A Morrissey: Teatro Arcimboldi, Milano (10/07/12)

Morrissey: Teatro Arcimboldi, Milano (10/07/12)

Poggio gli avambracci sulle transenne (ancora scosse) della seconda galleria dell’Arcimboldi, scrutando il palco ora vuoto, rievocando l’archetipo di Morrissey destreggiarsi tra lo scorrere di mani alte, passionalità, pianti regressivi in forma privata, sul fluire di schermi retroilluminati e ad alta definizione. Un fan con un mazzo di rose in mano; Mozza che gira attorno alla sua preda, carezzando simbiotico le mani che incrocia, una alla volta. Come far crescere il desiderio, la libido; e la frustrazione. “I Know It’s Over”, e il tizio non regge, giacché scaraventa con fare umiliato e insoddisfatto il suo segno d’amore - che, per buona metà del concerto, ha stretto tra le dita. Amore non corrisposto, un leitmotiv lirico che si materializza davanti a noi; io e Valentina capiamo, e ridiamo. Anche quando all’ennesima invasione di palco  - la maggior parte di essi, ed è una conferma, sono uomini - pare di assistere ad un match di rugby, più che a un concerto (con le bodyguard disorientate per i placcaggi multipli a cui sono sottoposti, specialmente nella parte conclusiva del concerto):  ma ciò rientra, era prevedibile, nella logica di uno show che è declinazione naturale della caratura di un personaggio unico, mito vivente, icona storica già immortale, che il pubblico glorifica sia nella pietrifica attenzione della galleria, sia nel coinvolgimento fisico della platea (<<Does the body rule the mind, or does the mind rule the body? I don’t know>>) .

Rapido sguardo in prospettiva aerea: pubblico che nella parte bassa invade le prime file, balla, freme, anche (ma non soprattutto) nei brani del suo percorso solista. Ed è quindi handclapping protratto in “You’re the One for Me, Fatty”, scatenamento per il pop furbetto e a presa rapida di “I’m Throwing my Arms around Paris”, ipnosi catartica in “Ouija Board, Ouija Board“, ed inni da arena in “Everyday is Like Sunday”. Morrissey nel frattempo coglie cadeaux freschi e profumati, e tra magliette da bancarella sul lungo mare e bandiera italiana da stendere e verso la quale chinarsi, incanta gli astanti con esecuzioni canore pressoché perfette di “Shoplifters of the World Unite” e “Still Ill” (sempre sia lodato Johnny Marr) . In sordina (almeno un po’) le chitarre brit, le ritmiche da evocazione epica, e le aperture rock (troppo dissonanti con lo stile del nostro ‘charming man’) di “Maladjusted” e “One Day Goodbay Will be Farewell”; prescindibile (in una scaletta altresì soddisfacente) “People Are the Same Everywhere” -  forzata oltremodo, nella forma. Da sciogliersi in lacrime, invece, tra l’enfasi di “Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me” e “Let Me Kiss You”, sebbene, per varie ragioni, i (tre) picchi emotivi del concerto (tutti a marchio Smiths) siano rappresentati dalla già citata “I Know It’s Over”, “Meat is Murder” (con annesso filmato di animali al macello: “this beautiful creatures must die”), e “How Soon is Now?”. Questo, brano conclusivo di uno show (intenso e con rari cali; dall’acustica passabile ma non sempre a fuoco, e genericamente non pulitissima) da un’ora e mezza scarsa, ipnotizza l’intero teatro e regala lo spogliarello tanto agognato. Il lancio di una camicia fradicia di sudore, poi, farà nascere una contesa passionale a sommo di rissa al pub: si sghignazza, ancora una volta.

E un sorriso lo strappano anche le proiezioni in corsa al concerto (Wilde, “Who is Morrissey?”), Boz Boorer in fase parafiliaca (travestitismo), l’interazione frequente col pubblico (a cui si presenterà, e si rivolgerà ripetutamente con un “bambini, bambini, bambini…”: già culto) di uno Steven Patrick capace di rimanere al col tempo ‘individuo’, performer dal portamento unico, che è rito pop e metafisico, abbandono per ogni singola persona che lo idolatra.

Ritorno in me, e si scende in direzione dell’uscita. Prima, però, uno sguardo al banchetto merchandising: federa “Last Nights I Dreamt That Somebody Loved Me” più volto prototipico a lato, sul quale riversare lacrime e sudore, umori; borsetta, verso kitsch al leone Lonsdale, plastificata nera - qualcosa di orrido…andrà a ruba. Maglia “Forza MOZZA!” e memorabilia varie, a partire dai braccialetti a scatto marca “Morrissey”, o gli improbabili micro guanti da pugile – solo dio ne comprende la funzione ergonomica. Tazze da tè “England is mine and it owes me a living”: nostre.

Morrissey, sì, è anche questo.

 

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