A Red Crayola - La Parabola del Signore dei Pastelli

Red Crayola - La Parabola del Signore dei Pastelli

Autentico e incompreso iniziatore della psichedelia americana negli anni ’60, figura di spicco del post punk inglese, spirito guida dell’intellighenzia post rock di Chicago, Mayo Thompson è uno dei personaggi più illuminanti e trasversali della storia del rock. Una lunga storia quella dei Red Crayola, raccontata dal suo stesso ideatore con passione e lungimiranza.

«Mi stai chiedendo se il rock mi abbia salvato la vita o semplicemente me l’abbia resa più semplice e interessante?… Beh, fondamentalmente penso che non ci sia differenza tra le due cose!»

Mayo Thompson

Confrontandolo alla mastodontica mole di produzione artistica - laddove per “arte” si intenda la costante ricerca di un prodotto sperimentale e all’avanguardia, pertanto di complessa e a tratti ostica fruizione - Mayo Thompson si presenta come un personaggio alquanto presente a se stesso, dotato di un aplomb discreto e minimale, raffinato nell’aspetto, assolutamente cordiale nel modo di offrire la sua comunicazione all’altro, una comunicazione calda, piacevole, spunto di interessanti flashback che abbracciano, in una visione grandangolare, oltre trentacinque anni di onorata carriera.

Stupisce più d’ogni altra cosa l’umiltà con la quale Mayo, mente affascinante, instancabilmente volta ad un costante superamento delle dimensioni già esplorate (per ripartire con slancio ugualmente denso d’energia e carico di stimoli verso nuove mete), si pone nei confronti dell’interlocutore, che senza accorgersene si ritrova perfettamente a proprio agio e libero da ogni timore reverenziale di sorta.

Una dote che rende ancor più apprezzabile una figura la cui sola spinta vitale, mai esauritasi, come dimostra l’immane attività, sarebbe bastata per emergere tra molti, destinati a differenti esiti: dall’elementare dispendio d’energie, a un’irrazionale ed inconsapevole autodistruzione, entrambi estremi di una condizione d’artista forse non più padrone di sé, in balia dell’esterno o della sua stessa personalità, in una sperimentazione decostruttiva, la cui fine viene scritta in anticipo.

Rivoluzione trasparente: i primi indelebili solchi tracciati nell’arabile terra del rock, tra attitudine freak e avanguardia

Difficile pensare a un gruppo che abbia incarnato ed espresso così perfettamente l’idea di “psichedelia” come i Red Crayola, pur senza definirsi pretenziosamente psichedelico, per il semplice fatto di suonare fuori tono, servirsi di insoliti ammennicoli in guisa di strumenti o seguire una ferrea dieta di sostanze in grado di aprire le porte della percezione. La band di Mayo Thompson, il solo elemento stabile di un nucleo (originariamente formato anche dal bassista Frederick Barthelme e dal batterista Steve Cunningham) che ha mutato incessantemente forma per quasi quattro decenni e intorno al quale ha ruotato un collettivo di oltre cento musicisti, è stata senza dubbio una delle realtà più originali emerse dall’America dei tardi anni ’60; a suo modo unica, al più avvicinabile per peculiarità stilistica, carica innovativa/rivoluzionaria/dissacrante e - duole dirlo - scarsa considerazione tra i contemporanei, a nomi quali Velvet Underground, Captain Beefheart, Frank Zappa, dai quali tuttavia il texano ha sempre preso le distanze. «In realtà non ci siamo mai considerati parte dell’underground o della controcultura di cui loro erano i fieri portavoce, non volevamo essere catalogati, eravamo dei cani sciolti e del resto anche la gente ci percepiva divesamente… come autentici “weirdos”, tipi davvero strani… a differenza di chi era “professionalmente freak”, tipo Zappa». D’altra parte è indubbio come l’esperienza dei Crayola si sia dispiegata lungo traiettorie parallele a quelle tracciate dai suddetti personaggi, condividendone anche aspetti musicali, incarnando la medesima aura mitologica, muovendosi con lo stesso spirito precursore di tempi e mondi musicali, pur senza mai intersecarle. Forse anche per il nomadismo fisico (e intellettuale) di Thompson, mai del tutto a suo agio in un continente, quello americano, incapace di dare gli stessi input e stimoli culturali di un' Europa sicuramente più vicina alla sua sensibilità artistica, né autenticamente in grado, d’altra parte, di recepire un output così in anticipo rispetto ai tempi e alle realtà coeve, perfino quelle legate all’etichetta che ha messo sul mercato i primi due straordinari lavori della band.

La presenza dei pastelli rossi nel roster dell’International Artists di Lelan Rogers, infatti, appare quanto meno singolare se si confronta la loro proposta musicale con quella degli altri gruppi che hanno inciso per la storica label texana - a cominciare dai 13th Floor Elevators - certamente più legati a un retroterra garage rock, a “formule tipicamente stonesiane/beatlesiane”, meno disposti a un’effettiva manipolazione della materia sonora. Caratteristiche chiaramente riscontrabili nella musica dei Crayola, autentici pionieri nel rivoluzionare la struttura stessa della canzone rock sin dalle fondamenta, dilatando lo spazio della composizione, scardinando la sequenza strofa-ritornello-bridge-strofa in favore di soluzioni meno costrittive, includendo suoni realizzati da chiunque e con qualunque strumento/oggetto/metodo. «Non penso che i Red Crayola abbiano distrutto qualcosa o screditato qualcuno… abbiamo semplicemente utilizzato i linguaggi musicali esistenti, del resto nessuno ci ha chiesto di inventare nulla; la musica è un “fatto materiale” e non c’è modo di decostruire, scomporre un fatto materiale… abbiamo manipolato gli idiomi e giocato con le forme, ma il nostro scopo non era certamente quello di distruggere».

Concettualmente simile alle Mother’s Auxiliary di Zappa, la Familiar Ugly dei texani è una banda sconfinata di personaggi - per inciso non solo musicisti - costruita intorno a uno zoccolo duro, costantemente in progress e destinata a svolgere i compiti più disparati, dal semplice lavoro manuale alle scorribande rumoristiche sul palco. «Se si presentava la possibilità la Familiar Ugly si esibiva, rivelandosi per quello che era: io dicevo “andiamo ragazzi facciamo un po’ di rumore!” e nessuno si tirava indietro. Abbiamo cominciato come una sorta di progetto aperto perché ci sembrava il modo migliore per avere la massima libertà espressiva. Le alternative non avrebbero funzionato e non erano da prendere in considerazione per me».

Esemplificative dell’attitudine realmente psichedelica della band, le free form freak-out del primo epocale The Parable of Arable Land (IA, 1967) sono magma ribollente di vibrazioni cacofoniche che investono l’ascoltatore, spesso con violenza inaudita, e dal quale spontaneamente emerge il suono “organizzato” delle canzoni. Similmente a una scultura liberata dal blocco di marmo grezzo che l’avvinghia, la musica si aggrega e prende vita dall’energia primigenia del rumore, per poi esserne nuovamente risucchiata in un progressivo frantumarsi dei legami che ne reggevano la costruzione razionale/armonica. A distinguere l’approccio dei Red Crayola da quello di altre bande psichedeliche dell’epoca è proprio l’importanza e il ruolo attribuiti al fattore rumore, allorché da semplice contorno/contrasto o intermezzo, diviene esso stesso elemento centrale della composizione, all’interno del quale si fanno largo faticosamente strutture canoniche e tonali [2]. Eppure è un elemento mai sopito del tutto, che attende felino sullo sfondo per tirare la zampata al momento più opportuno e inaspettato. Altro tratto distintivo è la disposizione dei pastelli alla contaminazione e apertura verso linguaggi altri dalla musica popular: il filo che lega talune intuizioni con i poemi elettronici di Edgar Varèse e la musica aleatoria di John Cage è tutt’altro che sottile e trascurabile (si ascoltino per esempio la free form freak out che segue Pink Stainless Tail e la storica Ionisation del parigino), né va sminuito chiamando in causa il rigore scientifico e l’approccio sistemico di quei pionieri della sperimentazione: ci troviamo chiaramente di fronte a contesti, background e percorsi formativi distanti anni luce e dunque non direttamente confrontabili.

Enfatizzare però l’aspetto dissacrante dell’opera, ergendolo a valore assoluto della stessa, vorrebbe dire adombrare la bellezza di sei canzoni altrettanto eccentriche ed emozionanti, a cominciare dall’incalzante Hurricane Fighter Plane, propulsa da tre note di basso ripetute e percussioni squinternate, agitata da un pulviscolo vorticoso di rumorini in cui galleggia un organo liquido in stile Wright (sarebbe interessante sapere, tra Pink Floyd e Red Crayola, chi abbia influenzato l’altro). E non si finirà mai di tessere l’elogio di Transparent Radiation, anthem lisergico il cui potenziale psichedelico sarà messo in luce e dispiegato - vent’anni dopo - nella cover degli inglesi Spacemen 3 (splendida come l’album che la contiene: Perfect Prescription, Glass 1987). Si tratta probabilmente del brano più importante di tutta la psichedelia americana, di cui sono presenti alcuni dei tratti archetipici: chitarre in reverse, voci/strumenti e rumori che viaggiano in libertà da un canale all’altro, sottoposti a frequenti alterazioni di tono/timbro/volume, un’armonica chiesastica che giunge a toccare l’empireo. Sembrano animate dallo stesso spirito dionisiaco le progressioni nevrotiche di War Sucks, veemente invettiva contro la guerra, e Pink Stainless Tail, in cui si consuma il rito orgiastico tra suono e rumore, in un continuo, animalesco e liberatorio compenetrarsi dei due elementi. La title track, sinfonia cacofonica di clangori, stridii, fischi, urla, voci fuori campo, strumenti stuprati selvaggiamente e chi più ne ha più ne metta è il preludio al rilascio tensionale che sancisce/scandisce il ritorno dal viaggio, Former Reflections Enduring Doubt, epifanica presa di coscienza del cambiamento. «Eravamo perfettamente consapevoli che stavamo cambiando le cose, che stavamo creando una musica diversa dal blues revival… per carità, non ho nulla contro il blues, lo adoravo anche io quando ho iniziato ma non avevo nessuna intenzione di suonarlo, volevo creare qualcosa di mai udito prima»

Le benedizioni non bastano: dai viaggi nella California di John Fahey al naufragio commerciale dell’influente God Bless.

L’attività concertistica del collettivo si divide tra concorsi per band emergenti e festival di nicchia, tra cui vanno citati i trip californiani dell’Angry Arts al Venice Pavilion e del Berkley Folk Festival (entrambi risalenti all’estate del 1967), le cui sconvolgenti performance sono immortalate nel doppio album Live 1967 (Drag City, 1998). Nel secondo disco compare anche una lunga e ipnotica jam con John Fahey, uno dei pochi artisti realmente apprezzati dal gruppo. «Non ci piaceva nulla di quello che si sentiva in giro all’epoca, detto francamente. Restammo molto delusi dal primo album dei Grateful Dead da cui ci aspettavamo qualcosa di nuovo… quando andammo in California, l’unica musica che volevamo ascoltare era quella di John Fahey e ci proposero di incontrarlo per lavorarci insieme, fu fantastico! Registrammo un doppio album con lui a Berkley… la International Artists venne a sapere la cosa e si impuntò per averlo prima del nostro ritorno in Texas. Con molta riluttanza lo spedimmo e - non si sa come - l’etichetta perse i master, con nostro grande rammarico…»

Se qualcuno, compresi i discografici della IA, può attendersi una normalizzazione del suono dopo un esordio così bizzarro, chiaramente si sbaglia di grosso: il successivo Coconut Hotel si avventura lungo sentieri ancor più impervi, al punto di essere categoricamente rifiutato dall’etichetta texana, per andare alle stampe solo trent’anni più tardi (nel 1995), grazie alla Drag City. L’album è un campionario di stranezze, dai famigerati one-second pieces ai monologhi di feedback, passando per quadretti concrèti, escursioni folk-psych per chitarre acustiche e improvvisazioni al pianoforte. «Un pezzo di un secondo è il più compresso istante che si può ottenere da una composizione coerente: un suono, due suoni, quattrocentomila o infiniti suoni concentrati nell’arco di un secondo - che è una microporzione del brano. Vennero fuori dalla nostra ammirazione per Cage e la sua opera… evidentemente c’era ancora qualcosa da fare in quella direzione; i one-second-pieces pongono anche delle domande all’artista: “messi all’inizio del disco fungono da introduzione alla prima canzone, posti dopo la prima canzone rappresentano la sua conclusione o l’annuncio della seconda?” oppure “quanto silenzio devo lasciare prima e dopo i pezzi?”. Se pure questi dettagli possono sembrare banali, oltre alla struttura interna, modificano la percezione dell’opera… certo, dietro di loro c’è un concetto ma io ho sempre creduto che “la musica è l’idea”»

Chiamando in causa la musica delle Accademie, i Red Crayola si chiedono, come altri complessi rock dell’epoca - si pensi a Zappa o ai Pink Floyd di Ummagumma - se sia possibile (e attraverso quali dinamiche) applicare alla musica pop le pregevoli intuizioni maturate negli ambienti colti. Se gli esiti non sempre corrispondono a quelli auspicati e spesso le sperimentazioni restano fini a se stesse, talvolta le idee si concretizzano in composizioni inaudite. Accade di frequente nel successivo God Bless The Red Krayola And All Who Sail With It (IA, 1968), realizzato dopo la dipartita di Barthelme, a cui subentra il validissimo Tommy Smith. L’album raccoglie venti brevi affreschi dalle tinte variegate e profetiche ma ben lontane dall’apocalisse della parabola - spostandosi il fuoco sulla forma canzone, di cui vengono esplorate possibilità e confini. Senza voler nulla togliere all’unicità dell’esordio, God Bless riesce ad essere ancor più antesignano e influente per le generazioni future, pur non configurandosi come progetto organico e unitario. Progressioni jazzy, ritmiche spezzate o ipnotiche, coretti sgangherati, chitarrine sghembe, numeri da cabaret, pastiche dada, continui cambi di registro… in queste tracce così slegate possiamo trovare i semi di tante esperienze a venire: dal kraut rock alla new wave, dal post rock al cantautorato lo-fi. «Molti ravvisano in God Bless delle somiglianze tra i Red Crayola e la scena rock tedesca degli anni ’70. In realtà noi abbiamo iniziato a suonare prima dei Faust, dei Can e di altri gruppi kraut rock… non conoscevamo né ascoltavamo quella musica. Sicuramente esiste una relazione tra noi e loro ma ritengo sia puramente casuale, abbia a che fare con le idee che si trovano alla base dell’espressione musicale piuttosto che con il modo di realizzarle e suonare. Ci sono diverse cose che ci separano da loro… prendiamo i Can, li trovo sicuramente meravigliosi ma alcune loro composizioni sono costruite su una nota di basso ripetuta all’infinito, è un concetto estremo e interessante che può rivelarsi utile ma a volte può essere anche limitante, quel tipo di cose personalmente mi andavano strette»

Com’è consuetudine nella storia della musica, le grandi rivoluzioni spesso passano inosservate agli occhi dei contemporanei, per essere comprese nella loro reale portata solo a distanza di anni; e nella statistica che raccoglie i gruppi dissolti dall’insuccesso commerciale figurano anche i Red Crayola.

Mayo Thompson però è un tipo che non si piega facilmente e due anni dopo lo ritroviamo in sala prove con l’intento di incidere il suo primo album solista, questa volta circondato da un nugolo di artisti appartenenti proprio a quella polverosa tradizione musicale con cui i Crayola avevano giocato al tiro al piattello nei primi due dischi: la leggenda di Houston Frank Davis, Roger Dr. Rocket Romano e la sua band, e altri personaggi del giro country/blues . Tuttavia Corky’s Debt To His Father, prodotto dalla piccola e prematuramente fallita Texas Revolution, non giunge nei negozi prima della fine degli anni ’80, quando la label inglese Glass si adopera per la sua pubblicazione. Ristampato dalla Drag City nel ’95, Corky’s resta l’album più accessibile di Thompson, alternando morbide canzoni d’amore velate di psichedelia a blues elettrici e pianismi boogie da locale fumoso.

Gli slogan del soldato: dall’incontro con l’arte concettuale inglese alla traversata dell’Oceano, inseguendo la nuova onda

Mente straordinariamente ricettiva e animata da una curiosità sconfinata, il texano entra in contatto proprio in quegli anni con un gruppo di artisti concettuali londinesi attivi anche a New York, gli Art & Language . Dalla collaborazione nascono svariati progetti (non solo musicali) tra cui Corrected Slogans (Music Language, 1976), un’opera di meta-musica che lascia convergere l’eclettismo stilistico di Mayo con l’ideologia professata dal collettivo, in un confronto dialettico che si articola lungo venti scarne composizioni, ciascuna arrangiata per voce/i e uno strumento. I testi, cantati tanto da soprano quanto da amatori poco intonati, scanditi a mo’ di filastrocca o recitati alla maniera di spoken word, fanno riferimento a tematiche di natura filosofica, politica e sociologica. «In genere io mi occupavo della musica e loro scrivevano le lyrics… con gli Art & Language ci interrogavamo su questioni interessanti tipo: “chi è il musicista”, “cos’è la musica” e soprattutto “quando… è la musica”, in quale momento avviene l’atto creativo».

La necessità di interagire in maniera più diretta con i nuovi collaboratori spinge il texano a volare oltreoceano per sbarcare nella vivacissima Londra, dove nel 1978 con il batterista Jesse Chamberlain riforma i Red Crayola . In quel momento la metropoli vive nel fermento sollevato dalla nuova onda: la rivoluzione punk ha cambiato il modo di approcciarsi all’esperienza artistica, percepire l’atto creativo e comunicare con il pubblico; è uno sconvolgimento che ha già imboccato la via del tramonto ma le cui conseguenze sono destinate a protrarsi negli anni a venire: l’idea del “tutti possono farlo” ha indotto molti ragazzi a concepire la musica come forma di espressione e prosecuzione del proprio Sé, e aperto le porte a un’invasione di gruppi dalle sonorità spesso divergenti, eppure guidati da un comune sentire. Proprio nel periodo di crescita esponenziale della new wave, Thompson inizia a frequentare alcuni musicisti inglesi per poi entrare in contatto con la Radar Records di Andrew Lauder, che - ironia della sorte - ha appena ristampato i primi due lavori della band per il mercato britannico, probabilmente riconoscendo in essi i prodromi di quanto sta creando l’esuberante scena nazionale. «A proposito del rapporto con gli artisti della new wave… più che una comunione di idee si trattava di un comune “sentire”. David Thomas ne è la testimonianza diretta… erano molte di più le cose su cui eravamo in disaccordo di quelle su cui la pensavamo alla stessa maniera. Posso identificare delle categorie o delle caratteristiche filosofiche descrittivamente accurate da applicare alla musica punk che è una “chiesa larga”: ci sono diversi tipi di punk, dai Sex Pistols, a un estremo, ai Desperate Bycycles, all’altro… e nel mezzo un’intera gamma di artisti new wave. Autedeterminazione, spirito d’iniziativa, autoproduzione, quindi un’ attitudine “do it yourself” […] all’epoca importava molto l’idea di ciò che la gente stesse facendo, di cosa fosse buono, bello e virtuoso… in definitiva di cosa valesse la pena fare. Quel modo di essere aveva a che fare con il “dire di no”, o il “dire di sì a qualcos’altro”, con l’idea di “alternativo”… ci si chiedeva cosa permettesse all’artista la scelta di un’alternativa al comune sentire/agire. Allo stesso tempo esistevano delle difficoltà e tutta una serie di problematiche legate al punk, che tirava in gioco l’identità sociale, sessuale, ecc… ma all’epoca io ero fuori da tutto questo, non appartenevo a nessuna comunità di quella chiesa. Svolgevo delle attività, avevo dei progetti, e in essi è possibile individuare ciò che dividevo con quelle persone… che ovviamente non erano tenute ad avere i miei stessi punti di vista: ero americano, di un’altra generazione, avevo dieci anni più di loro, valori differenti, un modo diverso di apprendere e fare le cose…. dovevamo solo suonare e se c’era il giusto feeling tra di noi, accadeva qualcosa di unico e irripetibile ma le cose potevano anche non funzionare».

Soldier Talk (Radar, 1979) è l’opera più a fuoco di questa seconda fase dei Red Crayola, esala l’afflato psichedelico in favore di un’urgenza espressiva di ispirazione punk, sostenuta da ospiti del calibro della sassofonista Lora Logic (X-Ray Spex, Essential Logic) e dei Pere Ubu - quasi al completo . Lo spettacolo messo in scena è una nevrosi che brucia progressivamente ogni sinapsi, tra ritmi forsennati e sconnessi, tagliati a fette da chitarre affilatissime (On the Brink, Conspiration Oath, la splendida X), marcette da sagra dei funghi allucinogeni (March no.12 e no.14), isteriche copule prog-punk (Letter-Bomb) e jam improvvisate da reduci di guerra impazziti (Soldier Talk, Discipline). Il cambio di ritmo alla fine di An Opposition Spokesman, che in una manciata di secondi, da free-jazz si fa kraut-motoristico per detonare in un’esplosione punk finale, da solo vale l’acquisto dell’album.

Materiale infiammabile: dall’esperienza di produttore per la Rough Trade alle collaborazioni con la scena free-jazz tedesca.

La congiuntura è favorevole perché Thompson possa mettersi in gioco anche su altri fronti: parallelamente all’esperienza Crayola, il Signore dei Pastelli intraprende una frenetica attività di produttore per la storica Rough Trade, che gli procurerà non poche soddisfazioni . I migliori dischi del post-punk britannico pubblicati dall’etichetta inglese tra il ’78 e l’81 accrediteranno il texano al banco di regia: Monochrome Set, Stiff Little Fingers, Raincoats, The Fall, Cabaret Voltaire, James “Blood” Ulmer, Blue Orchids, Scritti Politti. «Cercavo di carpire il sound naturale di un gruppo ed evidenziarne i tratti distintivi, se potevo fornire una prospettiva in grado di indirizzare i musicisti nelle proprie scelte lo facevo, anche se il mio lavoro consisteva principalmente nell’assicurarmi che quella musica finisse su nastro. Sono orgoglioso di tutti i dischi e gli artisti che ho prodotto, dagli Stiff Little Fingers di Inflammable Material alle Raincoats, da Mark E. Smith & The Fall ai Cabaret Voltaire di Nag Nag Nag. Rimasi un po’ deluso da Lawrence Hayward dei Felt, gli missai il disco ma lo rifiutò perché riteneva che la sua voce non fosse sufficientemente in primo piano e quindi fui costretto a rifare il mix… in generale il suo comportamento da popstar mi lasciò piuttosto perplesso perché non lo immaginavo così, ma il disco era il suo e naturalmente dovevo adeguarmi! C’è solo un album la cui produzione è stata assolutamente deludente per me ed è quello dei The Chills, perché fondamentalmente a loro il disco non piaceva, non erano felici di suonarlo ma lo produssi ugualmente… finito il missaggio praticamente fuggii dallo studio, il giorno dopo ero già fuori città! Verso la fine degli anni ’80 le cose si erano fatte troppo complicate e non ero più in grado di stare al banco di produzione, gli studi si iniziavano a riempire di strumenti sempre più complessi, macchinari che automatizzavano molti processi, enormi computer… in realtà amo indiscriminatamente tutti i mezzi di produzione e le tecnologie disponibili e se si presenta l’opportunità di utilizzarne una non mi tiro indietro ma io ero legato a un’altra idea di produttore, anche più “romantica”, se così si può dire…»

Con alcuni artisti new wave sorge un’affinità destinata a sfociare spontaneamente in un rendez-vous con i Crayola: è il caso di Gina Birch (Raincoats) e Epic Soundtracks (Swell Maps), che dopo aver suonato in Microchips & Fish(1979) - primo 12” della Rough Trade - diventeranno membri effettivi della band. Il lato A dell’EP è un ballabile strapazzato da chitarre atonali, sorta di punk-funk ante litteram dai toni raccapriccianti (al punto da indurre il compianto John Peel ad azzardare previsioni infauste sulle sorti dell’etichetta!). Le incursioni nei territori della danza postmoderna continuano con il singolo Born in Flames (1981), synth pop mandato in orbita dagli acuti anfetaminici di Lora Logic, subito eletto ad anthem da discoteca alternativa .

Si arricchisce di nuova linfa anche l’esperienza con i teorici dell’Art & Language, grazie agli album Kangaroo? (Rough Trade, 1981), sorta di rivisitazione pop degli Slogans, e Black Snakes (Rec Rec / Pure Freude, 1983), che sposta le coordinate verso ritmi più funky, quasi à la Material . E’ un periodo quanto mai prolifico per Thompson che con Ravenstine e il ritrovato Jesse Chamberlain sforna un altro mini album, Three Songs On A Trip To The United States And Bismarkstrasse, 50 (Reccomended / Pure Freude, 1983), inciso in Germania - sua nuova dimora - e comprendente versioni live di brani estratti da Soldier Talk e dai lavori realizzati con Baldwin e soci; oltre a tre nuovi pezzi, tra cui è opportuno segnalare quantomeno l’inedita vena dark-wave di Caribbean Postcard. Sempre attivo all’interno della Rough Trade come produttore , il texano indossa con perfetto aplomb anche l’abito del manager: sarà proprio lui a presentare il “regista delle libertà” Derek Jarman agli Smiths, pubblicandone i primi video . Le nuove frequentazioni tedesche si collocano anche nel giro avant jazz, vecchio pallino di Mayo, risolvendosi nell’album Malefactor, Ade (Glass, 1989), cui prende parte tra gli altri il maestro dell’improvvisazione Rüdiger Carl (COWWS Quintet) .Prova esemplare di eclettismo e capacità di rielaborazione, la raccolta è un pregevole tentativo di contaminare idiomi ben distanti (e distinti), come accade in Express e Franz Von Assisi, stralunate canzoncine scandite da balbettii robotici di clarinetto, trombone e batteria. Altre perle sono custodite nel blues devitalizzato di Baby Jesus Frog e nella marcetta demente per psicopatici in libera uscita Blue Jeans; piuttosto insolite ma altrettanto degne d’attenzione le manipolazioni elettroniche incise sull’altra facciata del lp (effetti, tape loop…). «Malefactor è essenzialmente un lavoro di studio… oltre al pittore Albert Oehlen era coinvolto un musicista free-jazz, Rüdiger Carl… suonò delle linee di clarinetto su un tape recorder e noi le manipolammo, rigirandole e rivoltandole da capo a piedi così da poterle utilizzare in diverse tracce. Eravamo molto soddisfatti del risultato finale… fu anche la prima volta che utilizzai delle drum machine al posto della batteria»

La gente è pronta: dall’avventura con la scena avant rock di Chicago alle fatiche dell’ultimo entusiasmante tour mondiale

Lasciato lo zampino in altri dischi dell’intellighenzia germanica, all’inizio degli anni ’90 il fondatore dei Crayola pone termine alle sue peregrinazioni europee per fare ritorno in patria, mosso dalla ricerca di nuovi stimoli e forse subdorando aria di cambiamento. La nuova destinazione non è esattamente l’arido Sud che gli ha dato i natali bensì - svariate miglia più a nord - la ventosa Chicago, il cui sfaccettato sottobosco musicale sta iniziando proprio allora a parlare una lingua comune e acquistare una sorta di unità d’ intenti che indurrà la stampa specializzata a definire una “scena” locale. A trainare il carrozzone post rock chicagoano, una serie di personaggi dall’indubbio talento, curiosi divoratori di ogni musica possibile, animati da uno spirito D.I.Y. di ascendenza punk ma di ben più larghe vedute, tra cui il chitarrista/produttore Steve Albini, John McEntire (batterista/percussionista dal tocco inconfondibile), il jolly Jim O’Rourke e il compagno di merende David Grubbs . Proprio quest’ultimo, da sempre grande estimatore dei pastelli (per i quali nutre la stessa riverenza che un musicista può avere nei confronti di chi lo ha indotto a imbracciare per la prima volta lo strumento), introduce Thompson nel giro. «Non li conoscevo ma avevo ascoltato alcuni dei loro dischi, con David Grubbs avevo un amico in comune che mi chiese di produrre un album degli Squirrel Bait ma all’epoca ero in Inghilterra e la cosa non si fece. Un giorno David mi chiamò al telefono, si presentò e mi chiese se potevamo vederci per fare quattro chiacchiere; quando lo incontrai a Chicago ci fu subito una grande affinità tra noi e lo stesso accadde con McEntire e gli altri… anche perché loro conoscevano bene la nostra musica e io apprezzavo molto il fatto che fossero intenzionati a creare qualcosa di nuovo. Registrai un demo con sei canzoni che David fece ascoltare ai tipi della Drag Cirty» La storica label indipendente non esita a prendersi l’onere (e l’onore) di ristampare buona parte del materiale inciso dal texano , oltre a dargli la possibilità di ritornare in studio.

La prima nuova uscita sulla lunga distanza è l’omonimo The Red Krayola (DC, 1994), che annovera tra i credits anche il talento della sei corde Tom Watson (Slovenly, Overpass) e l’artista visuale Stephen Prina. L’aria che tira tra queste diciassette tracce (tutte sotto i tre minuti) è frizzante, pregna di tensione (positiva) e vivace quanto quella che si respira negli incontri improvvisati - a casa, in studio, nei club - tra i musicisti coinvolti… amici prima di tutto, ragazzi a cui piace bere una birra, attaccare gli amplificatori e tirare fuori l’anima dai loro strumenti. E’ un clima rilassato e fecondo - a suo modo simile a quello dei lontani anni ’60 - che tira fuori il lato più creativo di Thompson, ben percepibile nella lucentezza accecante di episodi come Book Of Words - irresistibile nel suo srotolarsi umorale tra coretti e chitarrine pruriginose - l’arrembante People Get Ready (The Train’s Not Coming), il raga trasfigurato di I Knew It, e 101st, di cui entusiasma l’interplay voce/chitarre/batteria. La scrittura resta a fuoco anche quando i toni si fanno più dimessi: in Pessimistry, che implode proprio sul punto di prendere il volo, nelle sinistre (Why) I’m So Blasé e The Big Macumba, nella sonnolenza oppiacea di Suddenly.

Il successivo mini Amor & Language (DC, 1995) riunisce una pletora di ospiti illustri, tra cui il leggendario George Hurley (Minutemen, fIREHOSE), subito reclutato come nuovo batterista della band. Trattatello di morbida psichedelia, l’album smussa molti spigoli e asperità del suono Krayola, preferendogli superfici più levigate che utilizzano materiali tradizionali, dal folk al country-blues. Spostando l’accento sulla melodia, in un confronto dialettico con il ritmo, che possa generare forme/strutture allo stesso tempo ricercate e fruibili, Hazel (DC, 1996) è la naturale prosecuzione del discorso intrapreso due anni prima, la vetta più alta raggiunta dal texano dai tempi di Soldier Talk; un cammeo avant-pop che mostra ancora una volta come Thompson sappia recepire gli input più disparati senza cadere nella facile (e comoda) tentazione di adattarvisi, riproponendoli pedissequamente, quanto piuttosto manipolandoli, rigirandoli tra le dita e premendoli nella formina della sua spiccata personalità. Tipico esempio è la gemma dell’album, Duke Of Newcastle, un reggae trasfigurato che narra la marcia di un soldato cristiano: della musica in levare resta solo l’afflato corale, bianca è invece la leggerezza delle voci. I duetti con Grubbs sprigionano incanto ad ogni nota e hanno l’aria del passaggio di consegne dal maestro all’allievo: alla levità wyattiana di I’m So Blasé fanno da contraltare il folk magmatico di Larking e gli incastri chitarristici di Another Song, Another Satan. Il tocco dell’intellighenzia chicagoana si sente particolarmente nelle reiterazioni di Duck & Cover e nelle distorsioni post-hardcore di GAO, altro vertice dell’album, come pure nell’umorale alt.country di Falls (commovente l’assolo finale di banjo) e nella cameristica We Feel Fine. Il rumorismo post rock trova infine un punto di contatto con l’attitudine psichedelica di Thompson nell’elettronica cheap di Boogie e in Father Abrahm, moderna free form freak-out che fornisce anche l’assist per il lavoro seguente.

Ultimo tassello del trittico su Drag City, Fingerpainting (DC, 1999) è una via di mezzo tra un divertissement e un tentativo di misurarsi con il passato, nella fattispecie provando a disseppellire lo scheletro del leggendario The Parable Of Arable Land per impiantargli un corpo nuovo e ricamarci intorno un abito altrettanto stravagante. Naturalmente questa volta il campionario di suoni e rumorini viene generato (anche) da mezzi più moderni e teconologici - a partire da una drum machine che appare/scompare dal mix in maniera più o meno casuale - oltre ad essere in parte estrapolato da vecchie registrazioni. «Ci chiedevamo: “E' possibile ripetere la struttura di Parable ora? In che modo possiamo approcciarci a quel materiale sonoro in questo momento e quali possono essere gli effetti su di noi e sull’ascoltatore?” Avevamo dei pezzi non utilizzati in Parable, dato che all’epoca la IA ci aveva chiesto solo sei delle dieci canzoni che avevamo scritto, e quindi recuperammo i restanti per farne uso in Fingerpainting. La cosa curiosa è che quei brani avevano una struttura piuttosto semplice, basata su tre accordi, anche perché all’epoca le nostre capacità tecniche erano piuttosto limitate… è chiaro che rispetto a Parable cambiavano sostanzialmente le condizioni produttive ma noi abbiamo sempre puntato a lavorare con le migliori tecnologie disponibili, e non per feticismo… Steve Albini è uno fissato per la tecnologia [ride], un lunatico dell’analogico - Dio lo benedica! è un uomo straordinario -, lui usa valvole, microfoni vecchio stile e tutto un armamentario di strumenti vintage. E’ un piacere collaborarci, è un gentiluomo… conosci il disco Amor & Language? L’ha missato lui, l’unico motivo per cui non ho voluto che comparisse nei credits è perché aspettavo quel giorno da una vita e così gli ho semplicemente detto “grazie”! [ride]»

Anche nel maelstrom cacofonico di Fingerpainting si ricompongono pseudo-canzoni, dai titoli spesso strampalati, come Sow With An Abbess's Bonnet Is Sitting On Four Rock-Objects And Singing oppure Out Of a Trombone That Is Divided Lengthways By A Partition Of Gold Sou, la lunga suite che chiude l’album. Curioso notare l’affinità di alcuni brani (Bed Medicine, Tears For Example) con i deliri metropolitani dei primi Suicide e dei Can più acidi, d’altra parte in queste tracce il cerchio si chiude: i Red Crayola che nella loro opera pioneristica hanno inlfuenzato dapprima i krautrocker e di riflesso i complessi new wave più radicali, entrambi ispirazioni dirette per le eminenze grigie del post rock, infine recuperano le proprie origini in un percorso a ritroso compiuto proprio al fianco della loro ultima discendenza generazionale, quella rappresentata da Grubbs & soci.

Tra singoli, apparizioni come ospite in svariati dischi e compilation, due nuove produzioni - il mini Blues Hollers & Hellos (DC, 2000) e la colonna sonora Japan in Paris in L.A. (DC, 2004) - e la raccolta Singles(DC, 2004) , la carriera di Thompson approda all’oggi, a questo 2005 segnato da una mai così frenetica attività concertistica che ha toccato gli USA, l’Europa - con un’indimenticabile parentesi italiana - e il Giappone.

«Ci considerano tutti un gruppo d’avanguardia, in effetti forse lo siamo stati, visto che avevamo delle teorie, dei progetti, un programma ma ora in America non esistono più le condizioni perché ci sia l’avanguardia, forse in Europa sono ancora presenti ma da noi l’avanguardia è diventata “ufficiale” negli anni ’60 e a mano a mano che diveniva pubblica io smettevo di pensare in quei termini… ho prodotto degli album destinati a persone che naturalmente avevano bisogno di dare un nome alle cose, di etichettarle, catalogarle e così è accaduto. A volte i nomi erano adeguati alla nostra proposta musicale altre volte no… ho anche iniziato a pensare che un giorno avrei dovuto raccontare la vera storia di quel periodo, ma sapevo che anche se lo avessi fatto nessuno mi avrebbe creduto e avrei suscitato solo ilarità, e ad ogni modo dubito che queste informazioni potrebbero mai interessare a qualcuno… non ho mai pensato che la musica potesse rivoluzionare il mondo, le implicazioni sociali del suonare rock’n’roll restano legate alla “grande famiglia” del rock’n’roll… so già quale sarà la prossima domanda: mi chiederai se il rock abbia almeno salvato la mia vita o quantomeno me l’abbia resa più interessante… beh, la risposta è affermativa e fondamentalmente penso che non ci sia differenza tra le due cose!»

Discografia essenziale:

* The Parable Of Arable Land (1967), 9/10

* Live 1967 (1998), s.v.

* Coconut Hotel (1995), 6.5/10

* God Bless The Red Krayola And All Who Sail With It (1968), 8.5/10

* Corky's Debt To His Father (1970), 7.0/10

* Corrected Slogans (1976), 6.0/10

* Soldier Talk (1979), 8.0/10

* Kangaroo? (1981), 6.5/10

* Black Snakes (1983), 6.0/10

* Three Songs On A Trip To The US And Bismarkstr., 50 (1983, ep), 6.5/10

* Malefactor Ade (1989), 7.0/10

* The Red Krayola (1994), 7.5/10

* Amor & Language (1995, ep), 7.0/10

* Hazel (1996), 8.0/10

* Fingerpainting (1999), 6.5/10

* Blues Hollers & Hellos (2000), 6.5/10

* Singles (2004), 8.0/10

(i singoli recensiti e contrassegnati con l’asterisco sono inclusi nella raccolta Singles)

Si ringrazia per la preziosa collaborazione Mimma Schirosi

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ozzy(d) alle 11:22 del 12 luglio 2007 ha scritto:

chapeau!

complimnenti, articolo davvero enciclopedico!

Marco_Biasio alle 16:46 del 21 dicembre 2008 ha scritto:

Per un gruppo di siffatto calibro questo completo articolo è quanto di meglio si potesse chiedere. Veramente le mie più vive congratulazioni, Martino. Ci vorrebbe proprio una recensione di "The Parable Of Arable Land".

Vito alle 15:56 del 5 marzo 2020 ha scritto:

Grandissimi,i primi 2 album valgono almeno quanto i primi 2 dei velvet e hanno lo stesso grado di sperimentazione di trout mask replica.lode eterna a mayo

Vito alle 16:00 del 5 marzo 2020 ha scritto:

Due dischi da 10 secco,entrambi i primi,gli altri decisamente sottotono ,ma bastano i primi ª rendere questo gruppo uno dei 10 più importanti degli anni 60.