A One Dimensional Man

One Dimensional Man

Poco prima di iniziare il concerto, un po' per ricreare l'atmosfera drone delle trame degli Aucan, un po' per far sentire a casa i milanesi presenti in sala, quel torbido gate di Linate che è il Magnolia di Segrate viene invaso da una fitta nebbia. Dal backstage compare una figura butterata, vestita a puntino con sciarpa nera satin e giacca vellutata. Si prende due pacche sulle spalle e due strette di mano, poi si inoltra in mezzo al pubblico, si ferma più o meno al centro della sala, attende a braccia conserte l'inizio del concerto. E' Pierpaolo Capovilla. Viva l'umiltà, viva chi ha la consapevolezza di essere un artigiano della musica, viva chi non ha mai detto “il mio obiettivo è essere una grande popstar internazionale”, viva chi non ha il fattore x.

Quindi gli Aucan, vera e propria parte integrante del live, qualcosa di più di un semplice gruppo spalla, sia per l'amicizia che li lega a Favero-Capovilla sia per la novità e l'estremità della proposta. Suonano poco ma si fanno sentire, forse anche troppo. Si vede che i ragazzi ci sanno fare, ma il Magnolia è un vero e proprio buco, quindi il suono rimbalza in maniera devastante ai limiti del sostenibile. Il muro sonoro che si alza è ai limiti della sofferenza umana, a tratti aldilà. Vero che un live degli Aucan ha molto in comune con esperienze sensoriali misticheggianti, sia dal punto di vista musicale, con la loro fusione caotica di trip-hop, drone, dubstep e chi più ne ha più ne metta, sia dal punto di vista folkloristico, vedi l'utilizzo dei felponi stile “ministri dell'occulto” e il già citato nebbione da foresta nera, ma qui si ha l'impressione come di uno tsunami continuo che abbatte qualsiasi cosa, comprese le variazioni di synth e i giri di chitarra e la voce. Ne fuoriesce un live a metà, che previlegia e anzi acuisce il sentore che quei tre hanno una potenza sonora sorprendente, che raramente si può ritrovare in gruppi italiani, ma lascia un pò l'amaro in bocca per quanto riguarda le preziosità strumentali e le capacità musicali per cui rimandiamo agli album “Aucan” e “DNA (EP)”. Menzione di merito a Dario Dassenno perché con la sua batteria riesce a sorreggere tutto, offrendo libero sfogo a Ferliga e D'Abbraccio e alle loro invenzioni agghiaccianti. Vero e proprio motore del gruppo, insostituibile, vista la mancanza di un impianto ritmico solido.

Poi il diradamento della nebbia chiama in causa i redivivi One Dimensional Man. Il sussulto iniziale di PP fa già capire dove andremmo a parare: “Saint Roy” preannuncia l'esecuzione in stile classico dell'album “You Kill Me”, pratica in uso da qualche tempo nei “Reunion live”, mi vengono in mente ad esempio, le esecuzioni di “Daydream nation” dei Sonic Youth e di “Spiderland” degli Slint. Effettivamente il post-rock, i suoi pioneri e suoi discepoli, sembrano quanto di più vicino ci sia ad un atteggiamento “classico” del mondo musicale, sia dal punto di vista musicale con l'uso di tempi dispari, variazioni, fusioni di più generi, sperimentazione, sia dal punto di vista del costume, vedi proprio le esecuzioni che lasciano poco spazio all'improvvisazione, il punto di forza del blues che è proprio la matrice da cui, in fondo, tutto deriva. Questa premessa per poter dire quanto può essere strano imbattersi in un concerto realizzato così e non con la solita impostazione shuffle. Il bello di poter assistere ad una esecuzione rigorosa e formalmente impeccabile, il brutto di poterla prevenire e addomesticare. Il bello di avere coscienza del flusso sonoro e quindi di goderselo con maggiore impegno, il brutto di non poter contare sull'invenzione e sulla verve dei componenti. E' chiaro che, per un gruppo rodato e oramai riposto in bacheca come ODM, essere sopra le righe sembrerebbe quasi una velleità da supernonni, sopratutto vista la mancanza preponderante di nuove proposte musicali. E' come se questi gruppi, accettassero l'idea di essere oramai in parte vecchi (sia chiaro: il marchio è vecchio, non i componenti che anzi avanzano le proposte più interessanti del panorama italiano con Il Teatro degli Orrori e Mesmerico) e, dato per assunto questo, eseguono il loro compito con professionalità e passione, tralasciando l'ardore della gioventù. Risulta, come dicevamo, un sapore strano, agrodolce, dove l'esuberanza è ben sostituita dalla potenza e dalla solidità strumentale.

Ma finiamola con le pippe mentali e parliamo della musica: godibile, perfetta, condotta impeccabilmente. ODM suonano un altro “You Kill Me” in studio dall'inizio alla fine, tanto che se avessimo avuto dei buoni microfoni avremmo potuto direttamente registrare i pezzi e bruciarli su cd. Il livello sonoro è buono, solo a tratti forse troppo “coprente”, Luca Bottigliero aggiunge un tocco di stoner in stile Melvins che rende ancor più pesante il suono ODM, precisa rielaborazione di tutte le maggiori sperimentazioni degli '80/'90, dal math rock degli Shellac al noise-rock unico dei Jesus Lizard, alla fusion dei Tortoise. Batterista veramente notevole, dotato di velocità e forza, si inserisce perfettamente nel nuovo contesto (per lui). Ragno Favero è, come al solito, una sicurezza dal punto di vista della pulizia e della qualità sonora, sguardo imperscrutabile e fieramente distaccato, conduce la sua chitarra tra rapidi arpeggi, riff prepotenti e aperture vertiginose. Pierpaolo Capovilla, discretamente fuori di senno, non è il teatrante beone de “Il teatro degli Orrori”, non sembra lui tanto è visibile il piglio serioso e penserioso. Solo poche uscite istrioniche, due introduzioni con invettive civili sulla tortura e sulla disparità dei sessi in Italia, pronunciate con tono sommesso, infine tanta e tanta musica. Più intonato rispetto alle performance con il Teatro (forse è ancora più a suo agio con l'Inglese), suona con onestà e partecipazione, mostrando, quando necessario, i denti da squalo.

Raccontare il live è più o meno come raccontare l'album, visto che non vi è nessuna sostanziale variazione: da segnalare il ritmo giocoso e trascinante di “Saint Roy”, il blues-stoner di “I can't find anyone”, i cambi quasi hardcore di “This Man in Me”, il math-rock di “No North” che ricalca Shellac e Don Caballero, l'abisso mostruoso di “Inferno”, il rallentamento greve di “Sad Song”, la filastrocca strampalata alla Pixies di “Lovely Song”, l'arpeggio tipicamente post-rock di “You Kill Me”, il bel blues di “Oh Oh”.

Forse la nota più geniale ODM la riservano nell'ultimo pezzo di “You Kill Me”, quella “Broken Bones Waltz” suonata in maniera veramente sentita, dove Capovilla ritrova la sua capacità attoriale per interpretare la sofferenza orribile della tortura e il gruppo si lancia in bordate lancinanti via via più ravvicinate fino all'esplosione finale. Un bel saggio di bravura di teatro musicale, sulla scia del successo de ITDO.

Quindi il bis, meno tetro e più fluente, che sintetizza vecchie e nuove esperienze ODM, culminante nel trittico dedicato all'universo femminile di “Annalisa!”, “Marianne” e “Tell Me Marie”.

In fin dei conti, un live come ci piacerebbe veder sempre, che sia da esempio a chi deve ancora mostrare il proprio talento, tanta passione e il piacere di suonare per sé e per gli altri, senza scenografie, senza troppi giri di denaro (10 euro, un prezzo veramente modico), senza idolatrie né oche strepitanti. Ovvio che ci piacerebbe vedere anche qualcosa di nuovo, qualcosa di inatteso che ci permetta di strabuzzare gli occhi. Ma per oggi accontentiamoci di questo: musica, musica, musica.

 

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