A Live - Wire (Roma, 06.05, Circolo degli Artisti)

Live - Wire (Roma, 06.05, Circolo degli Artisti)

Non mi aspettavo un’accoglienza così calorosa per il ritorno dei mai troppo celebrati Wire a Roma. Il Circolo degli Artisti straripa di gente festosa e impaziente: indie-kids, freakkettoni, emule di Siouxsie e darkettoni esageratamente smaniosi di assistere alla performance del seminale quartetto britannico. Colin Newman (look elegantemente sobrio e innocuo occhiale alla Bonolis) è il primo a salire sul palco, mostrando una certa timidezza, soprattutto quando va a sistemare un portatile Apple accanto a sé che fungerà da leggio. In molti si chiedono come mai Newman non ricordi i testi a memoria, ma ben presto nessuno fa più caso a questa stranezza. Lewis segue il compare, agguantando con uno scatto feroce il basso, con in viso scolpita una impenetrabile espressione neanderthalesca. Gotobed è un cyborg la cui sola missione è sedersi dietro le pelli senza far trasparire nessuna emozione, senza mostrare nessuno sforzo.

Non c’è Bruce Gilbert e proprio non ne sappiamo il motivo. Al suo posto una chitarrista dall’aspetto tosto e vagamente mascolino, di cui non conosciamo l’identità.

I quattro suonano un set compatto, potente, ricco di pezzi monolitici e gelidamente meccanici.

L’attitudine di Lewis è per certi versi opposta a quella di Newman. Il bassista, muscoli tesissimi, sguardo tenebroso, voce tonante come quella di un Dio in collera, appare madido già dopo pochi pezzi, mentre Colin non si scompone mai e, con espressione sorniona, sembra divertito e lusingato dalla positiva risposta del vivace pubblico. Entrambi hanno però qualcosa in comune: essi appaiono, nel complesso, soprattutto algidi, in una maniera che potremmo definire grottesca. Aggettivi che si addicono perfettamente, d’altronde, alle loro canzoni.

La “veemenza allucinata” di The Agfers Of Kodak lascia a bocca aperta. Sotto i piedi di Newman si scatena un pogo violentissimo raramente visto al Circolo (almeno per quanto mi riguarda). Durante Advantage in Height mi arriva un gomito dritto in petto, lasciandomi come ricordo un fantastico ematoma prugneo. Molti astanti si spostano parecchi passi indietro per evitare di essere travolti da punkettari irrequieti e donne gotiche riscopertesi riot girls.

In I Don’t Understand finalmente Newman getta la maschera, lasciandosi pervadere dalla follia controllata della canzone, cantando in maniera insieme perversa e disperata, mentre un Lewis sempre più minaccioso artiglia con i piedi il pavimento, brandendo in maniera più aggressiva il basso.

Si tira un po’ il fiato con la torva Lowdown, con la “legnosa” Being Sucked Again e con l’acclamata, più “leggiadra” The 15th (che suona dannatamente attuale!), durante la quale il coro del pubblico sovrasta il cantato sbilenco di Colin.

Pink Flag supera la vecchissima versione in studio, con Newman che gesticola come un maestro d’orchestra seguendo il ritmo del ride di Gotobed, rivolgendosi agli astanti come fossero la sua orchestra, prima della incredibile detonazione finale.

Uno dei pochi appunti che si possono fare è che non sono stati suonati molti brani della gloriosa trilogia di inizio carriera. Poco male comunque, i pezzi più recenti si sono rivelati davvero avvincenti e taglienti. Questi pionieri post-punk ormai incanutiti hanno dimostrato ancora una volta con inquietante distacco e sicurezza di possedere una classe e uno spessore superiori, da fare invidia a tanti giovani nuovi wavettari. Un pensiero che al contempo rallegra e rattrista

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Alessandro Pascale alle 14:11 del 16 maggio 2008 ha scritto:

ebbravo Luca

beato te ceh ti sei potuto godere i Wire! bello il report cmq, pieno di sfaccettature e ritratti interessanti. Andrebbero fatti tutti su questo stile