A Red Hot Chili Peppers - Dal crossover al successo mondiale sotto il sole della California

Red Hot Chili Peppers - Dal crossover al successo mondiale sotto il sole della California

I Red Hot Chili Peppers sono uno dei gruppi più amati e discussi degli ultimi anni. Nell’arco di oltre due decenni la band è passata attraverso droga, sesso, morte e rinascita portando sempre con sé una forza intrinseca ed una voglia di vivere inconfondibili.

È probabilmente questa la caratteristica più tipica dei 4 californiani, la loro è una musica che esprime un senso di vivacità, di sangue che bolle nelle vene. Sin dagli esordi il gruppo fu notato per questa esplosiva allegria, ma le qualità della band sono ben altre. I Red Hot sono tra i più conosciuti e migliori esponenti del Crossover, quel movimento di commistione tra generi che diede vita a gruppi di altissimo livello quali Faith No More e Rage Against The Machine, dal lato più heavy, o Fishbone e RHCP appunto, caratterizzati da ritmi ed esuberanza tipicamente funk.

L’innovazione della band fu di saper inserire la sensualità tipica della musica nera in un contesto metropolitano e cinico, a tratti stordente. Le liriche di Kiedis sono sempre state disincantate, grezze quanto sincere, capaci di affrontare tematiche diversificate senza risultare pretenziose.

Out In L.A. : Gli Esordi

Erano gli inizi degli anni ’80 quando Michael “Flea” Balzary, Anthony Kiedis, Hillel Slovak e Jack Irons fondarono i Red Hot Chili Peppers; dopo pochi mesi avevano già un contratto con la EMI.

È noto che sin dagli esordi il rapporto con la casa discografica non fosse idilliaco ed anche per l’inesperienza dei ragazzi i primi dischi furono caratterizzati da una certa insicurezza; le potenzialità mostrate nei concerti non esplodono così palesemente nei primi album in studio.

Assistere ad un live dei Peppers era qualcosa di sconvolgente; il basso prorompente di Flea, vero marchio di fabbrica del gruppo, andava ad impattare con la chitarra sgraziata e punk di Slovak. A Kiedis non restava altro che ricamare funk supersonici su questo tessuto incandescente, impregnandolo di un caldo profumo di sesso ed asfalto, odori di metropoli e visioni tribali.

Il Punk era uno dei generi prediletti da Flea e la sensualità funk era quasi uno stile di vita per Kiedis: questi due aspetti, uniti ad una passione sanguigna tipicamente Rock n’ Roll, scomparsa nella New Wave , permisero di forgiare qualcosa di nuovo, diverso dalle sperimentazioni dei Clash, infinitamente meno studiato ed intellettuale, spontaneo e sfuggente, influenzato da Sly & The Family Stone come dalla musica punk losangelina ed il funk degli anni ’70.

Nella sua prima formulazione il punk-funk dei Peppers non portava una veste troppo affascinante.

Il disco d’esordio è solo un surrogato del furore live espresso dal gruppo prima di ottenere un contratto discografico. I motivi principali vanno ricercati nel cambio di chitarrista, Jack Sherman invece che Hillel Slovak, e di batterista.

La formula crossover è chiara, ma probabilmente ancora troppo poco assimilata dai nuovi membri. Ciò che ne viene fuori è “The Red Hot Chili Peppers” un lavoro espressivo ma troppo poco attraente. Mancano davvero dei colpi di genio. Al contrario, la sezione ritmica dà una spinta non indifferente, che forse manca nei ritornelli, vedi “Get Up and Jump”, e nelle strutture delle canzoni che si accontentano di una soluzione di forma pressoché invariata, si tende a ripetere lo stesso schema per tutte le canzoni.

Come si può vedere, a questo disco non mancano i difetti, tuttavia il gruppo ha potenzialità ancora nascoste e qui si possono chiaramente intravedere.

Baby Appeal” ha tutta la carica demenziale dei dischi futuri, quel sapore di adolescenza, di asfalto che scorre sotto i nostri piedi mentre camminiamo in cerca di chissà cosa. “Buckle Down” affascina con un riff coinvolgente ed un funk senza fronzoli. “Green Heaven” è uno dei migliori monologhi rap di Kiedis. “Out In L.A.”, prima canzone del gruppo, è una frenetica danza metropolitana, isterica nei ritmi come sgraziata e pura nel funk. In questo senso “Police Helicopter” risulta ottima, una potente scarica di energia che pervade il gruppo e l’ascoltatore, preda di ritmi a dir poco inquieti.

Ma il vero capolavoro è “True Men Don’t Kill Coyotes”, una cavalcata del deserto che trasmette un’inquietudine difficile da ritrovare in un qualsiasi disco dei Red Hot. Un esplosione anfetaminica di terrore punk, espresso anche dal testo ricco di immagini crude. L’eco di questo zombie si protrarrà lungo i primi brani del disco, dando un effetto straniante. È la tipica canzone che vale il disco.

Complessivamente il lavoro è rispettabile, ma manca quel sussulto d’incredulità che il gruppo saprà dare ai suoi fan nei lavori futuri con il ritorno di Hillel Slovak.

Col rientro nei ranghi del chitarrista originario la musica del gruppo ritrova tutte le sue connotazioni. Il funk si espande a dismisura, grazie anche alla produzione di George Clinton, scompaiono tutte le forzature del disco d’esordio, in favore di un funk rock leggero, demenziale e spudorato, vero marchio di fabbrica della band e nicchia crossover rimasta quasi totalmente nell’ombra. “Freaky Styley” non è un disco in cui cercare soli di chitarra o melodie agrodolci, bensì un’ininterrotta trance ritmica, in cui il basso è protagonista, i fiati abbondano e la filosofia freak di due decenni prima aleggia pesantemente su tutte le tracce.

L’incipit è strepitoso; “Jungle Man” è un baccanale animalesco, ritmi tribali ed atmosfera sulfurea. Una della canzoni meno definibili di tutta la carriera del gruppo, primitiva e fulminante come poche altre. Quasi totalmente diversa è invece “Hollywood (Africa)”; un funk algido, un ritmo instancabile ed un rap ammiccante vanno a confluire in una brano dalle vedute molto aperte, ibrido e sublimale.

Con “American Ghost Dance”, Kiedis raggiunge forse il suo apice, capace com’è di costruire le trame del brano con il suo funk sensuale, unito ad un’innata dose di ironia nei timbri vocali. La cover di Sly StoneIf You Want Me to Stay” è uno dei momenti più riusciti, veramente inusuale e carismatica.

La sezione ritmica è tra le più pungenti e ben amalgamate di sempre. Il basso granitico di Flea e la chitarra singhiozzante di Slovak lavorano in antitesi supportati da ritmi ben scanditi.

Tuttavia, a conferire il quid sono “Freaky Styley” e soprattutto “Yertle The Turtle”, che suonano come lo zenit del funk rock puro. Quest’ultima è un trip acido che si sviluppa tra motivetti demenziali, fiati, sezione ritmica protagonista e la solita dose di divertimento. La title track invece pare istituzionalizzare il genere, la prova del nove per Flea, impegnato in una delle linee di basso più coinvolgenti della sua carriera. Nel suo mutare, il brano assume le caratteristiche di un vero e proprio inno all’immaturità, all’adolescenza, alla sensualità più pura. La struttura è molto originale, con il basso in primo piano e le voci in lontananza.

Nella sua totalità “Freaky Styley” è il manifesto puro del primo funk rock del gruppo. Uno dei dischi più unici del panorama del Crossover e non solo. È un lavoro che si allontana dal semplice rock per dar vita ad una musica totalmente inedita, estranea ad ogni sorta di definizione. Qui troviamo funk, punk, rap, pochissimo rock e tantissimo ritmo. Ogni brano è impeccabile, divertente e ben amalgamato. Può sembrare poco immediato, ma è solo una questione di tempo. Il primo vero capolavoro dei Peppers.

Con il ritorno di Jack Irons alla batteria, i Red Hot Chili Peppers poterono finalmente registrare un disco con la formazione originale. “The Uplift Mofo Party Plan” è un disco continuo, ben amalgamato, meno originale di prima, ma sicuramente più energico. Le distorsioni di chitarra si fanno più accentuate e centrali nel suono del gruppo, la struttura e l’immediatezza dei brani richiama più al punk rock “classico” che al funk punk tipico del gruppo. Un disco che cerca quindi un compromesso, piuttosto che seguire le sonorità nuove intuite nel disco precedente, mette a freno il funk ed i festini ubriachi di “Freaky Styley”, a favore di un muro distorto in stile funk metal, facilmente rintracciabile nella scena crossover di fine anni ‘80. Ciò che però migliora è l’impatto dei brani, a volte devastante

The Uplift Mofo Party Plan” è quindi un disco discreto, ma non oltre. Non è divertente come “Freaky Styley”, non ha l’irriverenza né la schiettezza di questo. Ma non è neanche ampio e variegato come il successivo “Mother’s Milk”. Risulta quindi una semplice via di mezzo. Un ponte tra il punk funk delle origini e il rap metal della stagione matura.

Purtroppo, la situazione di dipendenza di Slovak lo condusse fino alla morte per overdose nel 1988. Per il gruppo fu un colpo durissimo; Kiedis, anch’egli dipendente, andò in un villaggio messicano, Irons disse che non avrebbe più suonato (poi ci ripensò ed entrò nei Pearl Jam), ed i Red Hot Chili Peppers sembrarono finiti.

Fortunatamente non si arresero alla morte e trovarono un nuovo, giovane chitarrista: John Frusciante, un loro grande fan, e Chad Smith entrò nel gruppo come batterista per non andarsene più.

Higher Ground: L’esplosione mondiale

Il primo disco di questa nuova formazione, “Mother’s Milk” pubblicato nel 1989, è forse il più esuberante del gruppo, il più energico; di certo la chitarra gracidante di John fu necessaria a questo cambio di rotta verso suoni più possenti, ed anche più orecchiabili.

Nascono così divertenti pezzi dai forti lineamenti thrash metal; il riff grezzo di “Good Time Boys” è quello che più si avvicina a quel genere.

Anche l’estetica punk prende il sopravvento, ”Punk Rock Classic” ne è l’esempio, “Magic Johnson” è un buffo abbozzo hardcore unito alla forte comicità ed irruenza dei quattro; il fracasso distorto e velocissimo di “Nobody Weird Like Me” ed il folle riff di “Stone Cold Bush” sono tra i brani che si avvicinano di più al punk nell’intera carriera del gruppo.

Oltre a questi, troviamo una serie di inni, quali “Higher Ground” e “Taste The Pain”, o affascinanti fuori programma come “Sexy Mexican Maid” e “Pretty Little Ditty”, semi di un futuro melodico.

Mother’s Milk” è un lavoro diretto, spontaneo e disomogeneo. Tutto sommato, si può anche capire che il gruppo, appena rifondato, si trova immerso in varie influenze e, seppur il risultato sia molto buono, non riesce ancora a tracciare definitivamente la propria direzione artistica.

L’album rimane un calderone di energia e divertimento, un cantiere aperto per sviluppi futuri.

Prima di registrare il disco successivo, la band si dedicò brevemente alla colonna sonora di “Pretty Woman”. Il brano proposto fu “Show Me Your Soul” che, a parer di chi scrive, è uno dei capolavori più alti del gruppo. Un funk supersonico e demenziale, tra i migliori di Kiedis, intarsiato di innumerevoli colpi di genio, cambi di timbro vocale e ritmo, un ritornello tenebroso ed un finale pirotecnico. La chitarra prima gioca, poi ruggisce ed infine si lancia in un canto solitario, un estasi totale. Frusciante inizia a tessere la sua tela, che lo porterà a diventare il leader assoluto della musica del gruppo.

Successivamente i quattro si rinchiusero nella villa di Laurel Canyon per registrare quello che si preannunciava essere il loro disco definitivo. E così fu.

Fondamentale fu la produzione di Rick Rubin, che riuscì ad estrapolare totalmente il furore spaccaossa dei quattro, senza però perdere l’unicità che li contraddistingueva sin dagli esordi.

Blood Sugar Sex Magic” è riconosciuto da molti come il capolavoro della band. È innegabile l’importanza e l’influenza esercitata da questo lavoro sulla scena rock anni 90.

Ci troviamo davanti a 17 potenti tracce; si nota però la presenza di alcune dolci ballate, fatto dovuto probabilmente al sentimentalismo crescente di Kiedis che si dimostra comunque il solito ragazzaccio nei testi più piccanti.

Il metal-rap di Mother’s Milk si evolve qui in un hard-funk più smussato e meno dinamico; tuttavia la qualità dei brani è notevolmente aumentata, così come l’originalità delle parti di chitarra.

Il disco si mantiene costante su ottimi livelli; sono totalmente assenti momenti di noia o ripetitività. Nascono così pezzi martellanti come “Suck My Kiss” o “Mellowship Slinky in B Major”, pregni di tutta la sensualità funk e l’epilessia punk che contraddistingue il gruppo. Trip taglienti ed estremamente affascinanti come “Give It Away”, vero e proprio manifesto per la band; attraversata da musicalità orientali ed aspre, il brano proiettò il crossover nel mondo di MTV, rendendolo appetibile a tutti. Il brano è poi un capolavoro di chitarra elettrica.

Esplodono fragorosi i vari monumenti heavy del disco; la title track, a metà tra psichedelica e rock anni ’70, è un trip allucinogeno. “My Lovely Man” e “The Greeting Song” sono altri buonissimi episodi di rock n’ roll dinamico e urticante.

I Red Hot danno però il massimo nei brani più funky ed atipici; ”The Power Of Equality” è una delle loro composizioni più originali, riff instancabile e ritmo febbricitante, così come la splendida “If You Have To Ask”, rap da ghetto, assolo smagliante, o l’acida “Funky Monks”, così scanzonata e trascinante. Brani esaltati moltissimo dalla chitarra di Frusciante, che si fa particolarmente creativa e calcarea.

Il resto del disco si divide tra jam acustiche poco riuscite come “Breaking The Girl”, originale ma non troppo orecchiabile, pezzi discreti come “Naked In The Rain” e “Apache Rose Peacock” o originalissime suite funky come “Sir Psycho Sexy”. Da sottolineare poi, la coda psichedelica alla chitarra, che segna uno dei momenti più inaspettati e curiosi del disco. Un infinito vortice di sensazioni sfuggenti che colpisce senza pietà.

Ci sono poi due brani che si discostano dal resto; “I Could Have Lied” e “Under The Bridge”. Due confessioni intime, due dolci melodie fatate, due oasi verdeggianti in mezzo ad un deserto di suoni acidi. La chitarra qui dipinge paesaggi, ammalia come poche altre volte, commuove.

In particolare “Under The Bridge” è il brano più famoso in assoluto della band che, grazie anche ad un video particolarmente intimo ed in sintonia con la visione del mondo delle nuove band da Seattle che in quel periodo dominavano, lanciò definitivamente la band nell’olimpo della musica rock.

Un disco basilare quindi, forse meno spontaneo del precedente, ma in ogni caso fondamentale per lo sviluppo del Crossover e per la musica alternativa tutta.

Tra l’altro, la band seppe inserirsi alla perfezione nella scia del Grunge, senza cercare di emulare affannosamente i Nirvana o i Pearl Jam, bensì imponendosi come antitesi di questi e sbandierando il loro disimpegno sociale ed il loro adolescenziale senso dell’umorismo.

Tutto ciò senza mettersi in antagonismo a tali band, anzi, Kiedis e soci seppero legarsi e in un certo senso completarsi con gli esponenti del Grunge, riuscendo così ad amplificare la propria importanza.

È bello però ricordare che al di là di questi aspetti prettamente musicali, i vari membri delle band erano legati da amicizie sincere, come si può vedere in alcune foto con Cobain e Flea o anche nel testo di Tearjerker, dedicato appunto a Kurt.

Dopo la pubblicazione ed il conseguente successo mondiale di “Blood Sugar Sex Magik” i Red Hot erano ormai un icona nel mondo della musica alternativa e la loro immagine era sempre più mitica; nell’immaginario collettivo l’aspetto e le connotazioni caratteriali dei membri iniziarono ad assumere un ruolo sempre più fondamentale. Il cantante rappresentava il tipico californiano affascinante, totalmente immerso nell’ars amatoria; Flea gli si metteva in opposizione, identificandosi come il ragazzetto brutto ma scatenato e talentuoso. Qui si inseriva il carisma inusuale di Frusciante; il suo sangue scorreva quasi indistintamente dalle vene alle corde della chitarra, strumento che raccoglieva in sé l’essenza stessa del musicista e la esprimeva totalmente. L’eterno perdente con il suo copricapo peruviano che guarda la chitarra alla sua unica donna amata.

One Hot Minute: un'evoluzione difficile

Un altro fatto tragico aspettava però il gruppo; all’apice del successo John Frusciante lascia il gruppo durante il tour mondiale del 1992.

Dopo varie peripezie, fu scelto Dave Navarro come nuovo chitarrista. Egli, che aveva fatto parte dei grandi Jane’s Addiction, portava un approccio alla chitarra abbastanza distante da Frusciante, ma non totalmente avulso al contesto in cui si muoveva la band.

Rimaniamo tuttavia ben lontani delle vette di inizio decennio; seppur continuino ad essere importanti, i Peppers iniziano a perdere quel ruolo di guida dell’Alternative che avevano conquistato. Nuovi gruppi prendono lo scettro di re del Crossover, parte del quale intanto si evolve nel Nu Metal

In questo clima, uscì nel ‘95One Hot Minute” che portava con se tutti i travagli del parto e nasconde nei suoi brani il vuoto incolmabile del non sentirsi ispirati.

Musicalmente parlando, esso costituisce una brusca sterzata rispetto al lavoro del ’91; ci troviamo davanti a 13 brani abbastanza eterogenei, anzi forse troppo marcatamente frazionati tra ballate e pezzi hard rock. L’ibrido funk svanisce quasi completamente, ridisegnando completamente lo stile del gruppo. Se in alcuni casi si segue la via del pop-rock più orecchiabile ( “Aeroplane”), altrove emergono prepotentemente le potenti tracce al limite del metal, al massimo stratificato su un tessuto funk come in “Shallow Be Thy Game”. Tuttavia, solamente “Warped” ha una vera carica innovativa, nel suo turbine di voci filtrate, riff poderosi e psichedelia e si propone come uno dei migliori pezzi hard del gruppo.

I due brani che danno un senso a “One Hot Minute” sono “Deep Kick” e “Transcending”, che elevano la musica del gruppo ad un nuovo livello espressivo. La prima è autobiografica, l’inizio è un discorso lugubre, la voce profonda ci lascia in sospeso su “We keep moving..” quando entrano in gioco la chitarra prorompente e la ritmica travolgente. Il tutto si sviluppa poi in direzione di una psicotica scarica di adrenalina che ripiega in una cantilena melanconica tra pianti e rumori.

Transcending” è a mio parere il miglior brano dei Red Hot Chili Peppers in assoluto; mai i quattro hanno saputo commuovere come in questo requiem punk, l’apice emotivo della carriera del gruppo, che dicendo addio a River Phoenix forse dice addio al proprio passato, a ciò che è stato delle loro vite fino a quel momento. Il tono è molto fragile e nervoso al tempo stesso; non ci sono tracce del passato del gruppo, sembra quasi di sentire le loro anime parlare, nella dolce melodia come nello sfogo isterico finale di una violenza catartica e sincerità mai sentite prima nella loro musica.

Due canzoni che nobilitano un lavoro di vaglia, ma reso frammentario dall’eccessiva indole sperimentale e aggressiva di Navarro, che non sempre si amalgamava col telaio classico della band.

Get on top: la rinascita

Come era prevedibile, Navarro lasciò il gruppo dopo solo un disco, perché indirizzato verso vie più avant-garde che probabilmente non erano condivise da tutti i membri. L’occasione di portare il figliol prodigo Frusciante a casa fu ben sfruttata e nel 1999 i Red Hot Chili Peppers erano pronti a rilanciarsi in tutto il mondo, a distanza di 4 anni dal precedente disco, ma erano 8 anni che quella formazione non lavorava insieme..

L’innesto, seppur breve, di Navarro ebbe un effetto dirompente nel suono della band. Dopo One Hot Minute si fatica a trovare un brano che ricordi anche solo vagamente il funk metal delle origini. Si può dire che il disco del ’95 è una parentesi e al contempo uno spartiacque che divide in due la carriera del gruppo. Una volta snaturati, i Peppers non sono più riusciti a tornare quelli di prima, perdendo il sound e la qualità di un tempo.

Navarro iniziò a scalfire con i suoi ricami psichedelici quel muro che Blood Sugar aveva eretto; Frusciante lo abbatte del tutto con il suo ritorno, rivoluzionando a piacere la musica del gruppo e dettando gli umori dei brani con la sua chitarra ammiccante. Dopo lo snodo del ’95, con il disco del ’99 inizia una vera e propria Nuova Era per i Peppers caratterizzata da un enorme successo commerciale, da folle adoranti ai concerti, grandi ascolti su MTV ma anche da un notevole calo qualitativo.

Californication” è un disco di semplici ballate rock, con qualche spunto elettrico pregevole e solo alcuni tentativi mal riusciti di recuperare il funk-rock del passato. L’eccezione è l’opening track: “Around The World” ci scaraventa come un tornado nel vecchio mondo, con un appeal orecchiabile ormai consolidato. Si prosegue bene con il rock di “Parallele Universe”, melodico e tirato quanto basta.

Dopo un incipit niente male ci troviamo davanti alla novità del lavoro; le ballate. “Scar Tissue”, dai toni agrodolci, è la nuova superhit del gruppo, apprezzabile anche se poco originale. “Otherside”, altra buonissima ballata, tende verso suoni più ombreggiati ed evocativi. La title track dipinge il mondo in cui vivono i quattro, coronata dalla chitarra soffusa e dai suoni vellutati.

In mezzo ci troviamo “Get On Top”, brano mediocre, che a tratti risulta demenziale nel suo tentare di riproporre il funk. Arrivano poi le vere perle del disco; “Easily” è un rock abrasivo ed evocativo; “Emit Remmus”, brano che si distacca molto dagli altri, è forse il migliore; melodia vacua, refrain aggressivo e chitarra brillante. Se “Porcelain” e “I Like Dirt” non fanno altro che annoiare, “Savior” propone sonorità interessanti e “This Velvet Glove” regala uno dei ritornelli più riusciti, nonché una commistione del tutto nuova di funk rock melodico.

Purple Stain” ha ragione di esistere unicamente per il finale di batteria, “Right On Time” è un funk veloce, ma sa di plastica. Il finale è inaspettato e strabiliante; “Road Trippin”, una confessione recitata a ritmo di chitarra e archi; un brano dall’intimità totale.

Californication” è il best seller assoluto dei RHCP, spesso giudicato come un capolavoro quando in realtà è solo un disco orecchiabile, con buoni pezzi rock e alcune cadute di stile.

Resta un lavoro discreto, che si impone come capostipite del nuovo corso dei Chilis, l’era di Frusciante dominatore.

By The Way” viene pubblicato a tre anni dal grandissimo successo di vendite che fu “Californication”. La prima cosa che si nota ascoltandolo è che il gruppo si proietta maggiormente verso il grande pubblico; smussa gli angoli e spiana tutto ad un livello abbastanza basso.

I pochissimi accenni di funk rock migliorano lievemente la qualità scadente saggiata nel disco del ’99. La title track e “Can’t Stop” sono due brani preparati a tavolino, equilibrati quanto poco sapidi. Brani fatti per impattare con il maggior numero di ascoltatori possibili; bisogna però ammettere che ci riescono molto bene. Il disco si sviluppa in modo alquanto deludente; le schitarrate di “Universally Speaking” annoiano non poco, “This Is The Place” è un brano senza mordente, “Dosed” una cantilena mielosa, degna di esistere solo per il dolce intreccio di chitarre.

Non sono brani orrendi, ma siamo ben lontani dagli standard della band.

Nel finale troviamo la miglior canzone del disco; “Venice Queen” parte nell’oscurità, con Frusciante che dà un tocco magico alla chitarra, ed esplode improvvisamente in un suggestivo climax folk; quest’ultimo gioiello dimostra quanto il gruppo sia capace di stupire ancora, ma si mostri ormai troppo auto-indulgente ed appagato per aver la voglia di lavorare seriamente.

By The Way” è forse il primo vero passo falso della band, in buona parte fastidioso e sonnolento.

Il lavoro del 2002 è seguito da un triste Greatest Hits nel 2003, con due dozzinali inediti e “Live In Hyde Park” nel 2004, un discreto prodotto che attesta ancora una volta la vitalità del gruppo; vitalità suggerita anche dalle buonissime b-sides comparse nei vari singoli del 2002. “Time”, “Quixoticelixer” e “Body Of Water” sono brani notevoli, di qualità nettamente superiore rispetto alle tracce di “By The Way”, che appare sempre più un disco mal prodotto e mal concepito, più che un segno di declino.

Arrivati a metà decennio, è ormai chiaro che i Chilis hanno cambiato stile, o meglio, hanno cambiato la finalità per cui fanno musica. Se prima la musica era un modo per liberarli dai loro problemi ed incubi (Hillel Slovak morto nel ’88), adesso non è nient’altro che un lavoro. Ma questa non è una novità. È dal ’99 che i RHCP non fanno più funk come si deve ed hanno una forte attitudine popolare. Chi parla di “By the Way” come la loro svolta commerciale si dimostra incompetente e disinformato.

Nel 2006 esce “Stadium Arcadium” e non si può negare che i Peppers abbiano messo tanta carne al fuoco.

Se “Californication” era un altalena di pezzi gradevoli e altri un po’ artificiosi e forzati, il disco del 2006 si presenta come una grande giostra in cui non si scende mai troppo in basso, ma non si tocca nemmeno il cielo. È una sorta di breviario dei Red Hot. Il loro testamento, forse.

Non mancano certo le ballate pop tipiche degli ultimi lavori, ma anche le canzoni mano coinvolgenti sono risollevate, almeno in parte, dalla splendida chitarra di John Frusciante, che vivacizza il tutto..

A fianco di queste canzoni tipiche dell’ultimo corso del gruppo ci sono altri pezzi in stile funk rock ripulito, ma comunque buon funk dai ritmi irresistibili.

Charlie”, “Hump De Bump”, “She’s Only 18 ” , “Warlocks”, “So Much I”, “21st Century”, “Turn It Again” sono molto meglio della maggioranza dei loro brani funk dal ’95 ad oggi. E non è poco.

Ma non solo; oltre ad infarcire il doppio di pezzi rock-pop, i Peppers si concedono anche qualche canzone di rock duro come “Torture Me”, “Readymade” e “Storm in a Teacup”, dimostrandosi ancora all’altezza.

C’è la forte influenza di Frusciante con il suo rock psichico ; “Stadium Arcadium” e “Especially In Michigan” sono gli episodi che lo mettono maggiormente in evidenza, con qualche richiamo non troppo velato a grandi gruppi del passato.

Le canzoni più belle le troviamo però quando i RHCP non pensano a ciò che stanno facendo e suonano per come sono ispirati; “Snow”, “Slow Cheetah”, “Desecration Smile”, “Death of a Martian” sono tutti pezzi intrisi di una vacuità estrema, difficili da classificare.

Wet Sand” è forse il miglior pezzo del doppio. Una ballata, dolce come la brezza, ma anche scottante come il sole d’estate. E’ un manifesto per il gruppo; il punto di arrivo di una ricerca partita nel ’99. La perfetta sintesi del nuovo corso Frusciantesco; la sua chitarra, nel solo finale, pare che gridi catartica sotto la pioggia estiva.

In conclusione, un lavoro più che sufficiente; qua e là troviamo delle mele marce, ma sono episodi sporadici. Il gruppo ha deciso di intraprendere una nuova strada nel ’99, questo disco non cambia direzione; semplicemente la band si ricorda di avere un passato e finalmente si decide ad onorarlo. Non ci sono pezzi orrendi, ma sono pochi anche i pezzi davvero stupendi. Piuttosto si opta per uno standard medio, in cui la chitarra regna sovrana ed i refrain sono sempre orecchiabili (anche troppo a volte).

Stadium Arcadium” è un disco che suona bene e che dimostra l’impegno del gruppo; per una band con più di venti anni di carriera alle spalle non è affatto un cattivo risultato.

Ed ora, cosa ci riserberanno i Peppers per il futuro? Saranno capaci di rinnovarsi nuovamente o si adageranno, paghi dei loro successi? Beh, analizzando la loro epopea, continuamente in mutamento, c’è da essere fiduciosi.

Per approfondire: http://www.storiadellamusica.it

C Commenti

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DonJunio alle 0:27 del 18 aprile 2007 ha scritto:

THEY' RE RED HOT

Ottimo lavoro, difficile trovare in rete in italiano una monografia tanto esaustiva sui Peppers. Avrei personalmente dato piu' importnaza a "Mother's milk", che reputo opera praticamente perfetta, a mio avviso persino superiore a "Blood Sugar sex magik", rispetto al quale il crossover è certamente più potente e tirato a lucido, benché forse meno variegato. "Taste the pain" è uno dei loro brani migliori in assoluto in tal senso ( occhio al tiro fiatistico e soul della coda!), "Stone cold bush" presenta forse il miglior assolo di Frusciante in assoluto, mentre Flea suona ovunque da DIO! Oggi sono diventati un fenomeno da baraccone, ma erano davvero dei grandi.....

ozzy(d) alle 11:17 del 20 aprile 2007 ha scritto:

red hot

hai fatto un bel lavoro, anche se per me hai dato troppo spazio agli ultimi album, che davvero non hanno aggiunto nulla da un punto di vista prettamente artistico.......

Marco_Biasio alle 20:31 del 7 maggio 2007 ha scritto:

Niente male

Ottima monografia davvero, competente, appassionata e sentita (in parole povere: si vede che sei un loro fan). Sono in disaccordo, tuttavia, con il giudizio entusiastico che dai a Californication... per me, i Peperoncini sono morti con One Hot Minute.