A Mombu + Mood + Astral Brew + Halley Dna + Servant Songs @ Curtarock, 28/07/2018

Mombu + Mood + Astral Brew + Halley Dna + Servant Songs @ Curtarock, 28/07/2018

Ma che ne so io, che ne posso sapere, del fascismo? Sono solo l’umile lavoratore medio di quell’infernale vigna che è la classe disagiata descritta da Raffaele Alberto Ventura: giovane-ma-non-più-giovanissimo, un’ottima istruzione cementata da buone competenze professionali e adeguate possibilità sociali, il pieno accesso a tutte le possibili ramificazioni dell’industria culturale, amici formidabili e nemici invincibili, una salute che va a picco assieme ai progetti e alle aspettative future, l’incapacità di concepire la propria vita in ottica funzionalistico-materialistica e la persistente consapevolezza che solo il caso ha impedito nascessi dall’altra parte del globo e fossi costretto a impugnare pala e piccone all’età in cui si dovrebbero tirare calci ad un pallone. Non so, non posso sapere cosa voglia dire svegliarsi privato delle proprie libertà fondamentali, senza alcuna possibilità di reazione né tantomeno di opposizione: in un paese dove i maggiori intellettuali firmano appelli e manifesti razzial-sovranisti (non riesco mai ad immedesimarmi come vorrei nei racconti dei miei amici serbi), in un paese in cui linee invisibili – ma assai pervasive – possono venir tracciate da una sola parola. La realtà in cui vivo è diversa e pur tuttavia complementare: è la realtà dell’Overshoot Day (il reale ticchettio dell’apocalisse, altroché), è la realtà delle catastrofi ecologiche, è la realtà di tycoon che si reinventano capopopolo e di proletari spinti ad odiare chi è messo in condizione di avere ancor meno di loro, è la realtà di una finta realtà virtuale che ha soppiantato la “vera” realtà a forza di meme e paradossi (ma cosa, ormai, è più “vero” o “falso”, e chi lo decide?), è la realtà di chi vuole sbarrare l’ingresso ai propri porti con croci giganti e adotta come sport nazionale la caccia allo straniero (c’è chi comincia a rimpiangere Berlusconi: fate un po’ voi), è la realtà di antivaccinisti, antigender, antieuro, anti-Soros e anti-Kalergi pronti ad insorgere come una muta di cani rabbiosi di fronte all’unico “anti” che importa davvero – l’antifascismo, touché.

Recentemente mi è ricapitato di rileggere un mio vecchio report su una memorabile serata del Curtarock di sei anni fa con protagonisti Ronin, Putiferio e Quasiviri, una delle più intense cui abbia mai assistito nel corso della mia decennale frequentazione della rassegna padovana. Lo dico non per autocelebrarmi, tutt’altro. Vi ho infatti riconosciuto – a dispetto della radicale discretezza sociopolitica, in forma e polarità, di questo 2018 rispetto a quel 2012, della generale esasperazione ed estremizzazione dei toni – un comune malessere tematico, l’emergere di un amalgama di criticità irrisolte e forse irrisolvibili, la profonda consapevolezza che una vera dimensione parallela, artistica, possa alleviare anche solo momentaneamente le profondissime e insanabili irrequietudini derivanti dall’inevitabile compromesso col quotidiano. È precisamente attraverso questo tipo di catarsi – vissuta attivamente, catturata furtivamente o goduta passivamente – che le giornate del sartriano Antoine Roquentin riacquistano quella dignità annullatasi nello scontro con il mondo che lo circonda: l’antidoto ad una nausea esistenziale che rivela la futilità delle nostre più intime ambizioni, delle nostre concupiscenze più abiette e miserabili. Con tutta evidenza, ci sono cose che – aldilà del tempo, dello spazio e dell’esperiente – non cambiano.

A non cambiare, ad esempio, sono quegli appuntamenti che, una volta l’anno, favoriscono la sinergia di spazi alternativi persino per la più retriva delle profonde province venete. Ho avuto ripetutamente modo di scrivere, in passato, cosa rappresenti per il sottoscritto il Curtarock – ben prima e ben più di ciò che è davvero, ossia una “semplice” cinque giorni di festa, cibo, birra e musica. Oggi, poi, che l’offerta culturale ha in gran parte perduto la varietà e il dinamismo degli anni migliori (c’è anche da capirlo, se chi dovrebbe andare ai concerti poi non ci va…), queste occasioni diventano ancor più preziose. Sarà (anche) per questo che, avviandosi ad abbandonare i propri “teen” (il ventennale è dietro l’angolo: traguardo davvero monumentale, dati i tempi), la rassegna sfodera un programma fittissimo, orientato a trecentosessanta gradi verso ogni tipologia di ascoltatore. Si fa quel che si può, d’altro canto, e la leggera nostalgia per quegli happening completamente diy dei bei tempi andati viene abbondantemente compensata dal volonteroso, persino ottundente dispiego di energie. Certo, non parliamo del Primavera, ma il salto di qualità è percepibile e – cosa fondamentale – implementato in un sistema che non dimentica le proprie radici, né la propria missione.

Fare la spola da un palco all’altro, tra i miasmi caliginosi di un tremendo sabato sera di fine luglio, tende dunque ad assomigliare ad una breve geografia fisica della resistenza culturale: di chi c’è perché vuole esserci, di chi c’è perché ci si è trovato in mezzo, di chi non c’è (più). Anche con le conte, nel bene e nel male, si misura il polso della situazione. Lo stato di salute potrebbe essere certo migliore, ma guai a lamentarsi. Anche perché – parla l’egoista stirneriano che sonnecchia in me – serve una ragione per lamentarsi: ragione che qui manca. Flash e diapositive appena delineate, in ordine sparso, rendono telegrafica giustizia dell’ennesima serata indimenticabile.

Impressioni di settembre. Il piccolo drappello di persone rapite dalla gentilezza degli autografi di Servant Songs, progetto solista dell’ex Pueblo PeopleHis Electro Blue Voice Nicola Ferloni: cantautorato voce-elettrica di buona fattura e di impostazione evidentemente americana, inaspettatamente annunciato da un disturbante bisbigliare di drone e feedback (ma forse, parere personale, in una situazione più raccolta un’acustica avrebbe reso maggiormente).

The old boys are back in town, alias a band for old people but not aged. Il roboante reboot dei Redworms’ Farm, ora rinominati Halley Dna e passati ad una formazione a quattro (tre chitarre!) con la quale distribuiscono la solita, generosa dose di rasoiate post punk, tra beat danzerecci, smozzicature in italiano (da rifinire) e il tentativo di elaborare il risultato finale su una dimensione più tecnica. Rottamate ‘sto cazzo. Anzi: no se gà capìo niente!

Stage is the place. L’approccio coraggioso degli Astral Brew, catapultati su un palco più grande di loro che, nonostante a tratti sembri tradirli (la tensione della difficile parte centrale di “Next”, ad esempio, scema con troppa facilità), ne esalta in verità le capacità di ensemble unitario (eccellenti le rese di “Remote Horizonts” e di una “Space Solitude” più vigorosa del previsto). In generale, i brani di “Red Soil” reggono molto bene la prova live: il grosso della popolarità mediatica deve ancora arrivare, ma ce ne importa qualcosa?

Curtarolo’s the new Chicago. E da dove cacchio spuntano questi qui?, reazione comune e sgomenta al palesarsi dei due Mood. Manuale del perfetto math rocker: 4/4 insistiti che non sembrino mai tali, loop station da far vergognare Ian Williams, un armamentario di riff ed arpeggi che sembrino usciti dallo scantinato di una congrega alcolica di liceali americani. In più: breakdown colossali, distorsioni à go-go, dialoghi strumentali non sempre impeccabili ma sicuramente efficaci, un po’ di Adebisi Shank, qualcosa di Giraffes? Giraffes!, una maglietta dei Three In One Gentleman Suit che giustifica la provenienza da Finale Emilia e nobilita quelle progressioni melodiche un po’ emo che ogni tanto fanno capolino. Eroi della serata, e senza manco bisogno di un palco: suonano tra il pubblico.

Heavy metal thunder. Il ritorno sulle scene dei Mombu, con un concerto che incarna al meglio il concetto di “sopportazione fisica” (per chi suona e chi ascolta). Se già in passato l’approccio live era un’esperienza soddisfacente quanto provante, oggi la trasformazione è avanzata ad uno stadio ancora successivo: i confini tra i brani che si sbriciolano (anche se “Niger” rimane un fantastico sentire), l’ossessione ritmica portata al punto di non ritorno, una suite finale di mezz’ora in cui nulla rimane se non la pulsazione, il battito, l’intreccio di tamburi, piatti e m’bira. Evidentissima, ben più che delle recenti fascinazioni ambientali di Luca Mai (Divus, Zu93), l’influenza afrocentrica dei nuovi progetti di Antonio Zitarelli (Tolmo, Santa Muerte). Difficile prevedere i prossimi passi: davanti ai Mombu si spalancano praterie inesplorate, o forse voragini inesplorabili.

È solo a questo punto, confuso e felice, che mi sovviene una dotta citazione, profezia e premonizione dei tempi foschi in cui siamo immersi: le cose che non cambiano mai poi cambiano in un minimo limite di tempo. Io, che del fascismo non so e non posso sapere nulla, sono però già dal lato sbagliato della storia, minoranza di una minoranza in avanzato stato di decomposizione. Se il tempo scorre lungo i bordi, bisognerà farli d’acciaio, questi bordi: e ad essi stringersi tutti assieme, riconquistando un centimetro dopo l’altro. Sei anni fa, lo ricordo bene, i Ronin suonarono uno dei loro cavalli di battaglia, “Venga La Guerra”: ora, che la guerra è alle porte, a salvarci dovrà essere il valore di ciò che si è. Possano presto giungere tempi migliori.

Per approfondire: http://www.curtarock.it

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