Peter Green - Il gioco infinito del clown della chitarra
A volte ritornano, a volte spariscono senza lasciare alcuna traccia e in altri casi sarebbe stato meglio se non avessero mai ripreso a calcare le scene.
La storia del rock, anche la più recente, è piena di scomparse premature, brucianti abbandoni, geni incompresi e sempiterni dinosauri pronti a rispolverare allinfinito la solita vecchia nenia.
Che fine ha fatto Peter Green? Si chiedevano agli inizi degli anni 70 i fan dellilluminato chitarrista dei primi Fleetwood Mac, spiazzati dalle insolite sonorità pop della band.
Mentre il gruppo era infatti alle prese con continui avvicendamenti e variazioni di organico, lui, il guru della chitarra blues anni 60 e indimenticato compositore di hit come Albatross e Black magic woman svaniva nel nulla dopo aver regalato ai contemporanei il magnifico e innovativo The end of the game (1970, Reprise), vero e proprio viaggio allucinante in bilico tra jazz rock, echi africani e distorsioni esasperate.
Le voci sul conto di Peter Green, forse in preda a chissà quale tipo di crisi mistica, forse alle prese con una nuova carriera di giardiniere, probabilmente devastato dalle droghe, si rincorrevano innumerevoli. Che il mito di unartista straordinario debba nuocere allestro e alla fortuna della sua vecchia band (vedi il caso John Frusciante) non è però cosa da credersi. O perlomeno non è una legge costante.
Se Green era ancora in grado di esprimere un capolavoro come The end of the game, la fine dei giochi per i Fleetwood Mac non era ancora arrivata. Anzi. La nuova formula e il trasferimento negli Stati Uniti riempivano le tasche di Mick Fleetwood e compagni di dollari sonanti.
Bisognerà invece aspettare fino al 1979 lalbum In the skies per ritrovare finalmente linconfondibile suono della voce e della chitarra di un redivivo e prolifico Peter Green. Prima in versione solista e poi dalla fine degli anni novanta (proprio gli anni del ritorno di Frusciante nei Red Hot) anche nellinedito progetto Splinter Group.