A OM + Lucertulas @ Apartaménto Hoffman, 21/09/2012

OM + Lucertulas @ Apartaménto Hoffman, 21/09/2012

Lunga è la strada che conduce da Padova, già desertificata dal primissimo freddo, verso Conegliano, tagliando con l’accetta una depressa e deprimente provincia trevigiana di cui abbiamo parlato e discorso male già per uno due tre quattro cinque dieci cento passi. Molta, forse troppa è la gente che si accalca, in piena zona industriale, alle porte dell’Apartaménto Hoffman, elegante salottino ornato di tappeti e lampadari che vede di scena una delle papabili vincitrici per il premio accoppiata più strana dell’anno: da una parte i Lucertulas, trio noise di casa ancora fermo – discograficamente parlando – a “The Brawl” (2010), dall’altra gli OM, alla seconda calata italiana in meno di sei mesi, recentemente approdati alla quinta prova in studio con “Advaitic Songs”, il doppio vinile dorato che metabolizza e trascende il doom ad ogni passaggio della puntina sui solchi. Abbinamento curioso, dicevamo (certo, manca quel quid di insensatezza in più che ha portato a far performare sullo stesso palco Soundgarden e Refused…), ma non totalmente privo di una propria logica interna: la tempesta di colpi prima dell’abbandono mistico, il furore della lamina metallica che si genuflette al potere sconquassante dei bassi di Al Cisneros.

Va a finire esattamente così. Nel giro di breve tempo, i Lucertulas – che iniziano a suonare sull’elegante palco del club quando sono passate da poco le undici – hanno perso il metronomo Massimo Cettolin alla batteria, sostituito da un plasticissimo ed incontenibile Luca Bottigliero (One Dimensional Man), e lo storico chitarrista Christian Zandonella. Difficile, con questi tumultuosi presupposti, prevedere un futuro certo e consolidato a breve termine, da concretizzarsi cioè in un nuovo lavoro. Sono ancora i pezzi forti di “The Brawl”, dunque, a recitare la parte del leone, a partire dal blues distorto e irrancidito di “In This Town”, che apre il set, ai fendenti chirurgici di “A Wicked Eel”, noise all’ultimo atto e devastazione sonora senza compromessi, dal riff dinamitardo di “8 Hours” – cantata in italiano – alla granaglia di colpi post-core di “Crowning”, passando per la tensione innaturale che deforma le scariche elettriche di “The Nun’s Pray”, la saturazione assordante di “An Old Man” (che brano strepitoso!) e l’apprezzabile recupero della mostruosa, ruvida, ingigantita psichedelia di “Tragol De Rova”, primo atto a nome Lucertulas, datato 2007. I segreti del successo e del consenso del trio stanno nella partecipazione del pubblico amico, trascinato dall’esibizione, nella perfetta scelta dei volumi, nell’impressionante e devastante coesione della sezione ritmica, con Federico Aggio che urla e distorce tutto il possibile immaginabile e Bottigliero che demolisce tom e piatti. Bisognerà lavorare ancora molto, invece, sul versante chitarristico, troppo spesso timido nell’approccio e modesto nei risultati (l’assolo bucato di “8 Hours”, la scarsa comunicazione con i rimanenti due terzi del gruppo sono sintomi eloquenti): l’occasione, come backing band, era onestamente di quelle da far tremare i polsi, ma un gruppo rodato deve saper superare il naturale complesso psicologico.

Lo sguardo pacificato e stralunato dipinto sulla faccia di Al Cisneros, una sagoma che dal vivo risulta essere decisamente imponente, immortala l’essenza di un concerto degli OM: liturgia più che esibizione, meditazione più che assalto all’arma bianca. Il pubblico si raccoglie tutto attorno al gruppo, concentrato nei primi cinque metri, in silenzio quasi religioso. Ampliare la strumentazione minimale del duo, come già avvenuto in “God Is Good” e, ancora di più, nel sopracitato “Advaitic Songs”, porta ad una modifica dell’assetto essenziale, che si allarga col preziosissimo apporto di Robert Aiki Aubrey Lowe, seduto in disparte a maneggiare tamburelli, cembali, eteree distorsioni vocali e, di quando in quando, una chitarra elettrica (un peccato non aver trovato posto per un violoncello, però!). Se il minaccioso drone ronzante di “Sinai” alza il sipario su un flusso regolare e cristallino di note, calato a strapiombo su spettacolari effetti sfrangianti di archi – abilmente sintetizzati dai loop e dalla tastierina di Lowe – sono “Meditation Is The Practice Of Death” (con favoloso e palpitante melismo in coda) e le due parti di “Cremation Ghat”, sincopate e saltabeccanti, a sottolineare, nell’immobilismo di posa esteriore, lo straordinario dinamismo degli OM, con un batterista fenomenale come Emil Amos sempre in grado di costruire contrappunti, di indovinare incastri e tonalità, di variare il proprio registro stilistico in un triscele apparentemente amorfo, di disporre con straordinaria intelligenza degli accenti plastici e metallici. “State Of Non-Return” è l’unico episodio, peraltro, in cui il doom si spettacolarizza in colate laviche sabbathiane, distorcendo i mesmerici orientalismi della struttura base in un wall of sound d’un tratto estremamente fisico, sicuramente impenetrabile.

Detto delle sorprese confermate nel live, bisogna anche aggiungere, per amore di verità, che la trance ritmica in cui spesso indugiano il sudatissimo Cisneros e compagni sembra, spesso e volentieri, essere indivisibile, non facilmente sezionabile in segmenti consequenziali. In parole povere, prendendo spunto da uno dei loro dischi più famosi, si ha di fronte ad un’abile, ma non troppo dissimulata, variation on a theme, dove non hanno importanza la varietà e la ricchezza dei giri portanti, quanto piuttosto la sensazione di essere calati in uno stream of consciousness mentale ancor prima che musicale, un’esperienza extrasensoriale ancor prima che immediatamente tangibile. A tratti il mordente si perde per strada, in particolar modo quando vengono strette le redini di “Pilgrimage”, prova monocorde e affatto esaltante, lontana dagli sfavillanti cromatismi del recente periodo: in altri contesti ancora, come nella lunga suite conclusiva, con le salmodie di Cisneros intervallate dai vocalizzi angelici di Lowe, la riflessività zen si deforma in una vampa di elettricità nutrita da un nascosto, e mai sopito, mostro rock interiore, che ingoia quarant’anni di distorsione bastarda e spalmata su bicordi.

Chi non è avvezzo al genere ha potuto annoiarsi. Per tutti gli altri, e non sono pochi, è stata una grande serata.

Per approfondire: http://www.apartamentohoffman.com

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