A Queens of the Stone Age - Report live from Alcatraz (Milano 18-06-2007)

Queens of the Stone Age - Report live from Alcatraz (Milano 18-06-2007)

Non starò a tediarvi raccontandovi del numero incredibilmente esorbitante di bestemmie che lanciai quando due anni fa, col biglietto già in tasca, fui costretto a rinunciare al concerto dei Queens of the Stone Age causa un termometro impazzito che segnava quasi quaranta gradi. Starò soltanto a dirvi che a questo concerto ci si teneva davvero. Per motivi sentimentali soprattutto, perché benché se ne parli di recente un po’ maluccio (anche le analisi del sottoscritto sugli ultimi due dischi non sono proprio esaltanti) Josh Homme rimarrà sempre nei nostri cuori per quei tre capolavori che ha infilato uno dietro l’altro fino a Song for the Deaf. Senza contare il trascorso Kyuss

Insomma un amore quasi doveroso e comunque immensamente spassionato, tanto da non far esitare minimamente sulla scelta di andare al primo concerto ufficiale del tour dei Qotsa. Si è vero si erano già esibiti in alcuni festival, ma per l’appunto con esibizioni brevi che non superavano i cinquanta minuti. Niente di serio insomma. Ed è molto piacevole che Josh e soci inizino da Milano e dall’Italia il loro prossimo tour de force mondiale. Le uniche incognite la condizione collettiva del gruppo (voci di corridoio sibillavano di prestazioni non esaltanti nelle prove festivaliere) e la scaletta. Il caro vecchio annoso problema della scaletta. Faranno tutti i pezzi nuovi? Faranno solo i classici? Faranno un po’ dell’uno e un po’ dell’altro? Solite sbornie mentali da fan incalliti che circolano inevitabilmente nel lungo serpentone di gente che sta fuori dall’Alcatraz. Tutto esaurito. Neanche strano in fondo ma fa comunque effetto vedere il locale strapieno dopo aver trovato una manciata di persone per i Built to Spill. Forse la differenza sostanziale tra i due gruppi sta tutta in fondo nell’enorme successo di un singolo come No one knows che ai Built to Spill è mancato (almeno in Italia).

Fatto sta che in breve ci ritroviamo ad attendere l’inizio in mezzo a una bolgia infernale terribilmente bollente. Se ti muovi sei immancabilmente sudato.

Arrivati tardi ci perdiamo probabilmente l’apertura di Adrian Sherwood, ma in fondo non ce ne importa neanche tanto. La scenografia è molto curata con un’ottimo gioco di luci in grado di infiammare tutta l’esibizione. Ma anche queste sono inezie. Quello che ci interessa davvero inizia quando entrano in scena Josh Homme e i suoi subalterni. Partono con Monster in the parasol e nonostante un fugace problema tecnico (il microfono di Homme che non ha funzionato all’attacco del pezzo) si rimane subito incantati. La scaletta è devastante: i brani scelti dall’ultimo album sono i migliori (Turning on the screw, Misfit love, I’m designer, Battery acid, 3’s and 7’s, Run pig run e una versione anomala di Sick sick sick, “stoppata” nel ritornello) mentre si pesca a piene mani dai dischi precedenti le cibarie migliori.

L’acustica forse non è eccezionale e molti si lamenteranno di sentire meglio o peggio o solo alcuni strumenti o di non sentire la voce a seconda delle postazioni del locale. Per quanto mi riguarda posso dire che la voce di Homme era in gran forma, così come la prestazione tecnica alla chitarra, al solito sorprendente. È vero però che a tratti si faceva fatica a distinguere la differenza dalle altre due chitarre, il cui suono rimaneva spesso imbrigliato nel marasma generale. Anche il basso si è sentito ben poco mentre si è sentita eccome la batteria di Castillo che ha picchiato dall’inizio alla fine come manco Mike Tyson riusciva a fare negli anni d’oro della sua carriera. Una prestazione complessiva davvero titanica che lo impone tra i migliori batteristi in circolazione per potenza (soprattutto) e rapidità. Alla fine ne è venuto fuori un concerto comunque devastante. Forse un tantino breve (un’ora e mezza) ma tiratissimo dall’inizio alla fine. Brani violenti, duri, robusti e ipercinetici come Go with the flow, Lost art, Mexicola e soprattutto l’imperiosa Song for the deaf, sorprendente soprattutto per gli urlacci del bassista Alain Johannes degni del miglior Nick Oliveri. L’escusione blues che stravolge Regular John (secondo bis dopo Run pig run) spiazza non poco il sottoscritto e chi sta attorno mentre il finale in bellezza è lasciato alla sempre splendida No one knows. I Qotsa ci hanno regalato una sfilza di pezzi rapidi resi ancora più tirati e impetuosi rispetto alle versioni su disco. Nessuna pausa ha consentito di riprendere fiato. Né tra una canzone e l’altra né con brani più molleggiati (penso soprattutto alle cose più ingombranti di Era Vulgaris come Into the hollow).

Non si rimane delusi. Probabilmente il concerto dell’anno.

E la maglietta completamente bagnata di sudore sembra confermarlo.

Amen.

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