A Mojomatics - Live & Intervista

Mojomatics - Live & Intervista

Mojomatics & Redworms’ Farm @ La Gabbia, 18/10/2008

Ehilà, ciao! Ancora voi?”. Matteo Di Lucca, alias il gorilla, batterista dei Redworms’ Farm, ha sulla faccia l’espressione inequivocabile di chi è sorpreso di vederti lì e, nello stesso tempo, ti vorrebbe pure offrire da bere. Un ammasso di capelli ricci in testa, vestito in maniera sobria ma elegante, accoglie con un saluto ed un sorriso lo scomposto tentativo di noi cinque disperati –oltre al sottoscritto c’erano anche Stefano, Giulia, Tommaso e Dan- di andargli incontro. Si trattiene per due chiacchere e poi scivola nel backstage. Poco dopo passerà anche Pierre Canali, il cane, cantante e chitarrista: stessa pietosa scena, stesso buon risultato. “Cominceremo a suonare per le undici e mezzo”, assicura, con una Red Bull in mano.

L’attesa è palpabile. In un localino grande sì e no come una discoteca, con un palchetto in legno degno del peggior oratorio (di Caracas), situato in fondo al mondo dirimpetto un enorme stabilimento dell’acqua Vera, si esibiranno stasera due fra i migliori gruppi rock italiani in circolazione. Da una parte i Mojomatics, duo veneziano attivo dal 2002 e dedito ad un secco garage-blues dalle movenze punk: dall’altra i miei concittadini, già citati, Redworms’ Farm, muscolari eredi italiani di quella scena post-hardcore che nacque e si sviluppò grazie a nomi del calibro di Fugazi e Jesus Lizard. Le aspettative, personalmente parlando, sono doppie rispetto a quelle dei miei compagni di avventura, avendo già avuto la fortuna di vedere la bravura di entrambe le formazioni dal vivo, ed attendendo perciò una valida riconferma.

La Gabbia comincia pian piano a riempirsi. Gente di tutti i tipi affolla la minuscola sala, mentre gli altoparlanti diffondono nell’aria splendidi classici blues e country databili agli anni ’30. L’atmosfera è impaziente ma rilassata, tranquilla. Menzione speciale per la barista che, servendo i drink agli avventori, colleziona il record di sedici bicchieri rotti in un’ora. Intanto il tempo passa, mentre noi, sbragati sui divanetti, parliamo del più e del meno.

Ecco che, alle undici e un quarto, con il più classico dei ritardi sulla tabella di marcia, i fari luminosi vengono puntati sul palcoscenico, ed il cicaleccio del pubblico si zittisce all’istante, come tarpato all’unisono. Cade il sipario: Mojomatt e Davematic appaiono sullo stage, vestiti di tutto punto con due nuove camicie nere. Qualche cenno alla folla, uno sguardo d’intesa e via: l’apertura di “Why Don’t You Leave Me?”, da “Songs For Faraway Lovers” (2006), è decisa e fulminante. La scaletta dei due musicisti veneti è a prova di bomba: spettacolare “Wait A While”, velocissima, che scartavetra con la sua potenza i muri del club. Anche i pezzi più roots e le alcoliche ballad, alternati con maestria, suonano decisamente più carichi e massicci di quanto non lo fossero su disco. Chitarra e batteria, uniche protagoniste –le poche linee di basso sono infatti registrate-, s’intarsiano continuamente fra di loro, dimostrando un’ottima intesa. L’effetto è garantito: il pubblico apprezza, e molto. Gli applausi aumentano di pezzo in pezzo, sino a sfiorare il consenso unanime nella pirotecnica chiusura, con “Miss Me When I’m Gone”, estratta da “Don’t Pretend That You Know Me” del 2008, e uno splendido medley di cover blues che detona rumorosamente in risvolti vicinissimi all’hard rock. Un plauso per Davematic, che si scatena dietro le pelli, incendiato dal fuoco del rock’n’roll. Ah, il potere della musica... Peccato solo per la mancata esecuzione di “She Loves”, uno dei brani migliori dell’ultimo lavoro, ma non si può pretendere sempre tutto. Lo dice anche il titolo del disco recente, dopotutto. Promossi senza se né ma: da rivedere il prima possibile.

Lo stacco che separa le due esibizioni, esageratamente lungo e dilatato, è l’unica nota negativa della serata. Mentre si odono i rumori forsennati delle prove dei tre musicisti padovani dietro le tende rosse, ed in sottofondo decenni di musica nera vengono passati in rassegna, la serata latita. Fiorisce il merchandising dei Mojomatics: in pochi istanti vengono venduti, davanti ai nostri occhi, magliette, cd ed LP. È evidente che il live set ha lasciato un’impronta decisamente positiva sugli astanti. Giulia mi chiede se posso guardare quanto vengono le t-shirt, ma non faccio in tempo ad alzarmi che, quasi a tradimento, i teli vengono tirati via, scoprendo alla vista i Redworms’ Farm, Pierre sulla sinistra, Marco sulla destra, Matteo, come al solito a petto nudo, in mezzo. Con una corsa da velocisti conquistiamo la prima fila proprio mentre i tre attaccano, con forza impressionante, il post-punk marziale di “Beastie”. Le chitarre gemono, il gorilla massacra di colpi il suo drum-kit e, alla fine del pezzo, si arrampica sul rullante: sono sempre loro.

Da qui in poi, tutta un’altra musica. I Nostri non si perdono proprio in parole inutili, eccezion fatta per una piccola pausa dovuta ad un problema tecnico della sei corde di Marco. Sferragliando e rimbombando all’infinito il proprio suono nell’angusta ambientazione della Gabbia, i Redworms’ Farm eseguono, in quaranta minuti scarsi, il meglio del loro repertorio, da “Amazing!” (2005) a “Cane Gorilla Serpente” (2007), fino a passare per il più lontano “Troncomorto” del 2002. Canzoni, già brevi di loro, ulteriormente velocizzate e irrobustite, break e ripartenze rapidissimi, soluzioni melodiche sempre valide e vincenti e, su tutto, l’eccezionale prova fornita dalla sezione ritmica, vera e propria trincea armata pronta a far fuoco, sempre e comunque (“Help Me!”, strabiliante, “Everybody” ed una rivoltata “Pop Song Remix” sono lustro per le orecchie). Le appendici conclusive di “Yeah, Yeah Everything” e “Nervous Act” sono colate di napalm sui padiglioni auricolari: tonnellate di effetti che distorcono ed amplificano il suono, dissolvendosi in foci quasi metal. Mai un calo di tensione, mai un pezzo che si dimostri inferiore agli altri: ben presto il sudore comincia a grondare copioso dai volti dei tre musicisti. Il gorilla diventa Stachanov al sopraggiungere di “The Kingdom Rules”, il più bel pezzo di “Cane Gorilla Serpente”, impossibile scarica percussionistica condotta su andature allucinanti. “Forty Two” è invece salutata come una liberazione da parte dei presenti: il sax viene rimpiazzato da caustici incroci di chitarre, mentre il ritornello corale è manna da urlare tutti insieme. Finalmente gli spettatori vengono ripagati sino in fondo.

La chiusura sembrerebbe, come da copione, affidata al nevrastenico “Dig in the underground, we wanna stay in the underground/ Things can be dangerous, we wanna stay in the underground” di “Whatever For Us”. Ma questa è una sera particolare. Ecco quindi che i Redworms’ Farm, invocati a gran voce per diversi minuti, ritornano sul palco, più o meno sudati, e regalano la particolarissima “Echo”, cavalcata noise di quattro minuti dove le chitarre sono libere di sbizzarrirsi. “And what are you doing now? I feel insane”. Non c’è bisogno di aggiungere altro: dal nostro angolo noi ringraziamo, in silenzio, ancora una volta.

A San Giorgio In Bosco, questa sera, c’è un cuore rock. Che pulsa.

Intervista ai Mojomatt

L’orologio segna l’una di notte quando si conclude lo strabordante live set dei Redworms’ Farm. Da bravo recensore in erba –dato l’orario, in ambedue i sensi- quale sono, cerco di rintracciare Mojomatt, cantante e chitarrista dei veneziani Mojomatics, che poco prima della loro apertura mi aveva promesso una chiacchierata faccia a faccia, per parlare del loro nuovo disco e di cinque, entusiasmanti anni di vita rock’n’roll. L’impresa non è fra le più facili –nel backstage non v’è traccia del barbuto musicista, e l’illuminazione stentata della Gabbia non permette proprio ampie vedute- ma dopo minuti di penoso girovagare riesco a scovarlo nella zona merchandising. Detto, fatto: con un ampio sorriso mi scorge e mi conduce nel camerino dove, sigaretta accesa in mano e basco calcato in testa, si apre un bel confronto…

Marco Biasio: “Don’t Pretend That You Know Me” è il vostro nuovo disco. Che cosa ha rappresentato per voi in fatto di immagine e di suono?

Mojomatt: A noi non piace troppo ripeterci nei dischi. Questo è leggermente meno roots, a differenza dei precedenti è più ispirato al punk australiano. Un po’ più power pop, se vogliamo. Quella è l’unica differenza: io spero di avere un suono abbastanza riconoscibile, ma ad ogni disco cerchiamo di avere delle influenze, di indirizzarlo verso quello che al momento più ci piace. Abbiamo fatto anche delle registrazioni nuove, recentemente, abbastanza diverse da quelle dell’ultimo album. Anche l’abbigliamento non è più quello di un tempo: una volta avevamo giacca e cravatta e poi, per questioni di sudore (ride, ndr) siamo passati alla camicia!

M.B.: Mi incuriosisce molto un aspetto del vostro tour. È stato infatti di una straordinaria ampiezza: non siete stati solo in Italia, ma anche in paesi come la Norvegia, in particolar modo Oslo, e soprattutto il Sud Africa. Come mai portare la vostra musica in posti così lontani e, se vogliamo, così inusuali? C’è stata una buona risposta del pubblico?

M.: Mah, in Scandinavia è ottima la risposta del pubblico, perché il genere che facciamo noi è molto seguito là… Siamo andati perché ci hanno chiamato, quindi noi non rifiutiamo niente: se ci chiamano noi suoniamo in qualsiasi contesto, in qualsiasi situazione. Se possiamo ci siamo sempre.

M.B.: Ma, in ogni caso, vi è piaciuto?

M.: Sì, molto, decisamente.

M.B.: Il vostro percorso musicale è estraneo a quello che è, di fatto, il germe italiano di gruppi noise rock anni ’90, come Afterhours e Marlene Kuntz, di cui moltissime band risentono ancora adesso. Voi, invece, suonate una cosa tipicamente americana ed anglosassone, non avete grandi riferimenti in territorio nazionale. Questo vi ha creato dei disguidi? E, rappresentando un’eccezione, come siete visti dai vostri “colleghi”?

M.: Noi facciamo quello che abbiamo sempre ascoltato, la musica italiana non l’abbiamo mai seguita troppo. Abbiamo sempre avuto un debole per la roba inglese o americana, soprattutto del passato, dagli anni ’30, decade d’oro per il blues, fino agli anni ’60-’70. Ciò che ascoltiamo si rispecchia sempre nella nostra musica. Per quanto riguarda le difficoltà con i gruppi, generalmente non ne abbiamo: talvolta ci sentiamo un po’ tagliati fuori dal contesto italiano, e fortunatamente (sorride, ndr)… all’estero suoni in una scena garage punk, come la nostra, quella del nostro genere, del nostro pubblico: in Italia invece suoniamo più spesso in situazioni più indie rock, quindi magari la gente non è preparatissima per ciò che facciamo, però ci sta…

M.B.: Abbiamo accennato un pochino alle influenze. Ce ne sono tante ben riconoscibili nel vostro suono, seppur molto personale. Secondo te, quali fra queste, in particolare, hanno dato vita a quelli che oggi sono i Mojomatics?

M.: Ce ne sono parecchie, variano da disco a disco, da periodo a periodo. Sicuramente il suono inglese di metà anni ’60, quindi Rolling Stones, Kinks e compagnia: il garage punk americano; tanto blues, sia quello di Chicago degli anni ’50 che quello del Delta degli anni ’30, Robert Johnson in primis; molto folk, specialmente Dylan, ed anche il punk australiano.

M.B.: Avete una formazione a due elementi, chitarra e batteria. Pur essendo da soli, come prima abbiamo potuto sentire, avete un suono secco, che non si perde in complicati ricami. È difficile trasportare dal vivo quello che esprimete su disco?

M.: Sicuramente dal vivo è un po’ diverso da quello che succede su disco, perché in studio abbiamo magari la possibilità di sovraincidere qualcosa, di fare un paio di chitarre in più o di aggiungere l’armonica. Sul palco l’approccio è più diretto, più essenziale, ovviamente, ed è anche giusto così: ci teniamo che il concerto sia diverso da quello che succede mentre registriamo.

M.B.: E perché, magari, non aggiungere un basso?

M.: Quest’estate abbiamo fatto un tour con un basso, per presentare il nuovo disco, ma alla fine ci troviamo meglio in due: siamo partiti come duo e resteremo sempre un duo.

M.B.: Come pensate che la tecnologia moderna –Internet, MySpace, i blog- possa aiutare le band nascenti? Voi ne fate uso e, se sì, come vi rapportate?

M.: Utilizziamo molto il MySpace, è una cosa fantastica. Questi mezzi danno la possibilità a tutti di farsi conoscere: è un aspetto estremamente positivo. Poi, è ovvio, coloro che hanno quattromila contatti saranno meno avvantaggiati rispetto a quelli che ne hanno centomila, ma in questa maniera si riesce a capire prima anche quale musica sia di qualità e quale, invece, no.

M.B.: Ed ora una serie di domande botta e risposta. Beatles o Rolling Stones?

M.: Rolling Stones, assolutamente! Amiamo molto anche i Beatles, ma quando penso a loro mi viene in mente un suono retrò, in un periodo databile negli anni ’60 e comunque ben preciso e distante dalla realtà. Il suono degli Stones invece è attuale ancora oggi.

M.B.: Vinile, disco o mp3?

M.: Vinile. Sin dai nostri esordi, dal nostro primo disco, abbiamo realizzato il 7”. È una questione di affezione ma anche di cultura. In realtà, non credo che a fare la differenza sia il fatto di avere un suono migliore, o forse non solo quello. Il piacere credo stia nello sfogliare la copertina gigante, nel leggere le note all’interno del booklet, nell’ammirare la grafica sul fronte. Sia chiaro, ho anche molti mp3, ma quando posso tendo a comprare: l’mp3 è un formato volatile, non resta, non dà soddisfazione. Io voglio possedere un qualcosa di fisico, che perduri nel tempo.

M.B.: Artista, gruppo e compositore preferito.

M.: Come compositore direi sicuramente Dylan. Come gruppo è difficile, forse gli Stones… di artisti singoli, invece, ne ho davvero troppi per poter scegliere.

M.B.: Grazie per il tempo dedicatomi, Mojomatt! Vuoi fare un saluto agli utenti ed ai lettori di Storiadellamusica.it?

M.: Certamente, grazie mille a te ed un saluto a tutti! Anzi, ne approfitto per fare i complimenti ad Aurelio Gravina per la recensione di “Songs For Faraway Lovers”: ha proprio inquadrato ciò che voleva essere quel lavoro e per questo lo ringrazio!

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CigarO alle 18:11 del 6 novembre 2008 ha scritto:

Grazie marco...

Nemmeno menzionato l' autore del video dell' intervista! il sottoscritto! ora mi offendo...

Dan alle 22:49 del 23 novembre 2008 ha scritto:

Scusa Marco

scusami vecchio mio ma la "musica blues databile anni 30" è in realtà dei Creedence Clearwater Revival che sono anni 60/70...

Marco_Biasio, autore, alle 21:04 del 24 novembre 2008 ha scritto:

RE: Scusa Marco

Sei tu?!? In realtà in mezzo ai Creedence, all'AOR settantiano e ai cazzi vari c'erano proprio classici blues del Delta... ho riconosciuto Robert Johnson!

Marco_Biasio, autore, alle 21:04 del 24 novembre 2008 ha scritto:

RE: Scusa Marco

Sei tu?!? In realtà in mezzo ai Creedence, all'AOR settantiano e ai cazzi vari c'erano proprio classici blues del Delta... ho riconosciuto Robert Johnson!