Poptimismo: il sale della vita?
La storia dell'arte è fatta di spedizioni alla ricerca di ciò che non sembra avere valore finchè un commando di truppe speciali non si mette in viaggio al preciso scopo di tornare con la preda e imporla a chi non ne vuol sapere. (Alessandro Carrera, Musica e Pubblico Giovanile, Introduzione alla ristampa 2014)
A rockist isn't just someone who loves rock 'n' roll, who goes on and on about Bruce Springsteen, who champions ragged-voiced singer-songwriters no one has ever heard of. A rockist is someone who reduces rock 'n' roll to a caricature, then uses that caricature as a weapon. Rockism means idolizing the authentic old legend (or underground hero) while mocking the latest pop star; lionizing punk while barely tolerating disco; loving the live show and hating the music video; extolling the growling performer while hating the lip-syncher. (Kelefa Sanneh, The Rap Against Rockism su The New York Times, 31/10/2004)
Art is not truth, is not value, it is nothing but a construct because it is nothing but signs, and signs can only be constructs (Morse Peckham, "Man's Rage for Chaos", 1965)
So di avervi messo a dura prova nel corso di questi anni, ma vi prego di concedermi, ancora per una volta, il beneficio del dubbio. Io, essenzialmente, vivo di dubbi. Ho imparato a conviverci e, anzi, ad apprezzare la mia condizione, dimostratasi tanto nefasta in alcuni campi fondamentali dell'agire quotidiano quanto utile, per non dire salvifica, in altri contesti o attività. Musica ed estetica sono due di queste attività. Come mi sono accorto di questa natura problematica? Man mano che proseguiva la mia esplorazione del mondo delle sette note, mi rendevo conto di come l'apparato di (pre)concetti e simulacri estetici, affettazioni e identità precostituite, ossia quell'inestricabile ragnatela meglio nota come capacità critica, vacillava ogniqualvolta mi ritrovavo a confrontarmi con enti sconosciuti, nuovi stimoli, esperienze umane o artistiche capaci d'incrinare la superficie fino a un attimo prima (illusoriamente) solidissima delle mie certezze.
E' accaduto di recente, diciamo attorno al 2010, quando ho cominciato ad interessarmi - con evidente ritardo - alle novità r&b e dance-pop, forse inconsciamente spinto (non posso escluderlo) dal perdurante fenomeno di erosione dell'integralismo rock di certa parte della critica, propulso dall'articolo The Rap Against Rockism di Kelefa Sanneh; corollario benefico di questo sblocco è stato il riappropriarmi di posizioni e amori vissuti in un'età, diciamo a cavallo tra i diciotto e i ventiquattro anni, per me dominata da schemi mentali/comportamentali che non mi consentivano alcun coming out su questi temi (quale credibilità avrei potuto conservare nei confronti dei miei coetanei universitari, loro che mi consideravano esperto, se avessi elogiato in pubblico Say My Name delle Destiny's Child o avessi confessato loro il mio passato - ora nuovamente presente - di eurodancer?).
Ma non è certo stata l'unica volta in cui mi sono, per così dire, ricreduto. E' accaduto pure in tempi un po' meno recenti, ed è un processo tutt'ora in atto, con l'abbandono dell'anglocentrismo e le aperture a territori musicali (Brasile, Giappone e Argentina in primis) prima nemmeno localizzabili sulla mappa dei miei ascolti. In tempi persino più antichi (parliamo del 2005-2006) ho dovuto lottare, appoggiato da impagabili friend conosciuti in rete, per affrancarmi dal sistema di valori al quale mi ero adattato, con disagio, durante una breve ma estenuante frequentazione del Conservatorio, condita da insalubri e ossessive visite su scaruffi.com.
Ora, tutto questo borioso amarcord non vuole essere il pretesto o, peggio, la giustificazione di supposti sdganamenti, dal momento che non c'è nulla da sdoganare se alla base manca un sistema di valori condivisi e univoci, e quello difetta più o meno da quando sono andate a farsi benedire le distinzioni tra cultura alta e bassa - per non parlare dell'altrettanto aristocratico, deleterio concetto secondo cui l'Arte maiuscola dovrebbe elevare l'ascoltatore e separarlo dalla massa incompetente, in una sorta di epifania narcisistica che ha luogo nel sistema nervoso centrale di chi sente la chiamata.
Eppure, dopo un decennio di più o meno sfrenato poptimism (del quale questo scritto, checché ne pensiate, non vuole essere un'apologia) sono maturati i frutti di una reazione, di un nuovo irrigidimento/risentimento, di una riaffermazione delle categorie estetiche pre-anti-rockism. Nel famigerato The Pernicious Rise of Poptimism (NYT, 04/04/2014) Saul Austerlitz notava come The issue is not attention any critic who ignored mass taste entirely would be doing his or her readers a disservice so much as it is proportion, quasi che la scelta di spostare il baricentro del dibattito musicale verso il pop mainstream sia ontologicamente più riprovevole di un quarantennio di dominio rockista, nel clima di segregazione culturale in cui hanno dovuto vivere artisti che non parlavano la stessa lingua del ceppo dominante; un'epoca nella quale, a titolo esemplificativo, persino il più infimo complessino garage-rock veniva elogiato da Lester Bangs con superlativi boombastic e, all'opposto, i Carpenters venivano reclusi nell'easy listening più conformista, addirittura eletti ad epitome dell'artefatto disimpegno nixoniano dei '70s.
Non comprendo poi per quale ragione, secondo Austerlitz, sarebbe più challenging indirizzare i proprio ascolti verso l'indie-rock: se la motivazione è che in quegli anfratti s'annida musica più originale o creativa (termini a cui diamo significati diversi quando non opposti, ma che mi sento ancora di utilizzare), allora nove volte su dieci temo si prenda un granchio. In realtà l'autore sceglie consapevolmente di ignorare tutta una fetta di musica non-mainstream, dall'alternative r&b alla scena elettronica britannica che orbita attorno allo UK-Bass, quasi sempre oggetto di analisi dettagliate e sulla quale si generano grossi consensi, soltanto per il motivo che non è fatta da guitar-band. Ancora una volta, si sceglie di oscurare quella parte di realtà che non si armonizza con le proprie tesi, e ciò in base al proprio gusto.
Interessarsi all'r&b/dance-pop e compagnia bella non comporta necessariamente un restringimento dei propri orizzonti, a differenza di quanto accadrebbe esiliandosi volontariamente in determinati settori (il metal, l'hip-hop, la house, l'hard-rock, etc.) o addirittura in determinate epoche dell'espressione musicale. Posto ciò (e premesso che ciascuno degli atteggiamenti sopra elencati è assolutamente valido), ogni ulteriore blatericcio sul pluralismo di ascolti oggi mai così minacciato, sul critico che ha il compito di proporre musica con la quale sfidare l'ascoltatore (come se suggerire a un punk di accostarsi a Umbrella di Rihanna con cognizione di causa non costituisca una sfida abbastanza sfacciata), si sfalda nelle acque torbide del relativismo più hardcore.
Oltretutto, consentitemelo, argomenti piuttosto ipocriti se si considera che la tanto osannata critica rock pre-poptimism, vista come ricettacolo di virtù, è la stessa che ha gettato fango sul brit-pop, recepito techno e house con anni di ritardo, frainteso la portata del synth-pop, ridicolizzato (anzi, demonizzato) la disco music, sbeffeggiato il progressive rock non appena si fece largo il punk, relegato il country a zotico passatempo per redneck, distorto in chiave di contrapposizione romantica le dinamiche del rapporto tra musicisti e discografia, alterato profondamente la genesi del blues (e, di conseguenza, della dialettica tra bianchi e neri nel pop statunitense), nonché estromesso dal campo uditivo pressoché tutto ciò che non parlasse inglese, tanto nei suoni quanto nella lingua. E questo me lo venite a spacciare come un sano e disinteressato utilizzo dello strumento critico?
E' tanto scomodo affermare che entrambi gli orientamenti (poptimismo e rockismo), se esasperati o ridotti ai loro aspetti caricaturali, possono risultare nocivi? Non ritengo che il valutare con serietà e consapevolezza il pop, anche e soprattutto quello da classifica, si riduca per forza di cose alla depenalizzazione del proprio piacere colpevole, né che si traduca automaticamente in un'accettazione generalizzata, nell'apprezzamento indistinto. Allo stesso modo, il rock (specie nelle sue declinazioni indie) non verrà mai del tutto scalzato dai gusti dei recensori: tutt'al più il difficile sarà - ed è, vista l'ipertrofia dell'offerta - decidere quale promuovere, come comportarsi in relazione alla possibilità di individuare scene o un sentire comune. In tutti questi casi, il vero problema non è la definizione di un criterio in base al quale effettuare le selezioni, bensì lo scrollarsi di dosso quell'inerzia derivante da anni di scetticismo endemico (e autoimposto) che da anni affligge proprio il giornalismo rock: quella sensazione che tutto sia già stato fatto, che il linguaggio sia arrivato a un punto morto, che il rock si alimenti ormai solo rimasticando e sputando se stesso e i suoi abiti di scena, sino a divorarsi completamente. Del resto, come può procedersi alla promozione di scene che nemmeno sono riconosciute come tali?
D'altro canto, se è vero che nelle classifiche di fine anno la percentuale di nomi r&b/dance-pop/hip-hop mainstream è molto alta, bisogna altresì considerare che non tutti i critici delle singole riviste/webzine hanno valutato positivamente i medesimi nomi; allo stesso modo, il fatto che Pitchfork promuova, che so, l'ennesimo capolavoro di Beyoncé non equivale ad affermare unanimità di consensi all'interno della redazione. E' qui che rientrano in gioco, come in un tuffo nel passato, le tanto vituperate linee editoriali, ed è a questo proposito che Austerlitz svolge una (l'unica) riflessione interessante. In this way, poptimism embraces the familiar as a means of keeping music criticism relevant" egli afferma. "(It) can be seen as an attempt to resuscitate the unified cultural experience of the past, when we were all, at least in theory, listening together to Sgt. Peppers or Thriller. Ossia come il tentativo di rivivere un'era in cui la condivisione musicale avveniva su vasta scala, non nel ristretto circolo dei frequentatori di un forum. Un'era in cui la mitologia rock - anch'essa largamente screditabile, anch'essa artificiosa e creata ad hoc per sostenere il ribellismo e le istanze liberal degli anni '60 - catturava l'attenzione di un pubblico così vasto che oggigiorno i gruppi ancora ascrivibili al suddetto genere possono giusto sognarselo (bagnandosi nel sonno).
Mantenere vivo il sogno (nel bene e nel male), il desiderio di condivisione (stavolta virtuale, attraverso i like ad un articolo postato su fb): due tra gli aspetti per certi versi più artefatti, perversamente affascinanti del poptimism. Il paradosso è che, a ben guardare, essi s'appellano al principio di autoconservazione che ha guidato anche l'intellighenzia critica rockista. Dove si differenzierebbero dalle tante manovre pubblicitarie che la carta stampata, col tacito accordo del pubblico e il beneplacito delle case discografiche, ha messo in atto per decenni allo scopo di preservare i simboli libertari del rock'n'roll nell'immaginario collettivo? O dai piani per ridefinire/foraggiare nuove fasce di acquirenti in relazione a nuovi generi, soprattutto di orientamento alternative?
Niente di scandaloso: quelle stesse riviste/webzine devono sopravvivere, e Pitchfork ha colto nel segno alla grande vista la sua recente acquisizione da parte del colosso Condé Nast. Di fronte alla parcellizzazione, alla frammentazione estrema, al venir meno del rock come collante generazionale, è d'uopo tentare di compattare il proprio pubblico intorno a un'offerta di artisti/generi più in vista, tenendo altresì presente (ma qui, come in quasi ogni altro aspetto della critica, si entra nel campo del soggettivo) che proprio alcuni di quegli artisti sono i diretti responsabili di musica tra la più interessante ascoltata negli ultimi tempi. Il poptimism, anche in quest'ottica, si muove su coordinate molto simili a quelle utilizzate dalla critica pre-anti-rockism: sono cambiate le strategie e l'oggetto del marketing (prima potevano essere Kurt Cobain o i fratelli Gallagher o Bono o i Limp Bizkit), ma sempre di marketing si tratta.
L'aspetto pregiudizievole (ma sarebbe meglio parlare di occasione persa) è stato piuttosto l'aver coscientemente trascurato la compresenza di multiple, overlapping, and sometimes rival, mainstreams (Eric Waisbard), azionando una scrematura preventiva che ne ha escluso quelle manifestazioni, come ad esempio il country contemporaneo, che pur generando fatturati esorbitanti esulano dai contesti sonori passati in rassegna. Ciò conferma gli (inevitabili) presupposti secondo cui pure la critica post-rockism abbia i suoi wow! e i suoi bleah! settati non solo in ragione di preferenze stilistiche, ma sulla base di fattori culturali, sociali, finanche razziali (vedasi la sospetta combutta col white guilt, pure se quest'ultimo concetto è oggigiorno tirato in ballo con troppa superficialità, quasi rappresentasse l'appiglio-principe per condannare un'intera categoria di ascoltatori). L'aspetto positivo, all'opposto, è stato il ribaltamento di prospettiva rispetto ai dogmi rockisti (ricordando che, sempre secondo Sanneh, l'erosione di questi cominciò con la new wave, when British bands questioned whether the search for raw, guitar-driven authenticity wasn't part of rock 'n' roll's problem, instead of its solution), la presa di coscienza del limite del canone e il conseguente aprirsi a realtà che il critico musicale o ignorava per principio o, tutt'al più, osservava da lontano con un atteggiamento per metà compassionevole, per metà rinfrancato da quel senso di superiorità che si prova sapendosi dalla parte della ragione, sapendosi parte della soluzione e non del problema (chi tra di noi non si è mai sentito così, almeno per una volta?).
In barba alla mia fiducia, l'ondata di reazione alle posizioni esposte da Sanneh - a loro tempo recepite da più parti, forse con eccessiva leggerezza - sembra trarre linfa vitale proprio dalla nostalgia per un simile scenario, e quindi dallo sconforto per la perduta centralità del rock nel contesto socio-culturale, dimostrando di aver tratto ben pochi insegnamenti dalla messa in crisi dei valori tradizionali(sti). Più che lo sviluppo di un anti-anti-rockism dai connotati progressisti, capace di mediare tra il relativismo assoluto e il riduttivismo (questo l'auspicio del critico Jason King nel breve saggio "Compared To What?", incluso nella riedizione di "Let's Talk About Love" di Carl Wilson), a delinearsi è un fronte piuttosto iroso, volto a ripristinare i rapporti di forza originari.
Certo, come abbiamo visto il poptimism non è immune da vizi, e già si è detto dei danni che possono derivare da una sua interpretazione in senso esclusivistico (a differenza di altri osservatori non credo si sia arrivati al monopolio culturale, nonostante l'ascesa di Taylor Swift deponga in senso contrario). Il punto è che molte delle obiezioni lette finora, tipo quella di aver inaridito il dibattito sui nomi meno conosciuti, lasciano in bocca il sapore della congettura. In primis perchè trascurano il ruolo sempre più autonomo del fruitore, che da anni ha il potere di autodefinirsi - e definire parte del contenuto della popular culture - in base ad altri criteri e beneficiando di nuovi strumenti (vedi l'e-commerce, Spotify, etc.); secondariamente, perchè fingono di ignorare l'impatto via via più smorzato della critica musicale tutta, la cui funzione oggi è più che mai da ridefinire.
Chris Richards sul Washington Post specifica che For a good critic, listening to a recording should be like a skeptical stroll around the new-car lot, not an unwrapping frenzy on Christmas morning, e perciò il non essere perennemente guardingo, sospettoso, lievemente schifato, è esso stesso indice della poca professionalità del critico poptimista. Il tutto, almeno, stando alla concezione di critico musicale fatta propria dal signor Richards, la quale, ricordiamolo, non ha ancora acquisito valore universale, pur rispecchiando una forma mentis piuttosto diffusa. (Nota a margine: non solo dal contenuto ma persino dal titolo dell'articolo, Do you want poptimism? Or do you want the truth?, riecheggiante i Minutemen, non riesco a non avvertire tutto il peso del fondamentalismo che l'autore si porta appresso.)
Perchè, invece, non ribaltare questo atteggiamento? Perchè non approcciare un'opera con predisposizione mentale benevola, tendenzialmente propensi ad accettare ciò che essa ha di buono da offrirci? Forse non si riuscirà comunque a entrare in sintonia con essa, ma almeno sarà stato uno simolante diversivo dal preimpostare un'analisi sul sospetto, sull'assunto che nah, qui stanno cercando di abbindolarmi, meglio tenere gli occhi aperti e non dare troppa confidenza. E' stata la cultura del sospetto, portata ai suoi estremi parossistici, la principale responsabile della fase di stallo in cui vegeta la critica di matrice prettamente rock, non l'emergere di un presunto Nuovo Ordine che, in quanto tale, non esclude affatto la compresenza del rock né mira a delegittimarne l'esistenza. Sono stati in primis il proliferare di pensieri retromaniaci e le minuziose analisi imparentate con la vivisezione, volte a scovare la natura derivativa di tutto ciò che passava il convento, a generalizzare un atteggiamento pessimista, timoroso di prendere posizione se non nel senso di sminuire (a fare gli scettici si rischia meno), incapace di fantasia e coraggio.
Non è "colpa" del poptimismo se, nella migliore delle ipotesi, servirà ancora un decennio per rendersi conto che la nu-new wave non fu revival new wave (proprio come il revival psichedelico degli '80s non fu vero revival e, in generale, ciò che intendiamo come revival non è mai interamente revivalistico); semmai la responsabilità è da ripartirsi tra critici passé i quali, ragionevolmente, intendevano fornire un substrato oggettivo alla loro impossibilità di leggere il presente, e una nuova generazione, confusa dal proliferare di voci e schiacciata dal peso della Storia, che pendeva dalle loro labbra.
Ma la cultura del sospetto si riflette troppo spesso anche nel modo in cui si discute di musica: non occasione di confronto, di scambio di esperienze, modalità principe per uscire dal proprio sé cercando di immedesimarsi, anche solo per pochi minuti, nel modo di pensare di altre persone, abitando altri mondi; piuttosto campo libero per batti e ribatti a oltranza, sfoggio di ars oratoria da bignamino, ansia di prevalere, esasperazione delle differenze. Quell'empatia che già il filosofo Theodor Lipps (Empatia e Godimento Estetico, 1906) individuò come chiave di volta per l'indagine estetica e la fondazione dell'oggetto in senso psicologico, in un simile contesto appare rinnegata per partito preso.
Lempatia scriverà poi Edith Stein ("Il Problema dell'Empatia", 1917) è l'atto paradossale attraverso cui la realtà di altro, di ciò che non siamo, non abbiamo ancora vissuto o che non vivremo mai e che ci sposta altrove, nellignoto, diventa elemento dellesperienza più intima cioè quella del sentire insieme che produce ampliamento ed espansione verso ciò che è oltre, imprevisto. In questo quadro, il rifiuto aprioristico di confrontarsi col mainstream poptimistico (o il tentativo fatto apposta per screditarne le fondamenta, senza abbandonare i propri preconcetti, senza il gusto di perdersi) e la sufficienza/indifferenza con cui si guarda a realtà musicali non anglofone sono due facce della stessa medaglia: pur essendo comportamenti assolutamente legittimi, entrambi mascherano la non volontà di aprirsi, di confrontarsi con l'imprevisto, di superare l'idea di un rapporto con l'arte scandito da codici e simbologie confortevoli, entro i quali ci si sente solipsisticamente al sicuro.
Il caos, insomma, è salutare. L'esigenza di fare ordine, di catalogare e classificare, deve per forza di cose scontrarsi con una realtà sempre più multisfaccettata. Secondo il Prof. Morse Peckham, l'arte inietta il virus del caos in un mondo altrimenti dominato dalla ricerca della certezza, della stabilità: essa non è strumento grazie al quale unificare l'esperienza, bensì il promemoria che ci ricorda di quanto radicati siano i nostri dubbi e di quanto stimolante (di più: biologicamente necessario) sia provare diversi gradi di incertezza cognitiva. Nonostante gli scenari non proprio idilliaci a cui ci sta portando la cultura del click, credo ancora che l'esimersi dal predicare, tentando invece la via di un'indagine estetica per quanto possibile epurata da assolutismi (e, di conseguenza, conscia della propria natura incerta/frammentaria), impostata sulla condivisione di osservazioni e di esperienze, con tutti i rischi che essa comporta (primo fra tutti il riconoscersi nei difetti degli altri), sia una soluzione non troppo folle per affrontare in modo più consapevole questi tempi di transizione. Anche in campo musicale, i nostri dubbi potrebbero diventare la nostra unica salvezza. Basta solo abbandonarsi, tenendo magari un occhio sulla strada. Il resto verrà da sé. E per l'amor del cielo, via quei musi lunghi.
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