Sparks @ Vooruit, Gent, 19/10/2012
Guardando fuori dallaereo me lo chiedevo, e dai finestrini della corriera che attraversava lultimo lembo vallone, e dal treno che bucava la campagna fiamminga solo un poco ondulata tra Bruxelles e Gent, e sbarcato in questa vecchia (splendida) città, nella sua fiumana di studenti universitari e nel cielo basso che si specchiava nei canali, nei ricordi intrecciati alla piccola parte di vita che ho vissuto tra queste guglie gotiche: cosa sono stati gli Sparks? E mi rendevo conto, chiedendomelo, che per me erano stati tantissimo. La scoperta a 14 anni, il bisogno di risalire a ritroso lungo una carriera lunga già allora un quarto di secolo (ora sono 43 anni), la rivelazione di una band geniale ed eccentrica, bisognosa di essere scentrata, border-line ma assieme pop, e sempre terribilmente imbarazzante. Il bisogno di ascoltarli, nella loro intelligentissima illogicità, per uscire dai momenti sfortunati. Lidentificazione con la loro trasgressione colorata, apparentemente idiota ma culturale nel profondo. Fino alla progressiva presa di coscienza che non solo per me gli Sparks sono stati tanto. La loro parte nella storia della musica ce lhanno. E non scarsa. E non solo perché Morrissey ha confessato di aver iniziato a suonare dopo aver ascoltato Kimono My House.
Cè stato un tempo, una dozzina di anni fa, in cui passavo intere giornate a casa di Giulio a cazzeggiare. Suonavamo, ascoltavamo musica, parlavamo di Epicuro, giocavamo agli acrostici online (il nostro apice: TBCF risolto con una Thin Boys Can Fly che decidemmo sarebbe stato il nome della nostra successiva band, magri entrambi come eravamo). Lui cercava di appassionarmi ai Manowar. A me facevano cagare, e gli davo del fascista. Io cercavo di appassionarlo ai Pet Shop Boys e agli Sparks. A lui facevano cagare, e mi dava del frocio. Ogni tanto nella stanza entrava suo fratello, che aveva 17 anni e odiava tutto ciò che amava suo fratello. Gli Sparks, in lui, fecero subito breccia. Così quando ci siamo rivisti a settembre me lha detto, come ce lo diciamo sempre: «Checco, gli Sparks sono dei geni». Al che io: «Sì, Fausto, e sono vecchi. E in autunno vengono in tour in Europa». Lunica domanda, a quel punto, è stata: quale data scegliamo?
Two Hands, One Mouth si chiama il breve tour che stanno portando in giro per il vecchio continente i fratelli Mael. Le due mani di Ron (67 anni e dimostrarli da quando ne aveva 25) sulla tastiera, la voce pazzesca di Russell (64 anni e mostrarne 25 ancora adesso) a ricamarci sopra. Un tour in solitario. Per celebrarsi e raccogliere qualche soldo in vista di quel film che stanno inseguendo da quando si sono formati, come Halfnelson, nel 1969. Stavolta pare che il film si faccia. Good luck.
Al bellissimo edificio liberty del Vooruit io e Fausto ci arriviamo carburatissimi attorno alle nove e mezza. Lui arriva da Berlino. Alle 4 era in un club techno e alle 6 gli partiva laereo per Bruxelles. Non dorme da un paio di giorni. Il pomeriggio labbiamo passato a bere birre belghe in un pub di Vrijdagmarkt. Dura scegliere nella lista di circa 150 birre. Decidiamo di sperimentare e adoperare la guida del caso. Menzione per: la Delirium Nocturnum (versione scura della Delirium Tremens, col simbolo di un elefante rosa: eccellente), la Piraat (legnosa ed erbosa: birra e amaro assieme), la St. Bernardus tripla (il trappismo che emoziona), la birra della casa (servita in un bicchiere lungo circa mezzo metro, per avere il quale bisogna dare in pegno una propria scarpa) (i belgi sono molto più sbroccati di quanto possa sembrare), la Orval (ci sono le bionde, le rosse, le scure, e poi la Orval). Meno interessante la Guillotine. Che però ha un bicchiere paurosamente figo. Mentre proseguiamo la degustazione arriva persino una troupe televisiva tedesca, che ci chiede di spostarci al bancone e di fare da figuranti per qualche ripresa. Ovviamente accettiamo. Se qualcuno prende la tv tedesca e vede due sbronzi visibilmente italiani di cui uno senza una scarpa, siamo noi.
Al Vooruit ci arriviamo dopo un kebab di merda e un paio di Duvel. Dentro mi viene in mente quanto mi diceva Giulio dopo che gli facevo ascoltare gli Sparks. Non solo siamo i più giovani. Ma siamo anche tra i pochi straight del locale. Siamo anche, senza dubbio, i più molesti. Ho sempre odiato, ai concerti, i molesti. Quelli che cantano tutto anche quando ignorano le parole, quelli che saltano, che urlano bestemmiando in modo gratuito, che ballano a cazzo. Ecco, io e Fausto venerdì eravamo così. E non ci siamo odiati. Ron e Russell entrano verso le undici. Ed è già emozione. Ron suona una Roland su cui ha invertito la enne e la elle. Quindi suona una Ronald. E se già lo amavamo, ora sfioriamo ladorazione. Russell porta giacca e pinocchietti, con calzini a strisce orizzontali grigio-neri. Stima somma. Anche perché mantiene una voce spettacolare, che elargirà anche attraverso i consueti falsetti durante lora abbondante di concerto.
Che non è un concerto come gli altri, ovvio. Inutile discettare su questioni tecniche. Two hands, one mouth: uno suona la tastiera, laltro canta. Niente beat (lhanno professato loro, daltronde, su Lil Beethoven: «say goodbye to the beat»). Niente svolazzi. Pescano un po da tutti i dischi, spesso scorciando i pezzi. Ron esordisce con un medley strumentale che riassume in un paio di minuti una dozzina di brani. Bastano pochissime note, e le senti tutte, le canzoni, le riconosci, lungo la sfilza di 22 album. La resa su tastiera appiattisce inevitabilmente lattraversamento sconsiderato di generi, dal glam rock al synth pop, che si sperimenta ascoltando i dischi. A spiccare è il fil rouge di uno stile compositivo ormai inconfondibile, barocco e operistico, arrampicato su un continuo carnevale di note.
La scaletta completa è sotto. Qua basterà accennare allesaltazione mistica dellabbinata Never Turn Your Back On Mother Earth/This Town Aint Big Enough For Both Of Us e allesaltazione sintetica di quella Number One Song In Heaven/Beat the Clock. Quando Russell canta «Dinner fot twelve is now dinner for ten, cause Im under the table with her» credo di essere lievitato per qualche secondo. Le cose del periodo Kimono/Propaganda non sono tantissime, ma bruciano tutte: At Home, At Work, At Play è un capolavoro tuttora incomprensibile e inascoltabile con uno sconosciuto accanto. Turba, proprio. Il materiale dal più recente periodo classical pop rende ottimamente in queste vesti spoglie.
Il pubblico è entusiasta, ma mantiene lentusiasmo in forme nordiche, attempate e statiche. Io e Fausto no. Siamo molesti e contenti, nel pieno di una glorificazione dirompente. Nella versione bear lomosessuale cinquantenne è inaffrontabile fisicamente. Cerchiamo di avanzare dalla nostra quarta fila, ma ci rimandano indietro in malo modo, magri come siamo. Facciamo gli occhi dolci. Niente. Solo per Beat the Clock Fausto fa breccia («its my song, please!»), e così riusciamo a goderci a due metri di distanza il momento clou della serata (e del tour intero, immagino, visto che non è successa altrove).
Ron, fino a lì sempre impassibile, come da copione ormai ultraquarantennale, esce dalla sua postazione, si prende gli applausi e intanto si slaccia i bottoni della t-shirt nera. Poi leccitamento da palco ha il sopravvento. Si toglie la maglietta, resta a petto nudo e riproduce il balletto del video di When Do I Get To Sing My Way. Ron ha 67 anni. Non è Iggy Pop. È gobbo. È brutto da vedere. Ma mentre balla e poi fa due salti per il palco scompigliandosi i capelli tinti, è unimmagine di felicità commovente. Dopo 30 secondi il suo magico annebbiamento finisce: resosi conto di quanto è successo, cerca qualcosa con cui coprirsi, colpito da improvvisa vergogna. Riesce a trovare un asciugamano e finisce il concerto cercando di nascondere ogni lembo di pelle, mentre Russell prega di non mettere le immagini su youtube (his body is copyrighted!). Per ora le immagini non ci sono, anche se i presenti al concerto le chiedono con forza.
Fuori dal Vooruit io e Fausto siamo fradici. Stiamo chiacchierando con una lesbica olandese, mentre ci passano accanto Ron e Russell, pronti a salire su un taxi. La nostra molestia non ha fine. Ci avviciniamo, gli stringiamo le mani, ci complimentiamo, mostriamo il loro autografo che nel 2000 eravamo riusciti a farci spedire da una fan tedesca. E poi, forse memore di Morrissey, Fausto prega (religiosamente, direi) Ron: «If Ive started playing music, its because of you. Please bless me».
Glielo devo ancora chiedere, a Fausto, come gli sia venuto in mente di chiedere a Ron di benedirlo. Anche in aereo, al ritorno, non ne avevo il coraggio. Mi sembrava di essere troppo invasivo, e di rompere un patto intimissimo, che domandava di non essere indagato. Ma la scena di Ron che, con le sue enormi mani (quelle two hands), facendo un movimento dallalto al basso da vero sciamano, dice a Fausto «I bless you, I bless you, my son» rimarrà impressa nella mia memoria per sempre, scolpita come una delle acqueforti che rifanno le linee gotiche di queste case e dei loro tetti spioventi in ardesia. Poi Gent è una notte piuttosto assurda, trascinata fino quasi a mattino, è incerto dove.
I Thin Boys Can Fly non si sono mai formati. Non so se Fausto sfonderà mai con i suoi mix. Eppure, anche se per poco, quando siamo in compagnia di Ron e Russell, le nostre vite sono un po diverse.
E voi? Avete mai sentito parlare di una band che si chiama Sparks?
Hospitality on Parade
Metaphor
Propaganda
At Home, At Work, At Play
Sherlock Holmes
Good Morning
Under the Table With Her
My Babys Taking Me Home
Singing in the Shower
The Seduction of Ingmar Bergman
Dick Around
Never Turn Your Back On Mother Earth
This Town Aint Big Enough For Both Of Us
The Rhythm Thief
Suburban Homeboy
When Do I Get To Sing My Way
Number One Song In Heaven (Part I)
Beat the Clock
Two Hands One Mouth
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