A M83 Live

M83 Live

M83-Live Report 03-11-2008 La Casa 139 (Milano)

Mentre sbagliavo direzione avventurandomi sempre più lontano dalla location de La Casa 139 (che come dice il nome sta al numero 139, quindi perché diavolo mi sono ritrovato al 180?) pensavo al fatto che forse la crisi avesse colpito anche Milano, la grande capitale italiana della finanza. E se già prima c’era poca gente ad assistere ai concerti “alternativi” poteva forse finire che ancora meno ce ne sarebbe stata? Riflettevo su ciò soprattutto in considerazione a quei quattro gatti che avevo trovato a miagolare al concertone che raggruppava No Age e Don Caballero di pochi giorni prima. Quando però la fortunata ricerca del locale ebbe finalmente fine e mi ritrovai in fondo ad una coda lunga almeno venti metri capii che avevo fatto bene a dedicarmi nella vita alle materie umanistiche, che di previsioni e analisi più meno macroscopiche a quanto pare non ero proprio in grado di farne.

Va bene che il prezzo era decisamente basso (dieci carte più la tessera arci) però di trovarsi il locale pieno (un duecento persone tranquillamente) per la sola esibizione degli M83 non ce lo si aspettava proprio. Questo è il primo dato davvero importante della serata, e vien da chiedersi se dipenda dal fatto che La Casa abbia una fetta di pubblico fedelissimo, o se la gioventù milanese abbia seguito la corrente che ha gridato al capolavoro per il loro recente album Saturday=Youth, o se semplicemente al solito il sottoscritto abbia sottovalutato le competenze musicali della folla meneghina pronta a gettarsi nelle musiche varie del combo francese.

Dico musiche varie perchè col senno di poi è davvero dura descrivere lo stile degli M83, capace di spaziare tra elettronica danzereccia, space-rock, shoegaze, synth-pop e via dicendo.

Iniziamo con ordine allora e partiamo dalla salita sul palco dei quattro membri del gruppo: il batterista viene rinchiuso in una specie di gabbia di plexygas che lo rende a me invisibile per tutta la serata. Un peccato perché la sua performance sarà molto più interessante di quanto fosse lecito attendersi. Il chitarrista porta uno sciarpone comunista e pare tanto uno di quegli indie-rockers da due soldi. La tastierista si presenta con i capelli raccolti e un paio di pessimi occhiali da vista.

Sembra un po’ vecchiotta e scialba e gli si dedica poca attenzione per ora. Poi c’è lui: Anthony Gonzales, il vero boss nonché factotum: si divincola tra il computerino in bella vista, la tastiera, la chitarra e il microfono. L’inizio non è dei più esaltanti: largo ai brani più elettronici di remota origine e spazio ai musicisti di fatto ridotto quasi a zero. Ma è un attimo e nel giro di un paio di brani di tal fatta l’impressione di un’esibizione glaciale e impersonale lascia spazio al fragore di una batteria a tratti impetuosa e decisamente rock. Ci si comincia ad eccitare con gli intrecci tra le tastiere di Gonzales e Morgan Kibby, bambolina che nel prosieguo dell’esibizione diventa sempre più sbarazzina (via gli occhialacci, sciolta la lunga criniera, culo in perenne movimento) e sensuale.

Un po’ imbarazzante la situazione del piccolo chitarrista con la kefiah le cui schitarrate un po’ comiche (eppure incisive) trovano spazio solo quando ad accompagnarle si propone anche Gonzales, che non sembra gradire molto l’approccio con la chitarra ma che si mostra in grado di compiere il compitino del caso. Quando invece il Gonzales si dedica alla tastiera il suono della chitarra scompare letteralmente, colpa forse di un bilanciamento dei suoni non proprio impeccabile come invece fu nelle registrazioni in studio. Non per niente per buona parte dello show il boss passa il tempo a fare facce stizzite annesse a gestacci rivolti al mixer posto alle nostre spalle.

D’altronde non me curo più di tanto, incantato da un suono corposo, tagliente eppure raffinato che riesce a emozionare con perle pop romantiche che richiamano gli anni ’80 o con brevi intermezzi chitarristici minimali in stile Interpol. Poi è partita la danza e non ci ho capito più niente.

Davanti a me c’era un nero alto due metri e grosso come un armadio che ballava esattamente come deve ballare un nero, ossia in maniera sublime, rattrapendosi su sé stesso, inarcando la schiena su e giù, scotendo impeccabilmente il culo e schioccando le dita a tempo. Da dietro mi sembrava Forest Whitaker e nonostante mi togliesse una bella visuale non ho potuto fare a meno di sorridere per la sua esibizione, via via sempre più sfrenata con l’intensificarsi di un ultimo brano che dichiarava il proprio status di musica da ballo colta del terzo millennio.

Da ballare per tutti: bianchi, neri, indie, wavers, shoegazers, repubblicani, democratici, nerd e intimisti. Un piccolo miracolo. Bella lì Gonzales. Ti perdono anche il fatto di aver suonato un’ora scarna senza bis. D’altronde per dieci carte cosa ci si aspettava?

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