A Ronin + Putiferio + Quasiviri @ Curtarock, 20/07/2012

Ronin + Putiferio + Quasiviri @ Curtarock, 20/07/2012

Si muove una volta all’anno, il Curtarock, in una provincia avvolta dalle nubi e costruita sui gas di scarico, oasi di festa e comunità tra stabilimenti industriali in piena funzione e lo stupro della campagna veneta come scenografia mobile e metamorfica. Si muove, però, e quando lo fa si comporta con il piglio del grande festival e la caparbia del provinciale che non ha nulla da perdere: zero compromessi e dritti per la strada che si è scelti, più di dieci anni fa. La strada, non occorre star qui a sottolinearlo, è ovviamente quella giusta. Come potrebbe essere altrimenti quando, in un venerdì sera dimenticato da Dio e dai servizi pubblici, in una città che sbadiglia lontana, criogenizzata in una tomba di asfalto rovente che altro non attende se non il sorgere della mattina dopo, marcia un terzetto perfetto, un triangolo equilatero i cui cateti si chiamano Quasiviri, Putiferio e Ronin? La gente, aldilà di tutti i luoghi comuni, è stupida fino ad un certo punto. E apprezza. Ingresso gratuito, prezzi popolari, tanta cortesia e disponibilità, un senso di calore che non ho ancora mai sentito equiparato altrove: non stiamo parlando di perfezione, ma la perfezione, si sa, è noiosa, e la noia si cancella da sé, dalla prima all’ultima nota.

Aprono i Quasiviri, intorno alle 22, in un palchetto striminzito che sarebbe il sogno di qualsiasi adolescente feticista della bassa fedeltà. Trio italo-canadese, basso tastiere e batteria, i vari membri già comparsi un po’ qua e un po’ là (e meno male che internet c’è, per approfondire s’intende), da qualche mese arrivato ad un EP, “Freak Of Nature”, che segue di tre anni l’esordio “The Mutant Affair”. Questa la forma. La sostanza dice di uno show esteriormente ed interiormente dada, un coacervo di gorgoglianti pastiche synth-prog tirati a lucido e aguzzati al collasso rock, bassi profondi e modelli ritmici che sviano quanto si crea di futuribile per assoggettarlo alle impietose leggi della matematica. Volete sapere una cosa? Funziona, eccome se funziona. In primis, per la bravura dei musicisti nel patinare di paradossale, di autoironico, a tratti di slapstick un’esibizione che sminuzza Goblin, voluto stereotipo punk (con la rincorsa agli spettatori divertiti al posto del crowd surfing), falsetti stranianti, tracimante esuberanza geometrica e sprezzo della consuetudine. A Roberto Rizzo probabilmente donerebbe la pupilla vitrea e pantagruelica che nasconde i Residents al resto del mondo: ma bisogna ammettere che anche così, synth a tracolla, occhialini alla Guidobaldo Maria Riccardelli, canottiera smanicata e fascia ginnica in testa, fa la sua degna figura. Tempo mezz’ora e quel che si è sentito ha già lasciato il segno. L’intelligenza ben dissimulata è affare per pochi e buoni.

Sul palco dello Sherwood Festival (!), appena un mese fa, in apertura per Il Teatro Degli Orrori, eclissarono il quartetto capitanato da Pierpaolo Capovilla con una prova impeccabile, una lunga ombra di furia, tormento e precisione balistica. Trentaquattro giorni dopo, la conferma: i Putiferio sono tra i live act più micidiali ed appaganti che l’ascoltatore italiano, oggi, potrebbe chiedere a sé stesso. Nessuna parola e nessun sorriso in apertura, un torrente impervio di suono canalizzato in riff mutevoli e cangianti, un concentrato di potenza suprema e fantasia nevrastenica. “Ciao a tutti, noi siamo…”, esordisce Panda, e il fulmine post-core di “Amazing Disgrace” si abbatte sulla folla. Come dire: nomen omen. “Lov Lov Lov”, capitolo secondo della loro avventura e cuginetto bastardo di “Ate Ate Ate” (2008), non è un disco eccezionale, ma è sicuramente complesso, multiforme, stratificato: difficile, in una parola, da riprodurre. I quattro ragazzi di Padova lo fanno al meglio: senso dello spazio e della misura, inserimenti letali, canzone stirata al limite del teatro performativo (i singulti di “Void Void Void” sono sempre eccezionali…), frenate e ripartenze – il delirio ritmico stemperato in impennate doom della conclusiva “True Evil Black Medal” – ed un coraggio innato nel rileggere a proprio piacimento la tradizione, loro che tradizione lo sono sicuramente, e nemmeno nel piccolo. “Can’t Stop The Dance You Chicken” amplifica lo scoglio danzereccio del post-punk di base, veicolando le chitarre in un tunnel noise che esplode in tutto il suo furore psicolabile in “Hopileptic!”, per poi ricomporsi magistralmente in un costruire e distruggere quasi prog per accumulo ed ascensione. L'imperativo, al tacere degli strumenti, è rivederli, rivederli, rivederli.

Infine le superstar della serata, i Ronin, musicisti campioni sul palco, campioni nella vita. Tantissima, quasi palpabile la curiosità attorno a Bruno Dorella e Nicola Ratti alle chitarre, Chet Martino al basso (già visto in apertura coi Quasiviri) ed uno straordinario Paolo Mongardi (Zeus!, Fuzz Orchestra, che pure hanno suonato in questa edizione del Curtarock, mercoledì) dietro le pelli. Se “Jambiya”, astuto gancio d’apertura, scatena l’entusiasmo e fa sognare Sergio Leone anche a chi non ha mai visto un saloon in vita sua (buona la scelta, in assenza del tocco superbo di Enrico Gabrielli, di riarrangiare il brano secondo tracciati ieratici), il resto del concerto, che si disvela tramite una superba padronanza melodica ed un controllo invidiabile delle notevoli individualità, non è da meno. Bene precisare che i Ronin non sono “quelli del western” e nemmeno ammiratori parossistici del tarantinismo. Surf e paramenti insozzati di polvere compaiono, è vero, a più riprese, ma tanto altro emerge in un’ora che potrebbe durare, fattivamente, per sempre: melanconia per dagherrotipi color seppia in crescendo (“Fenice”), cavalcate lusitane che esplodono in segmenti quasi stoner (“Benevento”, dal vivo, mette i brividi), slow-core immobile ed imperturbabile (“Selce”), rumorosi tam tam tribali dispensati su elettricità satura ed acida (“Nord”), swing dal taglio sbarazzino (“Gentlemen Only”), patchanka da giocolieri (“Venga La Guerra”), amarcord etnici che si confondono con le striature del cielo sovrastante (“Ronin Theme”), giochi di armonici e sovrastrutture dissonanti che, dal vivo, ricordano le spirali dei King Crimson anni ‘80 (“Spade”, la migliore del lotto), bottleneck e pause descrittive, acustica e muscoli, cuore e passione.

Quando Bruno Dorella si ferma, a metà concerto, esprimendo la sua ammirazione per un giovane microcosmo di ascoltatori e fruitori materiali dato ormai per disperso, e come tale trattato (o, il che è peggio, non considerato), la sua meraviglia è anche la nostra. Potere della musica. Spending review e fiscal compact potranno uccidere l’esteriorità, ma non intaccare l’anima: la consapevolezza di questa forza collettiva è, oggi, la nostra vittoria imperitura più grande.

Per approfondire: http://www.curtarock.it

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