A 'Nessuno può sentirmi, ok?' John Howard, rinascite di una pop star mai nata

'Nessuno può sentirmi, ok?' John Howard, rinascite di una pop star mai nata

9 aprile 2013. Oggi John Howard compie 60 anni. Se il nome vi è nuovo, non vi preoccupate: io stesso - e me ne vergogno - fino a 6-7 mesi fa non l'avevo mai sentito nominare. John Howard è qualcuno che, per dirla alla Dylan, "could-a-been the champion of the world". Ma non lo è diventato. E il fatto che non lo sia diventato lo rende forse ben più interessante e intrigante.

Perché la storia di Howard sembra un continuo gioco crudele, una tensione verso quella gloria continuamente accarezzata ma mai abbracciata.

Ha ripudiato il suo nome di battesimo, Howard Jones, perché lo riteneva poco da pop star, vedendosi poi clamorosamente smentito dall'omonima icona del synth-pop '80s; ha gentilmente detto di no alla proposta dei poco più che esordienti Iron Maiden, che gli offrirono il ruolo di cantante; ha realizzato un fallimentare primo album che gli ha portato due singoli ostracizzati e una copertina rifiutata, tutto per questioni "morali"; un secondo che è rimasto nell'embrionale forma di demo, inascoltato per 30 anni; un terzo che, nonostante la collaborazione con il produttore superstar del mercato inglese del tempo, Biddu (uno che passava da un singolo da milioni di copie vendute all'altro), ha dovuto aspettare decenni prima di essere pubblicato; ha concluso con alcuni singoli prodotti da Trevor Horn il quale, ancora poco conosciuto, nell'arco di qualche tempo avrebbe spiccato il volo con Video Killed The Radio Star.

Tutto questo convivendo, col senno del poi, con un atroce dubbio: che a ostacolarlo verso la strada del successo non sia stata la semplice sfortuna, bensì l'omofobia dilagante nell'industria musicale dell'epoca.

Ma aldilà delle incredibili controversie umane, John Howard va riscoperto soprattutto per quello per cui è nato: la musica. In particolare Technicolour Biography è uno degli specchi cantautoriali più puri che abbia mai ascoltato.

Un paio di mesi fa ho intrapreso un periodico contatto epistolare - se così ancora si può chiamare - con Howard, che si è dimostrato da subito persona gentilissima e disponibilissima. Ha accolto con entusiasmo la mia proposta di un articolo critico sui suoi tre album "maledetti" degli anni '70. I contatti si sono intensificati nelle ultime settimane, arrivando così all'intervista-fiume che fa da appendice all'articolo, un'intervista in cui Howard ricorda il suo cammino, il suo mondo e la sua arte senza freni, dando risposte molto migliori delle mie domande.

Non mi resta che augurarvi buona lettura: ladies and gentlemen, John Howard.

Dai campi di fragole al mondo perduto

Tutto comincia con i Beatles. Non inusuale, se si è un giovane appassionato di musica di passaporto inglese in pieni ‘60s.

Galeotto è l’ascolto di Strawberry Fields Forever, la canzone che fa capire a John Howard la sua aspirazione: diventare un cantautore, una pop star. Suona il piano dall’età di cinque anni e un registratore regalatogli dai genitori gli permette i primi passi nel mondo della creazione musicale. Passi estremamente rudimentali, all’insegna del lo-fi sfrenato – addirittura le ginocchia come percussioni! – ma che gli fanno prendere confidenza.

Il cammino procede nel 1969, con John studente dell’art college di Accrington, dove comincia a improvvisare concerti suonando proprie composizioni durante le pause pranzo. Iniziativa gradita, tanto che nei primi mesi dell’anno successivo (marzo 1970, per la precisione) il comitato studentesco lo invita per un concerto di beneficenza: il suo primo concerto con un pubblico “vero”.

Questi primi passi verso la notorietà lo portano a ripudiare il suo nome d’anagrafe, Howard Jones, perché non lo considera un buon nome da pop star. L’icona del synthpop ‘80s, autore di New Song e What is Love?, avrebbe qualche anno dopo distrutto questa tesi a suon di album venduti.

Tra il settembre 1970 e il 1973 Howard partecipa, al Boston Octagon Theatre, a degli eventi chiamati Bluesology, calderoni di artisti in cerca di notorietà. In una delle sei occasioni cui John partecipa, un’embrionale line-up degli Iron Maiden gli offre il posto di cantante, ma la proposta viene gentilmente declinata.

L’esperienza Bluesology non è però infruttuosa: un agente lo nota e gli propone concerti come spalla in vari folk club nei dintorni di Manchester e Preston. Uno di questi gli dà la possibilità di un concerto solista e Howard lo ripaga con un pienone.

A questo punto il giovane musicista capisce che per crescere deve lasciare la provincia e tuffarsi nel cosmo londinese. È ospite inizialmente di Peter Gronau, funzionario della Polydor, la quale però non manifesta interesse nella sua musica. Si sposta poi così a Kilburn (quartiere di Londra), dove il coinquilino Brian Keith, cantante di Plastic Penny ed English Congregation, lo presenta a Stuart Reid, capo della divisione pop degli Chappell Studios, che gli offre la possibilità finalmente di registrare le proprie composizioni, dozzine di demo che vedranno la luce nel suo album d’esordio, Kid in a Big World.

Preso sotto la sua ala protettrice, Reid pubblicizza Howard e lo aiuta a trovare un contratto, che arriva nel dicembre 1973 con la CBS Records.

Sorvolata una piccola parentesi temporale per scrivere su commissione una canzone per il film Open Season, Casting Shadows (registrata tra l’altro a Roma), nell’aprile 1974 Howard è finalmente pronto per fissare su nastro la sua opera prima.

Reid continua a volere qualità per Howard: gli Abbey Road Studios, l’ex Shadow Tony Meehan come produttore (aveva iniziato in questa veste con la CBS con Painted Head di Tim Hardin due anni prima) e Rod Argent come sessionman.

Ma la scalata verso il successo non comincia col piede giusto: uscito nell’ottobre ’74, il primo singolo, Goodbye Suzie, riceve infatti responsi contrastanti. Ken Evans di Radio Luxembourg impazzisce per la canzone e la propone continuamente in trasmissione ma BBC Radio 1 non è dello stesso avviso; parlando di una ragazza che si suicida, viene giudicata troppo deprimente e la BBC si rifiuta di trasmetterla.

Giudizio eccessivamente drastico: sorretto dall’immancabile piano e accarezzato da fiati solenni durante il refrain, il pezzo (che tradisce una certa influenza dell’Elton John di Honky Chateau) avrebbe tutte le carte in regola per trovare buonissimi piazzamenti in classifica. A giustificare parzialmente i timori della BBC vi è forse l’enfasi con cui Howard pronuncia il verso “a girl in blue discovered drowned”, ma resta una decisione molto poco comprensibile. Molto meno controversa è la b-side, Third Man, grazioso omaggio a Take Five di Dave Brubeck, pezzo e autore idolatrati dal padre di John, pianista jazz (tale omaggio non troverà spazio nell’album ma è ora disponibile nella ristampa cd come bonus track).

Altro momento di difficoltà arriva con la scelta della copertina. Il titolo inizialmente pensato per l’album è Guess Who’s Coming to Dinner e questa prima session di foto, ambientata in un bar ristorante, ha – come ricorda Howard – un aspetto “stilosamente decadente, simil Vogue”.

La CBS stronca il risultato come “disgustoso” e si deve quindi optare per un’estetica, per quanto ancora stilosa, più sobria e confacente alle richieste dell’etichetta.

Le critiche non si placano nemmeno con il secondo singolo, Family Man, ironico ritratto patriarcale che non solo viene tacciato di misoginia (sempre dalla BBC), ma anche ri-registrato insieme alla title track perché la CBS stronca la produzione di Meehan. Così quando arriva nei negozi, il 28 febbraio 1975, Kid In A Big World è già un album ferito. E non cessa di esserlo: nonostante qualche buona recensione e un iniziale riscontro positivo di vendite (circa 15000 copie nelle prime due settimane), il disco viene presto assorbito dall’oblio dell’indifferenza.

Disinteresse della CBS in primis, come ricorda Howard: “sembrò che dopo due settimane l’uscita dell’album, questo fosse stato dimenticato dall’etichetta stessa”. Una campagna promozionale e una politica marketing inadeguate abbandonano il “kid in a big world” in un mondo davvero troppo grande per non smarrirsi.

Una sorte immeritata per il disco che, a distanza di quasi 40 anni, si rivela ancora come uno dei più freschi esempi di cantautorato glam.

Serie di acquarelli pop di un dandy (ancora) di provincia, l’album è un caleidoscopio delle sensazioni e impressioni che il ventenne Howard scopre con il “nuovo mondo”, una nuova realtà che già vede con paura o ansia (la Suzie suicida, che “la città dimenticherà in un lampo”, può benissimo essere una starlette che non ha saputo reggere il passaggio alla notorietà, mentre il kid della title track proprio con il peso della fama deve fare i conti, perché “quelli della stampa ti fotograferanno, ti metteranno alla prova e penseranno che le tue parole non sono come le loro”), senza però soffocare il disincanto e l’entusiasmo di questo inedito status: ecco quindi il vaudeville di Maybe Someday in Miami (Howard e Meehan chiesero espressamente ad Harry Gold un arrangiamento retrò, anni ’30; fecero lo stesso per la versione poi rifiutata di Kid in a Big World) e Spellbound, oltre all’irresistibile ritornello di Deadly Nightshade.

Capolavoro di Meehan è Guess Who’s Coming to Dinner, dove il produttore palesa il suo passato a fianco di Joe Meek stravolgendo l’iniziale demo di Howard immergendola in uno zibaldone sci-fi a base di moog (facendo impazzire Rod Argent nel trovare il sound giusto) e accordion. Il testo nonsense di Howard completa il meraviglioso senso di spaesamento del pezzo.

Altro pezzo in cui si sente pesantemente la mano del produttore è Gone Away, dove Howard ha addirittura la possibilità di suonare il mellotron usato da Lennon per Strawberry Field Forever: un cerchio che si chiude. The Flame, forse il pezzo più toccante del disco, è un testo trovato in un vecchio diario che Howard scrisse per il migliore amico dei tempi della scuola e che s’incastra in una spirale lirica di piano, chitarra e fiati.

L’album aveva insomma tutte le carte in regola per diventare un grande successo. Così non è stato.

Ma il peggio deve ancora venire.

 

David Bowie registra Pink Moon

Verso la fine del 1974 Howard e Paul Phillips, il produttore chiamato dalla CBS per ri-registrare Kid in a Big World e Family Man, tornano in studio per creare il secondo album. C’è da cancellare la delusione di Goodbye Suzie e quella imminente di Kid.

Rispetto al periodo di composizione dell’esordio, Howard e la sua vita sono radicalmente cambiati: ora pienamente immerso nella furia metropolitana londinese, il ragazzo sta facendo corsi accelerati per diventare uomo. Nel settembre di quell’anno la madre muore. E naturalmente tutto questo fa sì che i toni tutto sommato sereni (per quanto mai davvero facili) di Kid si dissolvano totalmente.

Technicolour Biography è una confessione noir di un giovane uomo che vive in un mondo che non capisce e da cui non è capito ma del quale è già dipendente e succube.

Inaugurato e dissolto da un invito alle danze – Take Up Your Partners – che nella versione conclusiva si fa lamento pianistico, il mondo del disco è visto attraverso un’opprimente teca di vetro (“queste quattro mura sembrano tutte uguali/non importa quante volte cambi posto” canta in Just Waiting Here for You), che porta a un’autocoscienza d’isolamento.

Il giovane dandy si sente come il protagonista di The Other Side of Town, un uomo “che nessuno sembra capire affatto/lo vedi ridere quando cerchi di parlargli/si sposta in auto perché a quanto pare cammina male/dice che il suo cuore non è a casa”; un apolide in questa vita in cui “quando sei perso e solo/perché non puoi sentire il telefono/che suona all'ingresso/nessuno vuole chiamarti [...] A chi importerà quando morirò?” (Don’t It Just Hurt?)

Il Kid in a Big World ha capito ora il peso della fama: cadenzata da una violenta melodia, Hall of Mirrors è per stessa ammissione di Howard, il seguito cupo della title track dell’album d’esordio, giungendo a dire che “la realtà è lo show che non necessita di alcun aiuto degli angeli”.

L’oscurità malinconica totale arriva con la title track, ninnananna che abbraccia il talking blues (senza ovviamente esserlo) allucinato di scuola dylaniana – “e il ragazzo al banco giochicchiò con le parole/le servì tutte come richiamo al poeta Robespierre/che una volta si arrampicò nella sua mente come scalatore/e dall’oscurità le canzoni vennero intonate pianissimo/e il cielo divenne giallo/il terreno un cuscino”  – per manifestare un dolore oppressivo che universalizza col lacrimae rerum in falsetto che chiude il pezzo.

Un’oppressione che Howard, novello Faust, può esorcizzare solo col piacere fisico: “Quindi stringimi la mano ora/facciamo un patto/scambierò ogni mattina un risveglio solitario/per una notte di caldo caldo amore” (The Deal).

Anche quando sembra filtrare della luce in questo deserto di oscurità, essa si rivela un’illusoria allucinazione: in Coconut Bible, apparentemente allegra filastrocca nonsense, Howard concentra visioni alienate (“conto ogni mattone del muro e arrivo a 103 in tutto, ma sono sicuro di averne mancato uno oggi e l’autista mi dice che devo pagare/E stanotte do la colpa alla tua lotta per la libertà, quando suonasti il campanello di casa mia, dove giacevo e gemevo, per dirmi ‘Dov’è il telefono?’ ‘Sotto il telefono dell’ingresso e rendi edera i miei dubbi’”) per esprimere tutta la sua solitudine all’interno di un mondo che non riesce a capire e col quale non riesce ad entrare in simbiotica sintonia. Come se il Barrett di Baby Lemonade si fosse messo al pianoforte, SOS Morse per fuggire da un aldiqua che ha tutte le sembianze di un eterno ritorno all’aldilà.

Forse il miracolo più grande di Technicolour, aldilà della sensibilità umana di cui è permeata, è la sorprendente qualità compositiva: pur senza gli arrangiamenti che Paul Phillips aveva in mente, la musicalità del disco è straordinaria, ogni composizione è una felicissima isola impossibile da confondere con un’altra. Miracolo ancor più sorprendente se si pensa al fatto che, diario di scarne demo confessionali, il disco rischiava di cadere in una prolissa autoreferenzialità a discapito della qualità musicale. Rischio che è diventato spesso realtà nella storia della musica popolare: Josh T. Pearson, per rimanere a casi recenti, avrebbe fatto bene a prendere appunti.

Certo, è un miracolo leggermente artificioso, poiché se fosse stato dato l’ok per la pubblicazione, il disco sarebbe stato sorretto da una solida produzione e il sempre affascinante effetto di “confessione solitaria di un artista” sarebbe svanito. Ma miracolo rimane.

La fortuna del disco è però ancora più tragica di quella dell’esordio: scottata dall’insuccesso di Kid in a Big World, la CBS boccia in partenza il progetto, ritenendolo troppo poco fruibile e commerciale. I dirigenti esigono ora da Howard successi, hit, vendite. Tutto quello che un’opera così intima e personale come Technicolour Biography non può assolutamente garantire. Le canzoni rimangono così nella loro primigenia forma di bozze, di demo “voce e piano”. Niente arrangiamenti, niente produzione. Niente visibilità.

Il buio chiama altro buio.

 

Ultima spiaggia. Dove nessuno può ascoltare

Stroncata in partenza la proposta di Technicolour Biography, la CBS impone ad Howard un’unica via: quella commerciale. Un album pieno di pezzi orecchiabili, facili, immediati.

Viene così chiamato Biddu, un produttore che proprio in quel periodo ha iniziato a diventare una superstar: nel 1974 Kung Fu Fighting di Carl Douglas ha avuto un successo epocale (si parla di 11 milioni di copie vendute), portando Biddu da autore di canzoni senza grande successo a produttore di fama e richiesta mondiale.

La prima canzone del nuovo progetto è I Got My Lady e la netta sterzata è evidentissima sin dal primo verso: “Mi sento bene, mi sento alla grande, sento la brezza, sento la luce del sole”. Come avrebbe ammesso lo stesso Howard, “mi sembrava commerciale”.

Biddu dà l’ok ai dirigenti della CBS e una prima session, con l’arrangiatore Gerry Shury, porta alla registrazione di I Got My Lady e Frightened Now. E per la prima volta in carriera, Howard sente grande entusiasmo attorno a lui: I Got My Lady viene considerata un potenziale successone estivo e finalmente Howard sembra godere di fiducia.

Ma in questa nuova veste il giovane musicista non si trova perfettamente a suo agio: il lavorare su commissione per un prodotto marcatamente ed esplicitamente commerciale lo costringe a creare un corpus di canzoni molto velocemente e senza poterle baciare con la sua personalità, con l’inevitabile risultato che le canzoni di Can You Hear Me, OK? non raggiungono mai la qualità dei due dischi precedenti.

Questo non significa che sia un brutto disco: gli arrangiamenti di Pip Williams, chiamato in sostituzione di Shury (impegnato con l’album solista di Biddu), rasentano talvolta il sublime, come il quartetto di corde e flauti che asseriscono alla title track un sapore bacharachiano, o la combine trombino-sitar in Two People in the Morning, il cui attacco sembra uscire da un western di Morricone. Imponenti anche gli archi di 19th September.

Ma appunto gli arrangiamenti di Williams (che troverà successo producendo, tra gli altri, gli Status Quo) coprono e abbelliscono canzoni, se non mediocri, melodicamente standard, non paragonabili alla varietà e alla qualità di quelle di Kid, anch’esso sorretto da un’attentissima produzione, senza però esserne così dipendente. Forse l’unico pezzo in cui a livello di scrittura si sente il “vero” Howard è Missing You, struggente ballata alla maniera di The Flame.

Grottescamente però, nonostante questo compromesso, l’album finisce per non soddisfare nessuno: Howard non ama questo modo di lavorare “meccanico”, Biddu è relativamente interessato al progetto, che considera uno dei tanti che gli possono portar soldi e richiamo, e la CBS…prende tempo.

Il manager di Howard, Stuart Reid, porta le registrazioni ai dirigenti, sicuro che questi gli diano una data d’uscita indicativa; invece la CBS, forse indispettita dagli arrangiamenti di Williams, apprezzatissimi da Howard ma non ascrivibili alle sonorità disco richieste in partenza dall’etichetta, temporeggiano.

I mesi passano nel silenzio più totale fino a quando a dicembre l’uscita di I Got My Lady, il da loro considerato potenziale successone estivo, viene programmata per gennaio: un suicidio logistico inspiegabile. L’ovvia conclusione è che, nonostante una buona promozione di Capital Radio, il singolo non vende quanto aspettato, trascinando così nell’oblio l’intero album, che viene archiviato. Rimarrà inascoltato per decenni.

Can You Hear Me, OK? si rivela così l’ultimo, disperato urlo di un musicista che ha tentato in tutti I modi di far parlare la sua arte, senza che nessuno potesse alla fine sentirla.

Frastornato dall’ennesimo buco nell’acqua, Howard abbandona il mercato discografico e torna ad esibirsi nei locali. Verso la fine del ’76 è addirittura costretto a rimanere mesi interi in ospedale per un incidente che gli ha rotto schiena e piedi. Nella primavera del ’77 l’interesse per la sua musica torna attualità quando a cercarlo tramite Stuart Reid è un ancora semisconosciuto Trevor Horn (la nascita dei Buggles risale al 1978, per giungere al successo planetario di Video Killed The Radio Star bisogna aspettare settembre 1979), che si dice interessato a produrre delle demo con lui. Con l’autostima sotto i tacchi, Howard è lusingato da questa proposta e accetta. La prima canzone che Howard fa sentire a Horn è I Can Breathe Again, un pezzo scritto con Tina Charles in mente e pensando che sarebbe stato proposto a lei (in quel periodo infatti sia Horn che Geoff Downes, l’altra metà dei futuri Buggles, sono componenti della sua band). Ma il suo nuovo amico, espresso gradimento per il pezzo, gli suggerisce di tenerselo per sé. Così, con Downes alle tastiere, Bruce Woolley alle chitarre e Louis Jardim alle percussioni, il pezzo viene registrato e la pubblicazione – tramite Ariola Records - viene fissata per il febbraio ’78, con You Take My Breath Away come b-side. Ma ancora una volta, nonostante le buone sensazioni e aspettative generali, Howard compreso (“Sembro Tina Charles in acido!”), nonostante un sound spiccatamente commerciale, il singolo non sfonda. E nonostante l’Ariola si dichiari interessata a un nuovo singolo, Don’t Shine Your Light e Baby Go Now, ancora prodotte da Horn, non convincono i dirigenti, che si tirano indietro. Verso la fine del ’79 i due pezzi vengono comunque pubblicati dalla SRT Records,  ma quando Baby Go Now comincia a trovare buona diffusione radiofonica la CBS, che nel frattempo ha rimesso sotto contratto Howard, sostiene che quel singolo non rappresenta l’attuale identità artistica del musicista. E i passaggi radiofonici magicamente scompaiono.

Un paio di singoli a inizio anni ’80 – ovviamente insuccessi – sono gli ultimi sussulti di una carriera mai davvero decollata.

 

(ri)Nascita, finalmente

Persa ogni speranza di gloria artistica, Howard intraprende la via di A&R (Artists & Repertoire, è il talent scout di un’etichetta, nonché figura manageriale di tramite, negoziatore tra artista ed etichetta), lavoro che svolge per 15 anni. Nel 1996 un’infelice parentesi creativa, l’album The Pros and Cons of Passion (mix di pezzi originali e cover), fa riaffiorare i fantasmi del passato. L’etichetta incaricata alla pubblicazione, la Carlton label, fallisce appena una settimana prima della data di rilascio del disco, che rimane così inedito (verrà pubblicato nel 2008). Ma è l’ultima nuvola di tempesta.

Con l’inizio del nuovo millennio, infatti, rinasce anche l’ex ‘kid’: nel 2002 Kid in a Big World viene inserito nel libro di Matsui Takumi “In Search of the Lost Record: British Album Cover Art of 50's to 80s” e questo spinge la RPM, filiale della Cherry Records, prima a inserire Goodbye Suzie nella compilation Zigzag: 20 Junkshop Soft Rock Singles 1970–1974, poi a ristampare l’intero album.

L’iniziativa viene ripagata da grande successo di critica e questo incoraggia la RPM a portare finalmente alla luce i due grandi “aborti” CBS, Technicolour Biography e Can You Hear Me, OK?.

Allietato da quest’inedita considerazione, Howard torna così a scrivere, registrare e pubblicare dischi. L’ultimo, You Shall Go The Ball! (2012), è una rivisitazione di alcuni pezzi dell’epoca, tra cui diversi di Technicolour Biography (la title track, Take Up Your Partners, The Other Side of Town, The Deal, Don't It Just Hurt? e Hall of Mirrors).

Sposatosi nel 2006 con il compagno di una vita, il regista e attore teatrale Neil France, il musicista vive dal 2007 a Murcia, in Spagna.

Forse il mondo sterminato non è poi così irrimediabilmente perduto.

INTERVISTA A JOHN HOWARD

Dunque…cominciamo dall’inizio. Tra gli aneddoti dei suoi primissimi anni di carriera, trovo particolarmente interessanti tre di questi: le ginocchia usate come percussioni durante le registrazioni casalinghe con il suo primo registratore, la proposta da parte della primissima line-up degli Iron Maiden e la sua scelta di cambiare il suo nome da Howard Jones perché considerava quest’ultimo non adatto a una pop star. Ce ne potrebbe parlare?

I miei genitori mi comprarono un registratore Grundig per il mio 14o compleanno (1967), che mi permise il multitraccia e presto mi fece scoprire così le gioie di scuotere un porta sale, sbattere i dorsi dei taglieri e schiaffeggiarmi le ginocchia per le percussioni! È una tecnica che uso tuttora! Preferisco di gran lunga le percussioni acustiche e ‘reali’ che i sample programmati (e ora inoltre ho anche tamburi, bongo e marracas!).

L’invito da parte dell’embrionale incarnazione degli Iron Maiden – che nel 1972 erano decisamente più un gruppo folk-rock che la band heavy metal divenuta successivamente – di diventare il loro cantante avvenne nell’aprile 1972 mentre aspettavo nel mio camerino di entrare in scena per un concerto all’Octagon Theatre di Bolton, nel Lancashire. Gli Iron Maiden erano programmati prima nello show e vennero a chiedermi se ero interessato a unirmi a loro. Fui estremamente lusingato ma declinai l’offerta dal momento che ero agli inizi e prima volevo vedere dove mi avrebbe portato la carriera solista.

Il mio cambio di nome arrivò con gli esordi nel 1970; inizialmente optai semplicemente per ‘Howard’, ma decisi quasi subito dopo di aver bisogno di un nome più professionale e il mio vero nome, Howard Jones, non mi piaceva. Quindi piazzai il ‘Jon’ del cognome davanti ad Howard per creare un nome nuovo. Per tre anni sono stato Jon Howard. Il cambio di trascrizione del mio nuovo nome da ‘Jon’ a ‘John’ avvenne per caso nel 1973, quando il mio nuovo manager di Londra sbagliò a scriverlo subito dopo avermi messo sotto contratto. Non lo corressi. Suonava bene così!

Dopo le prime promettenti settimane, “Kid in a Big World” si rivelò un fallimento commerciale; “Technicolour Biography” e “Can You Hear Me Ok?” non furono nemmeno pubblicati. Come fu in grado di sopportare tutto questo? All’epoca era molto giovane.

In gioventù si è molto forti, molto resistenti, il tempo non ha grande importanza durante i vent’anni di una persona, non c’è il senso del tempo che passa. Avevo molta fede nella mia musica e stavo scrivendo con un tale ritmo, a metà anni ’70, che non accennavo a fermarmi, nella speranza che a un certo punto la CBS apprezzasse le mie proposte. Il fatto di non aver pubblicato niente degno di nota dopo “Kid in a Big World” cominciò a preoccuparmi solo verso i 24 anni, quando capii che quel tempo stava scivolando via e non avevo ancora lasciato il segno. Quand’ero teenager ero certo che sarei diventato una star in un paio d’anni, ma a 25 anni, con punk e new wave nuovi protagonisti della scena musicale, sapevo che il mio tempo era effettivamente passato. Continuai a scrivere e registrare con amici produttori come Trevor Horn e Steve Levine, che nel '77/'78/'79 erano solo agli inizi, mentre io ero già ‘vecchio’! Ma se ne ricavò solo singoli occasionali ed io persi gradualmente l’entusiasmo che avevo in precedenza.

“Technicolour Biography” è il mio capitolo preferito della trilogia. Nella recensione l’ho definito “Pink Moon” suonato da David Bowie. So che è riluttante a definirsi un musicista glam, quindi non so se gradisce e accetta la mia definizione, ma trovo vi sia una sorta di ‘disperazione malinconica’ in quell’album. Forse lo scarno sound ‘piano e voce’ contribuisce a questo, ma a mio avviso è nettamente più intimo degli altri due album. I testi, la sua voce…

Sì, Riccardo, è un’ottima descrizione delle canzoni e dello stile di Technicolour Biography. Registrammo quelle demo ‘piano e voce’ per le quali il mio produttore Paul Phillips aveva grandi progetti. In quel periodo, tra fine ’74 e la primavera del ’75, avevo cominciato a prendere le distanze dalla persona che ero quando arrivai a Londra l’anno prima. Il mio staff mi trasformò da un capellone menestrello hippy a un giovane, elegante cittadino, e mi calai in quei panni con grande facilità, devo dire. Dal mangiare cibo d’asporto seduto a gambe incrociate sui pavimenti delle camere da letto di amici, al cenare con milionari nei ristoranti più sofisticati di Londra nell’arco di un anno…fu davvero un discreto cambiamento! E naturalmente la mia immagine interiore cambiò di conseguenza. Fui inoltre molto attivo nella viva e scatenata scena gay della Londra degli anni ’70, all’epoca in cui scrissi Technicolour Biography, con molte relazioni finite male e avventure di una notte (usa il termine ‘disasters’, ndr).

Kid in a Big World fu principalmente scritto da un giovane che ancora viveva e stava crescendo a casa nel Lancashire, con sogni di successo. Nell’autunno del 1974, quando cominciammo a registrare Technicolour Biography, avevo visto come lavora l’industria musicale, avevo sentito tutti gli iniziali elogi e la loro successiva insoddisfazione quando Kid fallì, e sentii la pressione della consapevolezza che l’etichetta era delusa, che il mio staff era preoccupato, ed io ero ora un uomo single che viveva una bizzarra vita notturna in una città folle.

C’è una ragione per cui ha deciso di pubblicare “Technicolour” incompleto, senza gli arrangiamenti di Paul Phillips? Mi piacerebbe inoltre parlare con lei del progetto “You Shall Go to the Ball!”: le canzoni di “Technicolour” lì presenti, le campiture ‘psych-ambient’, sono semplici variazioni o danno un’idea di come sarebbe stato l’album se fosse stato pubblicato nel 1975?

Domanda davvero interessante. Le demo ‘piano e voce’ che Paul e io registrammo nel '74/'75 non furono mai prese in considerazione per un rilascio commerciale, come sai. Sono rimaste sui miei scaffali per 30 anni, con nessuno minimamente interessato a loro. Fu solo quando “Kid” ebbe così successo critico e di pubblico, con la ristampa della RPM nel 2004, che l’etichetta mi chiese se avessi altra musica pubblicabile. Mandai a Mark Stratford un CD-R di “Technicolour Biography” così come fu registrato – incompleto – e la sua impressione fu molto positiva, giudicando che i pezzi stessero benissimo in piedi così, senza alcun adornamento. Inoltre, in quel momento, mancava il budget per gli arrangiamenti che Paul aveva in mente nel ’74. A mio avviso le canzoni di Technicolour sono più robuste di quelle di Kid, quindi fui felice di lasciarle così com’erano. Quando fu pubblicato, la RPM dimostrò di aver avuto ragione, e l’album fu accolto dallo stesso entusiasmo da parte di critica e pubblico di quello che ebbe Kid.

Fu solo nel 2011, quando registrai l’album “Exhibiting Tendencies” nel mio studio di casa e ne mandai una copia a Paul Phillips, con il quale sono ancora molto in contatto, che l’idea di riprendere alcun delle canzoni di “Technicolour Biography” diventò concreta. Paul suggerì, dal momento che ora avevo il tempo, lo studio e le conoscenze produttive per tentare di dare a quelle canzoni i suoni e la produzione che hanno sempre meritato, di provarci. Non ha dato alcun suggerimento su come a suo avviso avrei dovuto approcciarmi al progetto, mi ha lasciato rifletterci su. Decisi di provare a rivisitare inizialmente la title track, soprattutto per vedere se ero ancora in grado di cantarla nell’originale mi bemolle! Non mi piace abbassare il tono delle canzoni, perdono eccessivamente la loro dinamica originale. Mi approcciai alla canzone come se l’avessi appena scritta, senza preconcetti su come Paul e io avremmo potuto farla nel 1974. Fui innanzitutto felice di non avere problemi nel cantarla in chiave originale, anzi mi sentii più agio rispetto a 37 anni prima. Sentii inoltre di capire il pezzo e la sua malinconia ancor meglio, da uomo vicino ai 60 anni, e la traccia si sviluppò naturalmente. La spedii a Paul e lui andò in estasi, amandola così tanto che quasi mi fece piangere!

Fu mentre pensavo di rivisitare alcune delle mie vecchie canzoni (e quali nello specifico) che mi venne l’idea delle campiture introduttive, usando campioni e motivi di mie canzoni di quel periodo e aggiungendovi nuovi suoni e strumentazioni. Ancora una volta spedii a Paul l’appena completata 'Soundscape No.1 - Return Visit (Arrival)', e il suo entusiasmo, se possibile, fu ancora maggiore di quello avuto per la nuova versione di ‘Technicolour Biography’! Il suo entusiasmo mi diede l’ispirazione e la fiducia di buttarmi sul progetto, con la mia visione completa pronta a sbocciare.    In You Shall Go To The Ball ho dato a queste vecchie canzoni nuova identità, toccandole con la bacchetta magica e dandole così una nuova colorata veste dopo che sono state ‘creature coperte dalla polvere’ per così tanti anni. Ho le bobine originali delle session di Technicolour Biography e alcune delle annotazioni degli arrangiamenti di Paul. Magari un giorno, se troveremo i fondi, proveremo a registrare la visione di Paul.

Due tra le sue canzoni che preferisco, “Guess Who’s Coming to Dinner” e “Coconut Bible”, hanno testi nonsense. Amo il suo commento di Coconut (presente nel booklet di Technicolour, ndr): ‘La scrissi a macchina, il che rende il processo creativo piuttosto diverso dallo scrivere a mano su un foglio di carta’. Che ruolo hanno i testi nel suo processo creativo?

Le due cose, testi e struttura delle canzoni, di solito vanno di pari passo nella mia testa. Talvolta mi siedo al piano e lascio che le due prendano forma nella mia testa e nelle mie mani, altre volte mi siedo con un foglio bianco davanti e scrivo quello che mi passa per la testa, ma anche in quel caso mentre scrivo le parole sboccia la genesi di una melodia o un ritmo. Altre volte ancora mi siedo davanti al pc e digito le parole che mi vengono in mente – e sì, i testi assumono un’altra forma quando sono digitati rispetto a quando sono scritti a mano, dev’essere qualcosa a che fare con il suono dei tasti premuti di una tastiera o una macchina, che è diverso dal suono di una penna che scivola su un foglio di carta – e lo stesso processo della scrittura a mano è diverso, dal copia-incolla-cancella che si può fare col pc. Ma direi che senza il testo non ho la canzone, solitamente.

Molte delle intro strumentali nei miei pezzi, come A Wardrobe Dreams, Miss Ashton's Disappointment, Magdalena Merrywidow, eccetera, arrivano mentre ‘suonicchio’ al piano, ma si sviluppano sempre in canzone solo quando i testi assumono un ruolo importante. Detto questo, ultimamente sto pensando di registrare un EP di cinque nuovi pezzi strumentali al piano…novità in arrivo!

La copertina di “Technicolour” proviene dalla prima session fotografica di “Kid”, quella giudicata disgustosa dalla CBS?

Sì, esatto. Avevamo creato un’estetica fuori dal mondo nella prima session: sotto suggerimento di Tony Meehan il mio viso fu sbiancato, i miei occhi truccati molto scuri, le mie unghie dipinte di nero, usammo ambientazioni esotiche come The Inn On The Park in Park Lane, e amammo il risultato. La CBS, come hai detto, considerò gli scatti ‘depravati e disgustosi’. La cosa m’intristì molto, soprattutto la bizzarra irritazione che proveniva da persone che mi avevano ammirato così tanto fino a quel momento. Fu il momento in cui cominciai a sentire che tutto questo non stava andando per il verso giusto. Che la CBS non era la giusta etichetta per me.

Il mese dopo uscimmo nuovamente per una seconda session fotografica, in una casa abbandonata in Shepherd's Bush, stavolta con un make-up più naturale, sebbene con ancora quell’estetica accentuata, giusto un po’ più trattenuta nel tono. La CBS fu questa volta impressionata dalle foto e scelse quella che ora puoi vedere nella copertina di Kid (sebbene lo scatto usato per la copertina del cd differisca leggermente da quella dell’lp originale, sono state infatti fissate su pellicola a qualche secondo l’una dall’altra). Gli scatti della prima session rimasero inutilizzate, custodite nel mio baule per decenni senza che fossero viste. Fu solo quando la RPM chiese foto per la copertina di Technicolour Biography che mandai a Mark le diapositive della prima session, che lo fecero andare in visibilio, tanto che le mandò immediatamente alla sua grafica, Lora Findlay. Lei ha fatto un bellissimo lavoro creando la copertina di Technicolour Biography.

La cosa curiosa è che gli scatti di Kid sembrano precedenti a quelli di Technicolour, sebbene sia il contrario. La RPM ha inoltre usato un’altra foto della seconda session di Kid per la copertina di Can You Hear Me OK (sono seduto nella stanza dalla quale guardo fuori nella copertina di Kid), quindi la trilogia, com’è ora conosciuta, è stata completata!

A proposito di quel giudizio della CBS (che personalmente trovo ridicolo)…il suo amico e produttore Paul Phillips ha sostenuto che secondo lui la principale causa del suo mancato successo fu la forte omofobia imperante nell’industria musicale dell’epoca. Non voglio essere insensibile o indiscreto, comprendo perfettamente che è una questione strettamente personale…mi sto giusto chiedendo se le va di parlarne.

Ne sono felicissimo, nessun problema. Sì, Paul Phillips, uno dei miei produttori degli anni ’70, è convinto che una delle ragioni – anzi, per lui è la principale ragione – per cui non abbia sfondato in quegli anni con Kid in a Big World e i due singoli presi dall’album, Goodbye Suzie e Family Man, sia stata la dilagante omofobia che a sua detta era presente ai piani alti della BBC Radio. Nel 2005 Paul mi ha raccontato un episodio, che nel 1975 era seduto a fianco dell’allora capo di Radio 1 mentre io mi stavo esibendo alla Purcell Room di Londra davanti a influente gente del settore per promuovere Kid. A fine spettacolo Paul si girò verso questo tizio e, estasiato, disse “Non è grandioso John? Questo ragazzo diventerà un gigante!”. La replica fu molto fredda, con il tizio che disse “Questo lo vedremo!”. Sempre quella sera, la moglie del mio manager, Patsy, parlò con lo stesso tizio di Radio 1 di me, e la replica fu simile, con lui che le rispose qualcosa tipo “Non trasmetteremo NULLA di suo su Radio 1!”. L’impressione che Patsy ebbe fu che questa persona avesse un vero problema del fatto che io fossi gay.

Devo rimarcare che non fui presente quando queste cose furono dette, e anzi dopo lo show ebbi io stesso una lunga conversazione con quella persona, che fu gentile nei miei confronti; ecco perché le esperienze di quella sera al Purcel Room di Paul e Patsy con lui, di cui sono venuto a conoscenza solo nel 2005, mi hanno shockato.

Questo spiegherebbe perché alla CBS furono così inorriditi quando videro le foto della prima session di Kid in a Big World, dove il mio make-up consisteva di viso bianco, smalto e rossetto neri. L’eccesso e la decadenza suggerite dagli scatti probabilmente fecero venir loro i brividi lungo la schiena perché sapevano che quest’estetica avrebbe creato per loro un grosso problema a pubblicizzarmi all’interno di Radio 1.

È ovviamente strano considerare queste possibilità e situazioni quando poi si ricorda che giusto un 2-3 anni prima David Bowie era stato spesso ospite dei programmi della BBC come Top of the Pops e i suoi pezzi erano stati trasmessi assiduamente su Radio 1. Forse nel periodo in cui sono arrivato io c’era un altro gruppo di dirigenti e le cose stavano cambiando. Ho letto che nel 1972 la BBC si era in un primo tempo rifiutata di avere Bowie nei loro show ma dovette arrendersi e lasciarlo fare per il grandissimo successo di pubblico che stava cominciando ad avere. Forse incise anche il fatto che mentre Bowie era sposato e si era sempre detto bisessuale, non gay (non completamente vero: mai veramente chiaro e anzi più volte volutamente contradditorio in merito, se è vero che Bowie abbia più spesso parlato di sé stesso come bisessuale e che il suo matrimonio con Mary Angela Barnett risalga al 1970, è altrettanto vero che nel ’72 in un’intervista al Melody Maker si dichiarò gay, ndr), e lo stesso Marc Bolan, altra pop star che ebbe grande successo in Gran Bretagna nei primi anni ’70 e che era sempre a Top of the Pops, era sposato, io ero single e che fossi gay non era assolutamente un segreto.

Le giustificazioni di Radio 1 per non promuovere i miei singoli Goodbye Suzie e Family Man furono senza dubbio bizzarre: rifiutarono Suzie perché ritenuta troppo ‘deprimente’ e Family Man fu freddata in modo simile, con la scusa che fosse ‘contro le donne’. Entrambe scuse davvero strane – e completamente sbagliate – per ignorare quei singoli quando si considerano altri pezzi cui hanno dato grande spazio in precedenza.

Rimarrà sempre un mistero e nessuno può provare nulla ora, è passato troppo tempo per mettere in dubbio i responsabili di Radio 1 dell’epoca; ma nel 2006 ho scritto una canzone, My Beautiful Days, che parla dell’atteggiamento mediatico ora cambiato nei confronti degli artisti gay. L’ispirazione della canzone è scaturita da quella conversazione del 2005 con Paul Phillips.

In “Kid” e “Can You Hear Me” ha lavorato con due talentuosi – e a mio avviso molto diversi – produttori, Tony Meehan e Biddu. Amo il loro contributo, soprattutto in “The Flame”, “Guess Who’s Coming to Dinner” (il moog di Rod Argent!), “Missing You”, "Can You Hear Me Ok". Che ricordi ha? Le piacque lavorare con loro?

Sì. Anche se, devo ammetterlo, trovai Tony più coinvolto e coinvolgente. Si sedette accanto a me per qualche settimana prima che andassimo ad Abbey Road per registrare Kid in a Big World, discutendo degli arrangiamenti, dicendomi come lui volesse cambiare la forma e l’atmosfera di Guess Who's Coming To Dinner, Kid In A Big World e Missing Key. Come alla fine registrammo quelle canzoni portò a un suono completamente diverso dalle demo piano e voce che gli avevo dato.

Goodbye Suzie, Spellbound e Deadly Nightshade sono quelle meno cambiate, quelle più vicine alla scrittura originale. Gone Away fu invece un altro pezzo drasticamente cambiato da Tony; in origine era una ballata uptempo stile It’s Too Late di Carole King, ma Tony l’ha resa una lenta, profonda, dolorosa ballata.

La compagnia apprezzò parte del suo lavoro, ma detestò i suoi arrangiamenti di Kid in a Big World e Family Man. Insistettero di ri-registrare questi pezzi. Fu così che cominciai a lavorare con Paul Phillips. Era un A&R della CBS all’epoca, amò la mia musica sin dall’inizio ma gli fu detto che non avrebbe potuto produrre il mio album d’esordio perché avevano bisogno di un produttore di nome. Quando tuttavia quel produttore di nome rovinò – secondo la loro opinione – due delle loro canzoni preferite, gli affidarono il compito di riorganizzare le cose. Ho sempre amato ciò che Tony aveva fatto, ma avevo 20 anni, ero ingenuo, e credei che un’etichetta come la CBS sapesse cosa stava facendo. E ad ogni modo se ci fossimo rifiutati di ri-registrare quelle due canzoni, probabilmente Kid non sarebbe mai uscito (le versioni di Meehan sono ora disponibili tra le bonus tracks di Technicolour Biography, ndr).

Naturalmente, quando la CBS respinse ciò che Paul e io avevamo proposto come seguito di Kid, Technicolour Biography, mi misero in studio con il produttore disco allora di maggior successo in Inghilterra. Biddu era una persona amabile, lo conobbi nel 1973, quando stava ancora tentando a fatica la strada di cantautore. La sua sorte cambiò completamente nel 1974, quando produsse la hit di Carl Douglas ‘Kung Fu Fighting’, che vendette 4 milioni di copie nel mondo e rese Biddu non solo ricco ma anche molto richiesto.

Il suo modo di lavorare fu molto diverso rispetto a quello di Tony, mi mise a fianco il suo arrangiatore Pip Williams e Pip e io lavorammo alle canzoni che avevo scritto specificamente per questo album.

Facemmo un’iniziale session di prova con Biddu e l’altro suo arrangiatore Gerry Shury per le canzoni I Got My Lady e Frightened Now, le mandammo alla CBS e questi rimasero entusiasti dei risultati, proclamando I Got My Lady un potenziale successo estivo. Quindi, con un nuovo arrangiatore (Gerry era nel frattempo stato richiamato da Biddu per il suo album personale), procedemmo bene, pensando di essere finalmente pronti per il successo. Fu un piacere lavorare con Pip, prese le rozze demo delle mie nuove canzoni, che registrò su cassetta nell’ufficio del mio manager, e creò per esse meravigliosi arrangiamenti d’archi.

Biddu fu il tipo di produttore che lavora velocemente, con efficienza e porta a termine il lavoro, ma non sentii la stessa empatia che ebbi con Tony e Paul. Per lui quello fu sostanzialmente un prodotto, uno tra i tanti, incluso quello immediatamente successivo per Tina Charles (lp I Love to Love, la cui title track rimase in vetta alle classifiche inglesi per tre settimane, ndr).

Mentre Tony aveva assaporato il grande successo tra fine anni ’50 e inizio anni ’60 con gli Shadows e in un secondo tempo con Jet Harris e negli anni ’70 era un produttore rinomato che vide un gran potenziale in me come artista e compositore e volle farmi crescere, Biddu aveva appena iniziato a godere del successo, collaborò con me su commissione, aveva appena firmato un contratto solista con la CBS e sapeva che io ero al mio terzo progetto con la compagnia, rendendo quest’album un’ultima spiaggia.

Non ebbi mai la sensazione che lui amasse ciò che gli stavo portando, sensazione che ho sempre avuto con Tony e Paul. Con Pip d’altro canto fu un piacere e mi trattò allo stesso modo di Paul, con grande rispetto e una gentilezza che apprezzai. Con Biddu fu semplicemente un modo diverso di lavorare e non fui mai davvero preso dall’atmosfera leggermente da ‘catena di montaggio’ delle session di Biddu. L’album uscitone, Can You Hear Me OK?, quasi generò una hit con I Got My Lady, che passò molto in radio, ma quando non portò sufficienti vendite la CBS chiuse definitivamente con me e accantonò l’album prodotto da Biddu. Che è rimasto inedito fino alla stampa da parte della RPM nel 2005.

Le canzoni di “Kid” provengono dai suoi ultimi anni di teenager, “Technicolour” fu scritto durante la sua nuova vita a Londra. Quali sono temi e sfondo di “Can You Hear Me”?

Le canzoni di Can You Hear Me OK? furono scritte all’interno di un progetto commerciale, da hit parade. Non avevo mai lavorato in quel modo, e dovetti sbrigarmi a scrivere dieci canzoni dal momento che Biddu aveva prenotato lo studio per l’aprile del 1975 dopo aver ascoltato e registrato con me I Got My Lady in febbraio ed aver dato l’ok alla CBS. Quindi riascoltando ora quelle canzoni non si trova la peculiarità, la personalità delle canzoni di Kid e Technicolour. Ma ci sono comunque buone cose al suo interno: vado ancora fiero di 19th September (con un bellissimo arrangiamento di Pip Williams), Two People In The Morning è un’altra canzone che mi piace molto. Missing You funziona bene. Idem Can You Hear Me OK?, in parte grazie ancora una volta al meraviglioso, sobrio arrangiamento di Pip.

Direi che le canzoni di Can You Hear Me non sono personali quanto quelle di Technicolour Biography, non così immerse nel mio carattere e nelle mie esperienze, sono canzoni dai temi più leggeri, che era ciò che la CBS voleva.  

Una domanda banale, me ne rendo conto: quali erano i suoi artisti e generi preferiti, le sue maggiori influenze, durante gli anni ’70? So solo che Strawberry Fields Forever fu il suo 'big bang'.

I miei primissimi eroi pop furono P.J. Proby e Sonny & Cher. Erano entrambe eccentriche figure dandy che amavo ed entrambi, sebbene non perfettamente calati nel mainstream, ebbero grande successo grazie alla loro personalità.

Amavo qualsiasi cosa prodotta da George Martin - che orecchio musicale aveva - e verso il 1966 impazzii per i Beach Boys dopo aver ascoltato God Only Knows e Good Vibrations. Due pezzi a dir poco incredibili quelli, davvero la perfezione pop.

Ray Davies e i Kinks furono altre pop star che seguii tra gli 11 e i 14 anni, soprattutto Autumn Almanac è un grande pezzo. Come Brian Wilson, Ray Davies tentava di infilare nelle sue composizioni suoni impossibili da capire cosa fossero, amavo tutto ciò e ora cerco di fare lo stesso.

Non sono mai stato un fan dei Beatles fino a quando non ho ascoltato Strawberry Fields Forever, quel pezzo ha completamente cambiato la mia vita e mi ha reso un fanatico dei Beatles. Che sia finito a registrare il mio primo album ad Abbey Road fu semplicemente la ciliegina sulla torta!

Negli anni ’70 fui preso da gruppi come Incredible String Band, Third Ear Band e i Mothers of Invention di Frank Zappa, artisti folk come Dylan, Roy Harper e Joni Mitchell, anche cantautori come Laura Nyro e Jimmy Webb mi impressionarono molto.

Più o meno nello stesso periodo amavo - piuttosto curiosamente potrebbe dire qualcuno - Marc Bolan e i suoi T.Rex, e poi naturalmente Bowie che, un po’ come i Beatles con Strawberry Fields, cambiò il mio mondo con Hunky Dory e Ziggy Stardust.

Ho sempre amato le star, amo come brillano e appaiono così irrealmente luminose, è come se il tempo le abbia raggiunte in certi punti del nostro universo, nel momento perfetto, e quando splendono sono oro puro.

Penso che una volta iniziata la mia carriera sentii sempre meno il bisogno di adorare questi eroi da lontano. Ero ora in molti sensi parte di quel mondo, registrando ad Abbey Road e agli Apple Studios, presenziando a incontri e feste dove davo pacche sulle spalle a gente come Elton John, David Essex, Mott The Hoople, e stavo ora partendo per la mia strada verso quello che speravo diventasse in qualche modo la celebrità.  

Un’ultima domanda…la prego di scusarmi se vado fuori argomento. Recentemente su Twitter ha criticato l’entusiasmo generale per l’ultimo album di Bowie, “The Next Day”. Concordo con lei: è un buon disco, un paio di pezzi sono bellissimi, ma mi piacerebbe chiedere a coloro che lo giudicano un capolavoro se le 5 stelle di “The Next Day” hanno lo stesso valore delle 5 stelle di “Low” e “Aladdin Sane”. Comprendo perfettamente il sentimento, la felicità di vederlo, dopo dieci anni, così in forma. Ma la storia finisce lì.

E Bowie non è l’unico: nell’ultimo paio di mesi ci sono stati i ritorni di My Bloody Valentine e Suede, due giganti degli anni ’90. E lo stesso lo scorso anno, con gli elogiatissimi nuovi album di Dead Can Dance, Scott Walker, Swans e Godspeed You Black Emperor.

La mia domanda quindi è: la sua percezione del mondo pop-rock è cambiata? E pensa che, sebbene il pop sia in perfetta salute, la sua mitologia sia morta e sepolta?

Wow! Questa è una domanda profonda piena di spunti, Riccardo! Da dove cominciare? Penso che potrei dire innanzitutto che negli ultimi dieci anni gran parte del pop da classifica mi è andato a noia. Non mi piace la produzione di una buona fetta di ciò che ascolto in radio oggigiorno, tutte le sfumature individualistiche sono distrutte da aggeggi come l’auto-tuner, che detesto e che a mio avviso rovina dischi potenzialmente grandi. Tutto è attrezzato per suonare allo stesso modo, è come se senza questo sound, questa piattezza, questa chiassosità – anche le moderne produzioni acustiche suonano così CHIASSOSE per me – le radio non trasmetteranno la canzone.

Recentemente ho ascoltato di proposito una stazione pop per un’ora; ho odiato gran parte di quello che ho ascoltato, ma ho deciso di farlo perché se fossi un teenager farei quello tutto il tempo, ascoltare Radio Caroline, Capital Radio e Radio 1 tutto il giorno ogni giorno. Questa volta tuttavia, quando ho spento la radio dopo un’ora, fu come se qualcuno mi avesse urlato contro senza mai fermarsi, posso ancora sentire quelle urla nelle mie orecchie. La stazione non aveva trasmesso rock pesante o heavy metal o punk, il volume non era particolarmente alto, era infatti comune pop anodino (usa proprio questo termine, ndr) che si sente abitualmente oggi. Ma qualcosa nelle produzioni di quei pezzi mi lasciò con la sensazione di essere stato mitragliato col suono.

Ci dev’essere qualcosa di sbagliato in questo e tende a dirmi che il pop odierno sta letteralmente assordando la gente su cosa sia buona e cattiva musica, è così presa dal fracasso sonoro che non può più giudicare accuratamente. È un riflesso della società in cui viviamo ora, tutto è veloce, rumoroso, sicuro di sé e arrogante. Non c’è spazio per l’incertezza, per l’indecisione. Anche gente come Adele, che pure è una brava compositrice e cantante, dopo aver ascoltato due o tre suoi pezzi sembrano tutti uguali. Non è somiglianza musicale, o di tempo, ma come questi sono prodotti.

Ricordo che una volta anni fa, nei primi anni ’80, feci visita a Trevor Horn un pomeriggio e lui mi fece ascoltare l’allora nuovo album di Barry Manilow. Trevor mi disse “guarda il fonometro”. Lo feci e vidi che l’indicatore non si mosse per tutto il tempo, durante il paio di pezzi che ascoltai, perfettamente in mezzo, non si mosse né a sinistra né a destra. “È questo il segreto del suo successo,” disse Trevor, “tutto è così compatto che non ferisce le tue orecchie, è come giacere su un cuscino soffice e vellutato.” Penso che ora sia vero il contrario, qualsiasi cosa si ascolti è come giacere su un cuscino imbottito di pungente filo metallico. Sono sicuro che questo renda la gente irritata e chiassosa. Deve urlare più forte del rumore circostante per essere sentita. Il nostro mondo ci urla contro ovunque noi siamo. Ok, questa è la mia teoria e ci saranno milioni di persone che pensano io sia un vecchio, scontroso pazzoide degli anni ’70 che non sopporta il mondo moderno. Probabilmente è così. Ma penserò sempre di aver ragione in questo, e potete urlarmi quanto volete! Non cambierò idea!

L’altra cosa che è nettamente cambiata in tempi recenti è la percezione da parte di molte persone che ora “lo posso fare anch’io”. Niente impressiona nessuno oggigiorno. Niente è fuori portata, o così pensano. Programmi come X Factor, America’s Got Talent, The Voice, hanno a che fare con questo. Nessuno sente più soggezione delle star, tutti vogliono vivere il sogno in prima persona, e viene detto loro che questo è possibile, “basta piangere un sacco e urlare un sacco durante la canzone come fa Mariah Carey, e sarai GRANDIOSA!”

Il sogno di ammirare qualcun altro non va più granché bene. Quando ero giovanissimo, pensavo che artisti come Beatles, Kinks, Hollies, Beach Boys, Ike & Tina Turner, Ronettes, fossero superstar, infinitamente sopra di me, magnificamente beati sulle loro bellissime nuvole di successo e talento. Li adoravo, amavo quel che facevano, e suonavano tutti così diversi l’uno dall’altra. Speravo che un giorno avrei avuto la possibilità di tentar di realizzare dischi belli come i loro ma non ero sicuro che ci sarei riuscito. Guardavo avanti e ci speravo.

Ora tutte le pop star sono viste come semplici prodotti per gli aspiranti di turno, che copiano e imitano e si aspettano come risultato fama e soldi. Naturalmente succede proprio questo con la Macchina del Successo Immediato, la specialità dei talent show odierni, ma questo funziona per un brevissimo periodo, oggigiorno le stelle brillano e si spengono nell’anonimato con grande velocità.

Ricordo di aver ascoltato Simon Cowell (uno dei guru dei talent show e dell’industria musicali, ndr) sul programma della BBC Radio Four ‘Desert Island Discs’, dove personaggi famosi scelgono gli otto pezzi che porterebbero con loro su un’isola deserta. Tutte le canzoni scelte da Cowell erano di artisti come Aretha Franklin, Dusty (Springfield, ndr), Beatles (in realtà non scelse nessuno di questi, ma effettivamente, con l’eccezione di Daniel Bedingfield, nominò solo classici, ndr). Tutte stelle che hanno scalato la piramide lentamente e che vi sono rimaste per anni e che tuttora sono considerate leggende. Quello che mi colpì fu notare come tutta la gente che stava promuovendo sulla sua etichetta era l’esatto opposto di ciò che amava, vale a dire gli artisti che sono rimasti nel tempo. Stava pubblicizzando tutta roba che lui per primo non avrebbe mai messo in paragone con questi nomi leggendari. Tutte le sue ‘star’ erano da successi passeggeri, un paio di n.1 pubblicizzati allo stremo, forse un album eppoi addio. Per sempre. Trovai questo stupendamente ironico. Ovviamente lui non vide affatto tale ironia. 

Alcune di queste mie sensazioni sono dovute all’età, quest’anno compio 60 anni. E questo porta ad essere un po’ disincantati nei confronti del mondo che mi circonda. Ma ciò che vorrei dire in mia difesa è che quando ascolto un nuovo giovane artista che considero favoloso, come Alex Highton, un ragazzo che ho scoperto di recente, e quando amo davvero ciò che fanno, so che non tutto è perduto. Alex non è famoso e questo è un crimine di per sé. Ma ha dimostrato che ci sono ancora veri talenti in giro, e fino a quando qualche produttore idiota non li rovina schiaffando l’auto-tuner sulla loro voce e incorporando del fracasso nei loro pezzi, c’è ancora speranza.

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loson alle 17:02 del 9 aprile 2013 ha scritto:

Definirla un'intervista "esclusiva" è ingeneroso, perchè questa è ancora più preziosa e importante. Fino a ieri Howard lo conoscevo (poco) soltanto di nome, associandolo al club delle tante "quasi-star" britanniche in epoca glam che non hanno avuto la fortuna di unirsi ai vincitori. Ora che ho il quadro più preciso della proposta e ho toccato con orecchio parte del repertorio, non vedo l'ora di ascoltare i suoi dischi per intero! In quest'intervista poi l'ho trovato molto disponibile e colto, schietto quando c'era da mettere le cose in chiaro su quello che non è andato nel suo passato (e sulle responsabilità di ciò), ma mostrando sempre quel contegno figlio di una delicata altezzosità che è ciò che amo di più nei britannici. Riccardo, sei stato più professionale che mai... E l'articolo, se non si fosse capito, è stupendo.

Krautrick, autore, alle 15:34 del 10 aprile 2013 ha scritto:

Ti ringrazio, ma come al solito esageri anche perché l'intervista non è poi così esclusiva...lo è forse in Italia (non ho certezze nemmeno su questo), ma in questi ultimi anni Howard non si è sottratto a dichiarazioni "madrelingua". Spero comunque di aver fatto un lavoro che possa interessare e divulgare il suo nome e i suoi album.