A Sufjan Stevens e la Luna

Sufjan Stevens e la Luna

Sufjan Stevens live - Teatro della Luna (Assago) - 21 Settembre 2015

Nelle osterie di una volta quando volevano rifilarti un vino vecchio ti servivano una serie di antipasti a base di finocchio. Questo perchè il finocchio ha la capacità di alterare la percezione del gusto, e in particolare di mascherare il sapore dell'aceto. La vita, invece, così come il Destino o Dio, non ha nessun interesse ad infinocchiarti. Se il vino sa di aceto, te lo serve così com'è. E se decide che è il momento di darti uno schiaffo o di farti colpire da un meteorite, non si preoccupa di avvisarti per tempo. Il mio amico questa mattina ha ricevuto uno schiaffo pesante come un meteorite: tornato a casa dal lavoro, ha trovato un biglietto attaccato al frigorifero in cui sua moglie lo salutava per sempre. Mentre mi racconta i dettagli lungo una Torino-Milano stranamente deserta, i suoi occhi si gonfiano di lacrime e le sua fronte si aggrotta per la rabbia. C'è sconforto e rassegnazione nelle sue parole, c'è la sensazione di aver subito un lutto, di essere vittima di una di quelle tragedie che ti cambiano la vita per sempre. Non mi sono offerto io di accompagnarlo a vedere il suo cantante preferito, e lui non ha avuto bisogno di chiedermelo. Il biglietto d'ingresso di sua moglie è diventato il mio, anche se non è con me che cantava mentre preparava la cena o mentre sua moglie lavava i piatti. "Cantavamo sempre queste canzoni, con lo stereo a tutto volume" - racconta - "parlano di amore, famiglia, citano la Bibbia, raccontano storie di città e personaggi bizzarri. Mia moglie diceva che Sufjan Stevens era una specie di angelo, o un alieno particolarmente umano".

Entriamo nel Teatro della Luna e mentre cerchiamo i nostri posti a sedere la luce si spegne immergendo il pubblico in un buio denso e profondo. Sufjan Stevens è già dietro il pianoforte. Pochi minuti dopo sta cantando una canzone folk leggera come una piuma, accompagnando con un fingerpicking elegante e preciso il suo falsetto rotto dall'emozione. La canzone dice qualcosa sul "perdonare la madre", mentre in quella successiva cita esplicitamente l'Oregon, sua madre che lo abbandona da bambino in una videoteca e suo fratello che ha avuto una figlia che è "un'illuminazione". Parla di sè stesso Sufjan Stevens, e anche se io lo conosco pochissimo capisco che in quelle note e in quei versi si sta esponendo senza alcuna mediazione. La sua voce, accompagnata dal moog, dal pianoforte, dall'ukulele, dalle chitarre di Casey Faoubert e dalla splendida voce di Dawn Landes, si increspa su tonalità altissime, prende note dalla pancia e le trasporta fino alla testa, esprime dolore e racconta il lutto con compostezza. Le persone in sala sono rapite, assorte più nella condivisione dei sentimenti che nell'ascolto della musica. Mentre Stevens, con il suo maglione nero e il suo fisico da ragazzone americano in piena salute, intona una canzone dedicata alla città di "Eugene" ("Che senso ha cantare canzoni/Se non potranno mai sentirti?"), io mi distraggo osservando una coppia seduta davanti a me che discute sottovoce. Lei si strofina le mani sulla faccia con fare nervoso, mentre lui parla senza sosta da alcuni minuti. Sufjan Stevens, intanto, non ha ancora accennato un sorriso e continua ad alternare le sue canzoni folk in un crescendo fatto di piccole esplosioni sinfoniche, armonizzazioni vocali sublimi e timidi accenti ritmici. Chiede aiuto a Gesù  ("Gesù, ho bisogno di te, stammi vicino, proteggimi / Dai fossili che mi cadono sulla testa / Esiste solo la mia ombra: In un certo senso, sono morto"), parla di salvezza e fede, di amore e morte ("Mi importa qualcosa sopravvivere? I morti vengono seppelliti dove vengono trovati / Sotto un velo di enormi sorprese; mi chiedo, mi hai mai voluto bene?"). Io sono ormai completamente dentro quella musica celestiale,seguo l'alternarsi dei cinque musicisti sul palco alle prese con chitarre, tastiere, percussioni e sintetizzatori, eppure non riesco a smettere di osservare il pubblico che ascolta estasiato: in quarta fila c'è una ragazza che piange impugnando un registratore, accanto c'è sua madre che la abbraccia. Anche a lei, penso, la vita avrà appena dato uno dei suoi schiaffi improvvisi. A pochi centimetri da me, invece, i due ragazzi continuano a litigare senza controllo. Le persone intorno a loro sono visibilmente infastidite, e dalla mia posizione la loro discussione quasi mi impedisce di ascoltare Sufjan Stevens e Dawn Landes che ripetono in coro "moriremo tutti" in una canzone che cita il quattro Luglio. Decido di sporgermi in avanti e porre fine alla loro maleducazione: "scusate ragazzi, è come se qualcuno avesse lasciato la radio accessa durante la Messa. Non è che potete andare a discutere fuori?". Quando Sufjan Stevens riottiene la mia piena attenzione, sta accennando alcuni goffi passi di danza sulle note elettroniche di una canzone che è una riflessione sui dilemmi religiosi del suo autore ("Sufjan, segui il tuo cuore, segui la fiamma o cadi per terra") per poi completare il set dedicato alla morte della madre con una lunga scia strumentale a metà tra il kraut-rock spaziale degli anni '70 e il post-rock emotivo di epoca più recente. Un'ora e mezza di musica commovente durante la quale sul palco (e forse anche in platea) nessuno ha osato accennare un sorriso, un ringraziamento o anche solo un breve saluto.

Durante la pausa gli spettatori sembrano uscire da uno stato di apnea, la ragazza in quarta fila ha smesso di piangere e ha riposto il registratore nella borsa della madre, il giovane davanti a me ne approfitta per raggiungere l'uscita dando un ultimo bacio sulla guancia della sua fidanzata. Anche il mio amico, che non ha mai spostato lo sguardo dal palcoscenico, sembra sorridere. Sufjan Stevens e i suoi quattro angeli polistrumentisti rientrano in scena dopo pochi minuti. Adesso lui indossa una camicia di flanella sopra la maglia nera e un buffo cappello da baseball giallo. Sorride anche lui e, finalmente, parla. Si scusa per la tristezza contenuta nei brani appena eseguiti ed esprime la sua gratitudine per aver condiviso delle sensazioni così profonde e dirette. In effetti, l'impressione è che sia un musicista che riceve dal pubblico quasi più di quanto riesca a dare, che viva la musica come momento di catarsi, di scambio e di riflessione. Durante i bis usa alcune vecchie canzoni come forma di ringraziamento per il pubblico: esegue al pianoforte una splendida versione di " Concerning the UFO Sighting Near Highland, Illinois", poi affida il banjo ad uno dei suoi musicisti e continua con "For the Widows in Paradise, For the Fatherless in Ypsilanti". L'atmosfera è molto più rilassata, il palco è completamente illuminato ma io, improvvisamente, mi sento in colpa. Durante la delizia acustica di "The Dress Looks Nice To You" penso al mio amico e al suo matrimonio finito, mi preoccupo per le sorti di questa ragazza che ho davanti improvvisamente rimasta sola. Mi dispiace soprattutto aver interrotto la loro discussione, penso che avrebbe potuto ricucire, mettere insieme i pezzi. Immagino che la musica di Sufjan Stevens avrebbe potuto salvarli dagli schiaffi della vita. Intanto questo alieno venuto dallo spazio a portare umanità tra gli uomini chiude il suo capolavoro sorridendo sul trombone malinconico di "Casimir Pulaski Day" e su una versione acustica e pacificata di "Chicago" cantanta in coppia con quello scricciolo di Basia Bulat.

Fuori dal Teatro della Luna raggiungiamo la nostra auto in un parcheggio immerso nel buio. Dall'alto, ci osserva una Luna enorme che emana una strana luce arancione. E' in corso una rara eclissi che colora di rosso la superficie lunare. La chiamano "Luna di Sangue". E sotto quella luce rugginosa vedo passare la ragazza della quarta fila che ride alle battute di sua madre, e anche il giovane innamorato, il quale si avvicina a testa bassa, si scusa e ci offre una sigaretta. Io e il mio amico abbiamo smesso di fumare da tempo, eppure accettiamo senza esitare. Ci ritroviamo in tre, a sbuffare fumo bianco contro quella Luna cremisi che illumina lacrime e sorrisi, e ci ricorda che guardando il cielo si può trovare un po' di luce anche durante la notte più buia.

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Set List:

1. Redford (For Yia-Yia & Pappou)

2. Death With Dignity

3. Should Have Known Better

4. Drawn to the Blood

5. Eugene

6. John My Beloved

7. The Only Thing

8. Fourth of July

9. No Shade in the Shadow of the Cross

10. Carrie & Lowell

11. All of Me Wants All of You

12. The Owl and the Tanager

13. Vesuvius

14. Blue Bucket of Gold

15. Concerning the UFO Sighting Near Highland, Illinois

16. For the Widows in Paradise, For the Fatherless in Ypsilanti

17. The Dress Looks Nice To You

18. Casimir Pulaski Day

19. Chicago

C Commenti

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gull alle 19:02 del 23 settembre 2015 ha scritto:

Bellissimo racconto! Mi chiedo sempre quando ti leggo se sei tu che romanzi le storie o se invece offri un resoconto puntuale di quello che ti accade.

Marco_Biasio alle 22:15 del 23 settembre 2015 ha scritto:

Mi hai fatto sentire lì, con voi. Grazie.

fabfabfab, autore, alle 17:44 del 24 settembre 2015 ha scritto:

Marco, il giorno in cui incontrerò anche a te avrò fatto il giro completo.

A proposito di "essere lì", questa la dedico a Vito aka Sor90.

fabfabfab, autore, alle 17:51 del 24 settembre 2015 ha scritto:

JJlG1m4053Q (youtube)

Sor90 alle 20:05 del 29 settembre 2015 ha scritto:

Grazie Fab, sono a metà fra lo sfanculamento e l'apprezzamento

hiperwlt alle 20:42 del 24 settembre 2015 ha scritto:

Magnifico report-fiction, Fabio

Primo blocco del concerto un flusso ipnotico, è stato celebrato "Carrie & Lowell" (la morte, la vita) in un limbo di estremo dolore ed estrema gioia. Climax e code strumentali potentissime: "Fourth of July" indescrivibile. Notevoli anche i momenti in cui ha immesso l'elettronica: "Vesuvius" in particolare, ma anche la versione electro-pop di "All Of Me Wants All Of You". Sufjan ha cambiato almeno in tre momenti impostazione: l'inizio imperfetto, doloroso, estremamente intimo ed emozionante (l'intro "Redford For Yia-Yia & Pappou", "Death With Dignity" e "Should Have Known Better") che rispecchia il travaglio interiore che ha portato all'ultimo disco, sfogato sin dall'inizio; la solidità scientifica della parte centrale, con Stevens proiettato con tutto se stesso in avanti, nell'integrare i suoi registri più estremi (intima e raccolta /elettronica e storta) attraverso arrangiamenti perfetti e scenici; un terzo amarcord, in cui, come scrive Fabio, ha indossato (letteralmente) i panni del suo sé artistico passato.

Tutto perfetto, per me: scenografia, i giochi di luce, l'intermezzo kraut, la durata del tutto, i passi di danza, la scelta di lasciare inalterata la sola "No Shade In The Shadow Of The Cross".

Occasione unica per vederlo live, meglio di quanto immaginassi.

Ps: il concerto è stato solo un pretesto per conoscere Codias e Maradei, dico la verità: vero Buffoli? ghghg

FrancescoB alle 11:07 del 25 settembre 2015 ha scritto:

Sì è stato anche un pretesto senza dubbio ghghgh Dovremmo organizzare il maxi raduno, siamo un bel gruppo di personalità e tipologie eterogenee, e poi finalmente potrei parlare di Fabio per ore di avant-jazz dissonante e robe simili

FrancescoB alle 11:12 del 25 settembre 2015 ha scritto:

* con Fabio

Filippo Maradei alle 19:28 del 29 settembre 2015 ha scritto:

E' andato esattamente come lo racconta Fabio: la messa, il teatro, la luna, Sufjan così raccolto e silenzioso eppure così aperto, vicino a tutti noi; ha detto poche cose ma ne ha dette tante. E' il Messia dei nostri tempi, c'è poco da fare.

Grandi ragazzi, cornice migliore per incontrarci non potevamo trovarla, credo e siamo tutti troppo fighi