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A Pensieri in controluce: intervista con i Nosound

Pensieri in controluce: intervista con i Nosound

Ricordare... ricordare è un po’ come morire”

 

Così declamava Gerard Depardieu nel brano scritto da Ennio Morricone per la colonna sonora di  “Una Pura Formalità” di Giuseppe Tornatore. Forse ancora meglio i La Crus ne catturarono quel doloroso anelito al recupero della memoria nella loro cover per l’album “Crocevia”. Addentrandosi nei testi del nuovo lavoro dei Nosound, è venuto naturale – per qualche strano gioco di rimandi – ricorrere a quel brano che intrecciava con il bisogno di ricordare, una danza dolente e liberatrice.

Afterthoughts”, pubblicato il 6 Maggio, è allo stesso tempo la chiusura di un ciclo e l’inizio di un altro. Alcuni approcci che hanno costituito l’idea sonora dei Nosound trovano oggi pieno compimento, mentre delle prospettive inedite hanno aperto la strada ad una nuova fase compositiva.

Rinviamo alla lunga recensione dell’album, per capire il contesto nel quale sono stati sviluppati i nuovi brani e per mettere a fuoco la storia recente della band italiana. L’unica italiana nel roster della label inglese Kscope.

Incontriamo il leader Giancarlo Erra (vocalist, multistrumentista, compositore, sound-engineer) nella sua casa/studio alle porte di Roma, nella quale ogni tanto si rifugia dal “main business” in UK.

 

A Sense Of Lossnel 2009 ha costituito una sorta di autobiografia di tuoi sentimenti ad un certo punto della tua vita: erano evidenti gli esiti e le cicatrici di un conflitto sentimentale. Possiamo considerareAfterthoughtsun aggiornamento di quel diario emozionale? Oppure non ogni cosa in esso contenuta è così strettamente biografica?

Tutti i miei album, a partire da “Sol29” parlano del mio vissuto emotivo: sinceramente penso che non potrei scrivere cercando di immaginare vicende altrui. Ad ogni modo “Afterthoughts” può essere considerato parte del medesimo sentire che ha portato alla genesi di “A Sense Of Loss”. Come il titolo suggerisce, il precedente album parla di una situazione nella quale ho perso qualcosa che fino a quel momento è stata importante;  “Afterthoughts” parte dall’idea che quegli accadimenti hanno comunque fatto sì che ci fosse l’evoluzione che ha portato al momento presente, lasciando alle spalle certe situazioni e progredendo verso una nuova fase. Ma tutto ciò che racconto in “Afterthoughts” ha molto più a che fare con il presente, o  a volte con il futuro, ma l’elemento principale è ciò che accade ora, senza continuare a far riferimento al passato. Non mi interessa più indagare continuamente gli elementi del passato che hanno  condizionato il presente, quanto piuttosto giungere alla consapevolezza di qual’è la mia natura. Prendere coscienza di ciò che sono mi permette oggi di non rivolgermi al passato, ricercando le condizioni che hanno determinato certe scelte: riconoscere me stesso, mi aiuta a rendermi conto che ciò che è accaduto in passato è avvenuto probabilmente  per ragioni differenti da quelle che pensavo.

 

Ascoltare le tue canzoni e guardando le tue foto nel booklet, si ha la netta sensazione che le tue canzoni siano ispirate dai ricordi e da certi luoghi. Ci sono posti che, più di altri, hanno determinato il tuo “immaginario cantautorale”? Sembra sempre che tu stia cercando una panchina (che come soggetto ricorre spesso nelle tue grafiche), dove sedere e osservare il mondo, quello interiore e quello esteriore.

La panchina è qualcosa che esula un posto specifico: per me è un simbolo a cui ricorro di frequente. Mi piace guardare le persone che se ne stanno in disparte su una panchina, completamente assorte in qualche pensiero, anche se in un posto pubblico e affollato: non penso tanto a me stesso, ma a questa condizione di isolamento. La noto più che altro guardandomi intorno nei parchi, ad esempio. Poi certamente ci sono luoghi speciali... In particolare direi che a formare le mie “immagini” spesso è il ricordo di una casa vicino al mare nella quale trascorrevo le vacanze quand’ero bambino. A questo luogo ho fatto riferimento spesso per l’album “Lightdark” e di nuovo è tornato presente in “Afterthoughts”: è posto per me molto speciale, non solo perché vi ho passato molto tempo quando ero bambino, ma perché lì tornavo quando ero teenager, oppure da più grande, specialmente quando vivevo un momento difficile. Durante l’inverno poi diveniva un luogo dove amavo stare, anche per trovare un rifugio nel quale isolarmi. Dunque in qualche modo, ancora oggi amo ritornare lì con la memoria per rivivere quelle sensazioni.

 

Il nuovo album è, sotto molti punti di vista, un nuovo inizio per i Nosound, specialmente dopo gli importanti cambi di line-up... Ma la cosa che appare più evidente è che diverse canzoni sembrano aver seguito un nuovo processo di songwriting... Two Monkeys, Wherever You Are, Encounter demarcano un inedito percorso di scrittura.

Ho passato più tempo per mettere a punto il nuovo sound dei Nosound. Essenzialmente ho cercato di percorrere strade non necessariamente riconducibili al rock in generale e al rock psichedelico in particolare. Ho cercato quegli elementi che mi hanno maggiormente avvicinato all’essenza, all’osso del songwriting: sono pertanto tornato ad un livello molto essenziale del processo, aiutandomi più che con il computer, con il pianoforte e con la chitarra acustica e sviluppandola con altri strumenti solo in una fase avanzata. Per cui tutte le nuove canzoni sono nate in una modalità più semplice e minimale. Mi sono focalizzato più sul nucleo di una ispirazione, prima di costruirne l’idea generale.

 

Il pianoforte sembra essere il tratto caratteristico del nuovo lavoro: in realtà tu l’hai sempre usato anche in precedenza, ma mai come oggi ne hai sviluppato gli esiti. Puoi raccontarci qualcosa della tua “storia d’amore” con questo strumento?

Quando ero un bimbo il primo strumento sul quale ho fatto scorrere le dita è stato una tastiera giocattolo. Dunque sebbene io mi sia maggiormente relazionato con la chitarra, devo dire che trovo il pianoforte il migliore degli strumenti acustici, o meglio, quello che più si avvicina ai miei gusti personali. Attraverso gli anni, sono sempre stato più attratto dalla sua voce e ho deciso di dedicargli sempre più spazio, fino a renderlo l’elemento chiave delle mie canzoni.

 

Anche la chitarra pare abbia trovato nuovi spazi espressivi inAfterthoughts, allontanandosi per quanto possibile dai classici assoli “liquidi” a là Pink Floyd: sembra che tu abbia ricercato nuove timbriche e nuovi effetti per meglio caratterizzare le parti di chitarra...

Afterthoughts” in realtà ha parti di chitarra ben più consistenti di “A Sense Of Loss”: in termini di assoli, è comunque vero... Ho seguito lo sviluppo dei miei gusti e ho necessariamente preso le distanze dagli assoli più squillanti, preferendo trovare suoni più coerenti alle parti melodiche. Quando sono su un palco ancora mi piace trovare una modalità più comunicativa della chitarra. Ma in studio sacrifico volentieri questo aspetto, sacrifico ogni assolo che non serva, perché penso sia più importante un suono più significativo, un mood più identificativo.

 

Parliamo un po’ della presenza di Chris Maitland, lo storico drummer dei Porcupine Tree. Mi è sembrato che il suo contributo nell’album e nel precedente EP sia andata ben oltre alla riproposizione dello stile per il quale avevamo imparato ad amarlo con i Porcupine Tree, ma che sia entrato nel suono dei Nosound cercando nuove strade espressive. E’ stato facile per lui entrare nella tua musica oppure è stato un processo lento e graduale?

Da quello che mi ha detto è stato tutto un processo naturale: lui si è potuto relazionale ai brani senza  che questi fossero caratterizzati, nelle versioni demo, da una presenza ritmica. Diciamo che ha avuto la totale libertà espressiva e dunque non ha sentito affatto la necessità di riproporre clichè già sperimentati con i Porcupine Tree. Ma le cose sono state abbastanza semplici in quanto in studio eravamo solo io e lui, e dunque si è instaurato subito un clima disteso:  ho preferito parlare con lui della mia visione artistica, piuttosto che parlare di cosa io volevo in termini di pattern ritmici... così una volta che ci siamo capiti sulla “direzione artistica” il resto è venuto davvero con grande facilità... scegliendo ciò che era meglio per le canzoni.

Trovo fenomenale ciò che fa Chris nella parte conclusiva di Wherever You Are: puoi raccontarmi come avete sviluppato questo brano?

Nella mia idea iniziale, così come l’ho proposta a Chris, c’era una maggiore componente drum & bass: Chris ha colto l’idea ma l’ha trasportata in un terreno prettamente più rock... Mi ha fatto capire che c’era qualcosa di innaturale nell’idea iniziale. Ma non c’é stato neppure il tempo di discuterne che subito ha trovato la migliore interpretazione possibile del brano.

 

Mi piacerebbe capire cosa rappresenta l’urlo che si ascolta alla fine di Paralysed: è un urlo di dolore o di liberazione?

Direi che è entrambe le cose. E’ uno dei brani più personali dell’album, che ha un significato molto intimo e profondo e dunque quell’urlo così naturale è davvero la conseguenza di ciò di cui canto, quindi nasce come un dolore ma davvero finisce con un senso di liberazione, di allentamento della tensione.

 

Il testo di Paralysed, specialmente la parte cantata in italiano, ha a che fare con la tua partenza dall’Italia oppure ha a che vedere con una fase della tua vita che si è conclusa definitivamente?

Come ho già detto il brano e specialmente la parte cantata in italiano è una delle cose più intime e personali che abbia mai composto. Ad essere sincero, non ha a che fare con ciò che mi sono lasciato alle spalle partendo dall’Italia. Il concetto chiave consiste in questa immagine di una porta che si chiude. E ogni volta che compi l’azione di chiudere una porta, si associa l’idea di cosa ci si lascia dietro una volta presa questa decisione. Con il passare del tempo ti manca il ricordo di ciò che hai lasciato dentro, muovendoti nella direzione opposta. Perciò nel mio caso, la parte più dolorosa corrisponde all’iniziare a perdere i ricordi. Noi siamo il risultato delle nostre azioni precedenti, e i ricordi ci rammentano ciò. Dunque perdere i ricordi può farci perdere la comprensione di ciò che siamo oggi. Trattandosi di un argomento molto personale, nella canzone in qualche maniera mi è venuto fuori attraverso il testo in italiano.

 

Parliamo di Two Monkeys: mi piacerebbe conoscere la storia che c’é dietro e più che altro sapere se è una storia che hai letto da qualche parte o se è invece frutto della tua fantasia...

E’ solo una metafora del messaggio che volevo trasmettere: è ovviamente una storia che ho interamente inventato. La storia di queste due creature è ancora una volta ambientata, nella mia immaginazione, in un posto vicino al mare: recentemente sono tornato in questa casa che frequentavo quando ero piccolo… tutto è molto cambiato oggi. Ciò che racconto ha a che fare con la difficoltà di sviluppare una relazione: e così queste due creature – che nella canzone sono due scimmie, ma ovviamente rappresentano anche la condizione fra uomo e donna – sebbene convivano nella stessa foresta sembrano non compiere lo sforzo necessario per trovarsi. E sebbene ci sia la volontà di cercarsi, in qualche modo sembrano arrendersi al fatto che la situazione non è modificabile. Per me è una strada intermedia fra tristezza e lieto fine: perché anche quando le due scimmie sono ormai scomparse, in qualche modo la loro anima continua a cercarsi in prossimità di un pontile. E’ un modo per me per dire che la speranza può anche trovare una espressione che va oltre la fine.

 

Ci sono brani composti durante le sessioni di “Afterthoughts” che alla fine non hanno trovato posto sull’album?

In realtà ciò che è incluso nell’album e nell’EP “At The Pier” è praticamente tutto quello che è stato scritto per “Afterthoughts”. A dire il vero c’è anche un’altra traccia che è stata registrata, ma che ho lasciato fuori perché penso che si offra a future possibilità di sviluppo.

 

E allora vorrei capire se le canzoni confluite in “Afterthoughts” appartengono tutte al presente oppure se risalgono alle sessioni dei precedenti album...

Non  ci sono canzoni vecchie: l’unica canzone che risale ad un periodo precedente è A New Start che è sull’EP che ha preceduto il disco. Ma aveva una forma differente. Direi che tutto ciò che ascolti sull’album appartiene allo stesso gruppo di brani composti in un periodo temporale circoscritto. Inoltre posso dirti che si tratta di brani che sono in qualche modo tutti collegati fra loro: ma questo legame non è stato qualcosa che ho ricercato. E’ semplicemente accaduto che fosse così.

 

Puoi dirmi i nomi degli artisti con cui ti piacerebbe collaborare, con particolare riferimento ai cantanti? In passato Tim Bowness ha interpretato la tua Someone Starts To Fade Away sull’album “Lightdark”...

Tutte le mie liriche sono molto personali e così ho difficoltà a immaginarle interpretate da altre voci. Comunque all’interno della mia label, la Kscope, sicuramente considero la voce di Kristoffer Rygg degli Ulver davvero eccezionale e davvero lo vedrei molto bene alle prese con il mio materiale: anche lo stile appassionato ed emozionale di Vincent Cavanagh, il frontman degli Anathema, anche se rispetto a Rygg si muove in tutt’altro contesto, per me è davvero unica. Poi certamente Steve Hogarth dei Marillion ha uno stile molto personale e capace di interpretare situazioni struggenti. Certamente un cantante a cui mi sento molto legato è David Sylvian e per la vicinanza con i gusti devo dire che sarebbe la voce che più di altre vorrei coinvolgere nella mia musica.

E che mi dici dei cantanti italiani?

In generale non sono un grandissimo fan della musica italiana, o almeno la mia musica si muove in una prospettiva emozionale differente. Apprezzo molto Fabrizio De André, ma rimane un desiderio non più realizzabile. A pensarci bene, amo molto il lavoro e la voce di Andrea Chimenti, che si muove in un mood musicale riconducibile a David Sylvian, e che dunque sento molto vicino.

 

Hai mai pensato di includere strumenti come flauto, sassofono o tromba per caratterizzare in modo diverso il tuo suono?

In genere mi sento più attaccato agli archi. Non mi sento in sintonia con il sassofono: ma mi è sempre piaciuto il suono della tromba... Se ascolti le versioni demo dei brani finiti nell’album, troveresti arrangiamenti piuttosto differenti che si presentano al suono degli strumenti a fiato. Per cui penso che per il futuro ci potrebbe essere margine per sperimentare con questi suoni.

 

Sappiamo che la relazione artistica fra te e Tim Bowness dei no-man ha significato molto per entrambi: a te ha dato una visibilità internazionale, mentre Tim ha trovato un nuovo stabile sodale, dopo Steven Wilson. Quindi ci piacerebbe sapere qualcosa in più relativamente al progetto Memories of Machines e all’eventualità di un secondo capitolo... Sul primo album “Warm Winter”, hai co-firmato un brano con Robert Fripp (Lost and Found In The Digital World) e hai dato la tua versione di un tuo brano (Beautiful Songs You Should Know) che precedentemente era stato “prestato” a Steven Wilson per l’ultimo disco in studio dei no-man...

Certamente Memories of Machines ha rappresentato qualcosa di importante per me e Tim e ci è piaciuto farlo. Ma non è nato come un progetto completamente definito: si è sviluppato gradualmente quando Tim ha collaborato al brano  Someone Starts To Fade Away per il mio album “Lightdark”. E’ tutto nato mentre abbiamo scoperto che eravamo entrambi in sintonia con i nostri gusti musicali. E’ stato un processo lungo quello che ha portato al completamento del primo lavoro a nome Memories of Machines, anche perché Tim nel frattempo era coinvolto nella realizzazione del disco dei no-man. Sicuramente abbiamo raccolto parecchi consensi un po’ ovunque, per cui abbiamo l’idea di realizzare un secondo capitolo per Memories of Machines, anche se ora non riesco a immaginare una data precisa... sicuramente potrebbe essere fra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo anno. Sia io che Tim abbiamo già individualmente composto dei brani a  tal fine. Posso dirti che c’é assoluta volontà da parte nostra di dare un seguito a questo progetto.

 

Sei interessato nel comporre musica per colonne sonore? In passato hai già pubblicato musica ambient ispirata alla fotografia spaziale... Nello specifico c’é un film che guardandolo ti viene da pensare che avresti potuto interpretare meglio la sua idea sonora?

Non potrei proprio dire che c’é un film che già mi piace per il quale mi viene da dire “avrei voluto aver scritto io la colonna sonora”, semplicemente perché in genere dei film che mi piacciono ne amo anche la musica originale!  Certamente rientra fra i mie interessi la scrittura di musica per film, ed è qualcosa che mi piacerebbe proprio fare.  Penso che il mio modo di scrivere musica si inserisce naturalmente nella composizione di colonne sonore. Ci sono due film che amo particolarmente “2001: odissea nello spazio” di Kubrik e “The Fountain” di Darren Aronofsky: nel caso di “The Fountain” posso inoltre dire che penso che contenga in assoluto la mia colonna sonora preferita. La musica interpretata dai Mogwai (e scritta da Clint Mansell, NdI) mostra esattamente quello che io cerco nelle musiche dei film… Qualcosa che non ha nulla a che vedere con le pomposità di certe grandi orchestre: in questo soundtrack il Kronos Quartet  si innesta perfettamente in ciò che i Mogwai suonano. L’esito è molto post-rock, ma se dovessi avere un riferimento nella musica che mi piacerebbe comporre per un film, questo sarebbe sicuramente il mio riferimento principale.

 

Nella vostra musica, presente e passata, ho trovato sempre un ampio spettro di riferimenti musicali, dai Pink Floyd ai Sigur Rós, da David Sylvian a Brian Eno, dai Bark Psychosis ai Marillion di Steve Hogarth e molti molti altri. Puoi citare le tue fonti musicali e quali sono gli elementi che maggiormente ti influenzano?

Penso tu abbia colto esattamente i riferimenti… Ho sempre avuto un ampio range di ispirazioni che mi sono giunte da ambiti musicali molto diversi. Ma allo stesso tempo tutti questi ambiti hanno una certa sensibilità che li accomuna. Prendi i Sigur Rós per il quali c’é un evidente collegamento con i Pink Floyd, ma anche i primi Mogwai e i Porcupine Tree degli inizi per i quali è rilevante la psichedelia Floydiana. Ma in generale l’ampio spettro delle cose che mi piacciono davvero – e che dunque mi ispirano – non passa per  specifici gruppi, in quanto talvolta di certi artisti posso amare un album o due della loro discografia, o addirittura solo qualche selezionata canzone su un solo album. Ad esempio gli Ulver, che hanno fatto cose molto lontane fra loro, dal metal all’elettronica: ecco di loro continuo a consigliare un disco che ho trovato particolarmente vicino ai miei gusti che è “Shadows Of The Sun”, molto evocativo e oscuro. All’interno della mia stessa label, Kscope, sicuramente ci sono gli Anathema, anche si rispetto agli Ulver scelgono un approccio rock più diretto, ma mi piacciono anche per questo. Poi ci sono gruppi magari meno noti che ho seguito con interesse: gli Efterklang, i Last Harbour da Manchester, gli Under Byen… La lista è parecchio lunga. Coltivo il gusto della scoperta e di certo mi aiuto molto con strumenti Internet come webradio, Pandora, Spotify.

 

Partenza, distacco, il bisogno di volare via e di lasciarsi qualcosa alle spalle… Questi sono alcuni dei temi ricorrenti nell’album e specialmente nel brano Encounter. Vuoi raccontarci qualcosa dei sentimenti che danno origine a questa canzone?

Sostanzialmente parla di un incontro con il passato, un incontro che di fatto non è mai avvenuto. Intende narrare il contrasto che esiste tra la voglia di incontrare il passato e il pensiero che talvolta è molto meglio che questo incontro non avvenga. E infatti nella canzone alla fine abbandono questa idea, preferendo volare via da questo passato che ritorna e consegnarlo  all’oblio. L’idea della canzone nasce da un incontro che doveva avvenire con una persona che è stata importante nel passato e che pensavo fosse ancora importante: ma da tale incontro non scaturisce alcuna emozione, né di di gioia, né di dolore... mi ha lasciato completamente “freddo”, indifferente. Dunque tutto quello che avevo fantasticato in realtà accadeva solo nella mia mente.

 

Cosa ti manca di più dell’Italia quando sei in inghilterra e cosa ti manca di più dell’Inghilterra quando sei in Italia? In qualche modo nei tuoi testi confluisce il contrasto fra il luogo dal quale provieni e da quello nel quale vivi ora?

Non ho mai scritto in modo così specifico di questo contrasto, a dire il vero. Non al punto da entrare a far parte delle liriche. Certo ciò che mi manca dell’Italia in modo più evidente è il sole, il bel tempo, il cibo. Ma ovviamente, parlando più seriamente, mi manca la mia la famiglia, mi mancano gli amici, e certamente mi manca il resto della band che vive in Italia. Sì, ovviamente oggi attraverso i mezzi tecnologici com Skype, è più semplice rimanenre in contatto. Ma non è proprio la stessa cosa. Quando sono Italia, mi manca la facilità di vita che ho in UK: ho più tempo per concentrarmi sulla musica, perché lo stile di vita rende tutto più semplice, meno stressante. Ed è proprio quello di non posso fare a meno.

 

Tu hai sempre prestato molta cura all’artwork dei tuoi lavori: con il tempo hai sviluppato sempre di più l’arte fotografica. puoi dirci come questo aspetto si combina con la tua musica?

La fotografia è perfettamente integrata alla mia ispirazione e fa parte della musica che ho nella testa. C’é una stretta relazione tra musica e ciò che vado ricercando nei miei scatti. Ciò che mi piace di più è cercare di catturare il momento: persone che non guardano in camera, distanti o distratte. E’ così che tu vedi come le persone sono realmente, che scopri il loro vero comportamento. Sono sempre pronto a ricercare queste situazioni, sia con la macchina fotografica professionale, sia anche con l’iPhone. Mi piace osservare ciò che mi sta attorno, specialmente mentre ascolto musica. In questo modo ho messo da parte un enorme archivio fotografico da cui poi attingo per realizzare l’artwork e il packaging. Sin dall’inizio non ho potuto fare a meno di utilizzare le mie foto per i miei lavori discografici. Cerco di ricordare il perché ho scattato una certa foto, ricordare l’emozione che c’era dietro e poi associarla ad un brano ad una musica.

 

Afterthought chiude l’album con un pacifico senso di compiutezza: cattura un momento di calma interiore . Puoi darci qualche dettaglio in più di questo brano e del quieto intimismo a cui da vita?

 

Afterthought è nata velocemente, con questa melodia di piano nella testa. E’ nata quando già avevo una idea precisa del “concept” dell’album. Per me è un momento di pace dopo l’impeto di Paralysed: la melodia è molto semplice. Le liriche sono molto profonde e sono portatrici di un senso di speranza. Una speranza radicata nel presente, senza la tristezza di ciò che è passato. anzi senza un sentimento preciso, solo osservazione e constatazione di ciò che sta prendendo forma nel presente. Con la sola voglia di scoprire cosa c’é ora. Afterthought è un incontro con me stesso. E’ una specie di lettera rivolta a me stesso, per ricordarmi  che “questo è ciò che sta accadendo, questo è l’oggi”.

 

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(foto by Sunstudio.it)

Per approfondire: 0gxSpdMC0FA

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