Ballad Of The Broke Seas, Salvation, Revolver e Keep Me In Mind Sweetheart, intervallate dalla superba Wedding Dress, dall’ultimo “solo” di Mark, hanno la sospirosa suggestione erotica delle antiche serenate georgiche, l’atmosfera si fa ancora più intima, complice, affettuosa, i cori serpeggiano soffusi quasi timorosi di turbare l’armonia della coppia sul palco, mentre le altre, un po’ ovunque intorno a noi, si cercano, si stringono, s’accarezzano o reclinano la fronte sul petto dell’altro.
Poi l’incantesimo si rompe, Mark sorride e dice “Thanks a lot!” (le sue prime parole in prosa dall’inizio del concerto), le luci per un attimo accecano e la gente se ne va via per i fatti suoi, chi recriminando sui 18 euri spesi per poco più d’un’ora di concerto, chi mugugnando per la scarsa loquacità della Bella e del suo Sebastian e chi, come il sottoscritto, conservando nel labirinto auricolare, come si farebbe in uno scrigno, le sete e i broccati di lontane malie melodiche.
È solo sterile teatro pop, ne convengo. Eppure nessuna finzione è giunta più vera e salutare all’udito, in un oasi di cartapesta fuori dallo spazio e dal tempo.
Un solo rimpianto: avessero suonato The Raven si sarebbe brindato ad E.A., lassù. Fra gli esseri di cui da vivo intravedeva l’esistere.
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