Radiohead + Caribou @ Rock In Roma, Ippodromo delle Capannelle

La sveglia suona, il corpo reagisce. Apro piano gli occhi, giusto il tempo di accertarmi che è davvero mattina, che il tempo è bello, che ho dormito discretamente bene, e che di lì a poco avrei realmente sentito i Radiohead in concerto, nella mia bella Roma. Il mio mondo parte lento, all'inizio: doccia calda, passeggiata coi cani, caffè al bar, rassegna web al pc. Poi la calma svanisce in un istante: occhio sull'orologio, ora di pranzo, io che esco per un boccone veloce, io che mi vedo con gli amici del concerto, io che attraverso Roma con loro sfrecciando per arrivare presto alla location, noi che parcheggiamo, noi che arriviamo. L'Ippodromo delle Capannelle si staglia ai nostri occhi in tutta la sua pigra imponenza: l'ora è calda, la gente non smette di affluire come formiche al sole del mezzodì, ma la tranquillità e la pace sono ovunque.
Ci dividiamo: arrivati ciascuno alla propria fila – chi a quella della prenotazione online, chi con il biglietto fisico già in mano – ci accorgiamo subito che l'idea di venire sei ore prima ha avuto le sue ragioni, tutte le sue 35.000 ragioni. Persone, volti sconosciuti, amici ritrovati, tutti rispondono alla chiamata dei re dell'alt-rock, si appiccicano nelle file, si allungano in forme indistinte – ci si muoveva a gruppi separati, i primi che arrivavano erano i primi ad andare sotto al palco – si compattano alla vista delle impalcature, e da lì, solo statue e attesa. Passiamo così le nostre cinque ore di attesa, io e i miei amici ritrovati, nell'immobilità stanca delle grandi giornate, tra una chiacchiera e l'altra, un panino preparato e l'altro, facendo nuovi incontri, i lombari soffrendo, i piedi morendo. Nella bolgia infernale di persone, i miei amici ed io riusciamo a tenere la buona posizione guadagnata – una decima/quindicesima fila perfettamente centrale – e ad arrivare carichi come sempre alle 20.00 e al cielo blu. Caribou.
Il nostro professorino dell'electro-pop si presenta in maniera semplice, jeans e maglietta a tinta unita, occhiali da vista da perfetto ingegnere, scarpe da ginnastica e sorrisi imbarazzati. Maschera timidezza, ma trasuda energia: "Kaili" è lì a rompere il ghiaccio, con quella sua apertura secchissima a bassa fedeltà e una voce appena accennata... forse un po' troppo timida all'inizio, magari troppo sussurrata, ma poco importa. Seguono in ordine sparso "Leave House", e i toni si fanno mistici, "It's a Crime", e scende la discoteca più underground, il singolo dorato "Odessa" a scatenare tutti, "Jamelia" nella splendida sincope che la divide (dalla lounge minimale scandita da un metronomo nella prima parte, fino all'esplosione cantata e ai beat scomposti e distorti che spalancano la seconda parte), "Bowls" nella sua epopea ritmica. Chiude "Sun", ancora una volta (Primavera Sound 2011, Villa Ada 2011), allungata nuovamente in forme house, galleggiante come sempre, eterea, impalpabile, liquidissima, mantrica, molto bella. Un'apertura coi fiocchi, il giusto mix di coinvolgimento dance e spensieratezza indietronica, luci soffuse tendenti al blu e spiritualismo sottovoce. Scende un'arietta frizzante, salgono i tecnici sul palco: una troupe di dieci persone allestisce con cura il palco, tutti rigorosamente con caschetto di sicurezza e imbracature varie (il tragico antefatto che ha annullato il loro tour estivo – la morte del tecnico mentre sistemava le luci a 15 metri di altezza – è noto ormai a tutti). Si fanno così le 21.15, il palco ormai è deserto e si diffonde il buio pesto. Radiohead.
Prendono posto sinuosamente – dall'oscurità –, fanno capolino uno alla volta di lato, prendono possesso dei loro strumenti, si sistemano ai loro posti: poi Thom Yorke alza un braccio al cielo, lo agita e un-due-tre: "Lotus Flower"! Le millemila luci alle spalle del gruppo si colorano di rosso e oro, brillano fino ad accecare, risplendono nelle percussioni che le accompagnano: esecuzione impeccabile, una versione live tanto coinvolgente quanto precisa in ogni forma, dal cantato al suonato, ai tempi, ai toni, agli effetti. E' solo l'inizio dello spettacolo vero e proprio, un concerto incredibile – lo anticipo, ma era scontato –, emozionante anche solo a guardarlo, tanto era bello il contorno visivo di luci e schermi. A proposito di questi ultimi, scomposti e divisi in ogni angolazione, splendido il lavoro fatto per simulare su di essi il mood, i volti di ciascuno dei Radiohead o i richiami che ogni canzone portava: si passava quindi dal blu-ocean riprodotto in maniera incredibile sulle note di "Weird Fishes/Arpeggi" ai colori arcobaleno, simboli estetici dell'album, di una "Nude" intimissima, alla pioggia di pixel digitali nella cavalcata "I Might Be Wrong", velocizzata nei tempi e resa ancora più rock. La sosta è minima, pochissimi sono gli intermezzi dialogati, giusto il tempo per Yorke di un italianissimo "Come state?" iniziale e di qualche piccola incitazione varia. Per il resto, la musica risuona divinamente: buona l'acustica – il fatto che fosse stata scelta una location all'aperto, poi, la rende ancora più che buona, quasi un miracolo –, praticamente perfetta l'equalizzazione di voce e strumenti, che si propagavano senza che uno sovrastasse l'altro e tutti allo stesso livello; non altrettanto gradevole il comportamento della gente, un po' tanto caciarona – amabili discussioni durante (!) la canzone? no grazie - e fin troppo facile all'applauso (ma cazzo, c'è bisogno di battere le mani tre volte durante ogni pezzo?!). Ma dopotutto, in un concerto del genere, con questo richiamo di pubblico sarebbe stato impossibile chiedere altrimenti. E quindi chissenefrega, ciò che importava, comunque, era la musica: la sensualità di "Pyramid Song", suonata benissimo al pianoforte da Yorke, la pulsione trascinante di "Paranoid Android", tra le più riuscite, e densa di pathos e luci psichedeliche, l'alienazione negli effetti (splendidamente riprodotti) di "Kid A", "The Daily Mail" e la sua dedica a Berlusconi ("This is for Berlusconi" presenta Yorke, chiaro riferimenti allo scandalo delle intercettazioni illegali), una "Give Up The Ghost" da brividi (la migliore, live, dall'ultimo "The King of Limbs"), la bellissima "Reckoner" e l'altra dedica implicita che porta (l'omaggio al tecnico morto in estate), con uno Yorke ispiratissimo che squarcia la notte con acuti perfetti e lamenti struggenti, e per chiudere il concerto con l'ultima memorabile del trittico finale, una "Everything In Its Right Place" galleggiante e mistica nell'esecuzione, allungata per l'occasione da synth ad alta frequenza e poi in dissolvenza. Ce ne sarebbero ancora tante altre da raccontare: "Exit Music (for a film)" disarmante nella sua cruda semplicità, nei toni bassi presi da Yorke, nella sua risalita ritmica, nell'atmosfera di profonda sacralità che la avvolgeva, "House of Cards" tra le migliori performance vocali di Yorke (mai la minima stonatura, precisa e pulitissima anche negli strumenti), o anche una spiazzante "Idioteque", tra le poche a non aver convinto perché sostanzialmente parecchio rivista negli effetti (meglio quelli originali) e nel cantato, troppo carico e velocizzato. Ma sono nei invisibili, perché il resto modella un corpo armonioso e perfetto.
Un concerto di due ore e un quarto, doppio bis, canzoni prese un po' da tutta la discografia, una band nel pieno della sua forma e un concerto tenuto sul palco come veri professionisti: cosa chiedere di più? A chi esclama "si vabbè ma avrei voluto "Karma Police", a chi sospira "chissà come sarebbe stata "Creep"...", io rispondo con semplicità di aver visto i Radiohead, finalmente, prima di morire; sono stato presente quando hanno suonato le note e cantato le rime della mia adolescenza; ero lì, e ho fatto parte di quella magia. Tanto mi avanza.
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