A System Of A Down: quel grido che viene dall’Est

System Of A Down: quel grido che viene dall’Est

1) La situazione socio/musicale

Siamo intorno alla prima metà degli anni '90: la “generazione X”- è allo sbando. La morte del loro antieroe per eccellenza, il leader dei Nirvana Kurt Cobain, oltre a decretare lo scioglimento della band stessa, toglie l'ultimo, valido punto di riferimento per tutti i giovani cresciuti a pane e grunge (uno stile musicale, nato nella zona di Seattle, che univa la fruibilità tecnica del punk con una furia ritmica tipicamente metal). In questa condizione di completo smarrimento viene alla luce il movimento rivoluzionario che, anni dopo, sarà etichettato come nu-metal, termine che solitamente indica la commistione fra ritmiche metalliche e liriche declamate in stile hip hop.

I pionieri del genere e, si potrebbe dire, veri fondatori, sono indubbiamente i Korn di Jonathan Davis che, con l’omonimo esordio datato 1994, guadagneranno un cospicuo seguito, fra storie di abusi, sofferenze e rabbie adolescenziali sfogate a mille attraverso i Marshall: seguiranno poi gruppi più o meno importanti come Deftones, Papa Roach, Snot, Slipknot, Camp Kill Yourself, Payable On Death, Limp Bizkit (questi ultimi due, legati più al fenomeno commerciale, e destinati ben presto a riciclarsi impunemente) e compagnia simile. Da questo marasma di nuovi complessi, una particolare rilevanza l'hanno, fin da subito, quattro nuove speranze, con in comune la provenienza dall'Armenia, paese caucasico dell'Europa orientale: i System Of A Down. Particolare rilevanza, dicevamo, e questo perché i SOAD (abbreviazione più comune per indicare il gruppo) non possono certo essere etichettati, superficialmente, come nu-metal: il loro stile comprende numerosissime influenze che, col tempo, si sono fatte sempre più distinte e marcate, fino a far sembrare le loro ultime canzoni quasi degli intrecci progressive (seppur con la dovuta misura). Per questo, alcuni – tra cui il sottoscritto – preferiscono nomenclare i System Of A Down sotto la dicitura di “alternative metal”.

2) Nascita e primi passi del gruppo

Nati originariamente nel 1995 con il nome di Soil, grazie ad un'intuizione del cantante/tastierista Serj Tankian e del chitarrista Daron Malakian, assumono al basso e alla batteria, rispettivamente, Dave Hagopyn e Domingo Laranio per registrare alcuni demo autoprodotti. I quattro non hanno molta fortuna, nonostante numerosissime esibizioni nei più svariati locali di Los Angeles: la formazione cambia più e più volte, includendo fra gli altri il definitivo bassista e vecchia conoscenza Shavarsh Odadjian (conosciuto come Shavo), come più volte cambia il nome (da Victims Of A Down a System Of A Down, in onore di una poesia scritta proprio da Malakian), ma i risultati non arrivano e i Nostri sembrano destinati ad una carriera di sottobosco, con poche luci e molte ombre. Ma ecco arrivare il colpo di fortuna: durante l'ennesimo live, accade che nello stesso locale sia presente nientepopòdimenoche il guru discografico Rick Rubin, già noto per le sue collaborazioni con la Sub Pop (a quell’epoca, storica etichetta grunge) e alcuni dei gruppi thrash metal più in voga, come gli Slayer. Rubin rimane incredibilmente impressionato dalla potenza espressa da Tankian e soci sul palco, tanto vicina agli “assassini” californiani quanto a gruppi ancora più estremi come i Death di Chuck Schuldiner, e decide di offrire loro un contratto con la American Recordings. È l’occasione che tutti aspettavano: i SOAD sono pronti per esordire sul mercato discografico, e questo avviene nel 1998, dopo il “Sugar EP”, d’introduzione.

Il primo album dei quattro, l’omonimo “System Of A Down” (1998, American Recordings), è il disco più complesso e aggressivo della loro discografia. In poco meno di quaranta minuti, i System sfoderano tredici bellissime canzoni, in bilico fra nu metal, suoni mediorientali, polke, thrash metal, hardcore punk, ska, decelerazioni melodiche e crossover.

Sbeffeggiano le religioni con il potentissimo schiaffo compresso di “Suite-Pee”, introdotto da un riff d’apertura dissonante e geniale: celebrano –sardonicamente- lo strapotere della politica e del suo “mushroom people” in “Sugar”, un affresco conturbante di quella che è la pazzia del gruppo; si soffermano sulle atmosfere delicate, a tratti quasi gotiche, dell’agrodolce singolo “Spiders”; omaggiano il Medioriente, in tutte le sue sfaccettature, nella potenza concentrata degli adrenalinici cambi di tempo di “Soil” o nella fisarmonica alcolica e nell’assolo acido di “Peephole”; rifilano un micidiale ceffone alle guerre nel mondo con l’amara “War?”; dilatano la forma/canzone, fino a trasformarla in un qualcosa di oscuro e letale, come avviene nel collage ipercinetico della monolitica “Mind”; sfogano tutta la loro rabbia repressa in quello che è uno dei loro grandi manifesti, “P.L.U.C.K. (Politically Lying, Unholy, Cowardly Killers)”, dove le bestiali, agghiaccianti e prolungate urla sono il giusto tributo all’ancor oggi irriconosciuto genocidio degli Armeni nella Prima Guerra Mondiale.

Il disco è un trionfo: negli Stati Uniti riesce a vendere, in poco tempo, più di un milione di copie –cifre da record per i dischi metal –. Nel frattempo, i SOAD partono per un tour mondiale, in attesa di avere altro materiale sul quale lavorare. Gli anni passano: nel 2000, “Spiders” entra a far parte della colonna sonora del film di “Dracula” e, pochi mesi dopo, i Nostri coverizzano “Metro”, un veloce pezzo dalle tinte punk dei Berlin, formazione, ormai scioltasi, degli anni ’80. Ancora collaborazioni sul finire dell’anno, con i System che compaiono in “Starlit Eyes”, pezzo contenuto nell’album “Strait Up” degli Snot, poi un bellissimo tributo ai Black Sabbath (la rilettura psichedelica del classicone “Snowblind”, che ottiene fra l’altro un ottimo riscontro critico) e un silenzio lungo mesi.

 

3) “Toxicity”: un imperituro trionfo

Il destino riesce ad essere veramente beffardo. Perché l’11 settembre del 2001, è una data che certo non verrà ricordata come l’attesissima uscita di “God Hates Us All” degli Slayer, e nemmeno come quella di “Toxicity”, secondo album in studio dei Nostri. Tutti sappiamo perché il mondo tremò, l’11 settembre. Ed è un quadretto davvero stranissimo, perché “Toxicity” (2001, American Recordings) sembra davvero la perfetta risposta a tutti gli immediati, angosciosi quesiti di milioni e milioni di persone. Quattordici risposte, vomitate con la consueta furia metal ed un nuovo, insospettabile gusto melodico, ricercato e mai banale.

Così, i growl schiacciasassi della sconvolgente “Prison Song” e l’hardcore scanzonato di “Needles” – una canzone che indugia sul rapporto fra la cocaina ed un suo consumatore accanito – si alternano ad episodi ancora più furenti e veloci, come le accelerazioni grind della psichedelica “Jet Pilot” o il punk futurista di “X” (con il suo folle grido, “We don’t need to multiply”) o ancora la divertentissima “Bounce”, un vero e proprio inno al pogo più sfrenato. Ma, dicevamo, la melodia, che c’è e affiora in molti episodi.

A cominciare dal parto sofferente di “Forest”, passando per le improvvise accelerazioni hardcore della minimalista “ATWA (Air, Trees, Water, Animals)” – tributo all’omonima associazione di Charles Manson – o le fiumane sinfoniche, sabbatiche ed arabeggianti, della straniante “Science”, dove c’è spazio anche per un intervento vocale del polistrumentista, connazionale, Arto Tunçboyaciyan. Il terzetto finale, inoltre, è da apoplessia: la title-track, fra Bad Religion e Dead Kennedys, “Psycho” e i suoi intrecci psichedelici, con un basso roboante ed un testo drammatico, e naturalmente “Aerials”, granitica ballata con notevoli impennate liriche (ed una ghost track etnica, interamente suonata da Tunçboyaciyan, intitolata “Arto”). Menzione a parte, infine, per il capolavoro, “Chop Suey!”: rabbia e poesia diventano una cosa sola, con plurime citazioni dalla Bibbia ed un cantato angelico accompagnato da una sezione strumentale incendiaria.

Il risultato? Otto milioni e mezzo di copie vendute ad oggi.

Il successo che travolge i System Of A Down è micidiale: ogni rivista musicale, metal e non, parla di “Toxicity”, la critica lo incensa e lo adora all’unanimità, i quattro cominciano a comparire come headliner di tutti i principali festival metallici mondiali (un nome fra tutti, l’Ozzfest). Il pubblico che li ascolta e li ama è trasversale, dagli adolescenti quindicenni agli adulti, anche ultraquarantenni.

 

4) “Steal This Album!”: fu vera gloria?

I SOAD si fanno un nome, diventano importanti, sono sempre più richiesti: questo crea un po’ di pressione sulle loro spalle, a tal punto da indurli a bissare l’uscita discografica immediatamente l’anno successivo. L’attesissimo evento, però, viene in parte rovinato sul sorgere del 2002 quando, su Internet, compaiono illegalmente alcune tracce inedite dei System (“Defy You”, “Virginity”, “Roulette” per citarne alcune) che, a quanto sembra, sono delle b-side composte e registrate durante la costruzione di “Toxicity” e, in seguito, omesse nel lavoro finale. Nonostante la registrazione non sia propriamente esaltante, gli inediti vengono raccolti in una sorta di compilation illegale, che comincia a girare su Internet con il nome di “Toxicity 2”.

Questo sarà il leit motiv che caratterizzerà l’uscita di “Steal This Album!” (2002, American Recordings). Da una parte i SOAD, costretti a comporre in fretta e furia nuove canzoni e a reincidere quelle già conosciute (esempi eclatanti sono “Nuguns”, la vecchia “Defy You”, velocizzata e con un testo differente, e “Roulette”), che sbeffeggiano il download illegale p2p con un artwork minimalista, senza testi, che rimanda per l’appunto ad un cd masterizzato grossolanamente: dall’altra il pubblico critico, che continuerà a vedere il disco sempre e solo come una raccolta di scarti. Il lavoro è in effetti parecchio omogeneo, e non sempre questo può dirsi un bene: alcuni pezzi si assomigliano parecchio fra di loro e, in particolare, in qualche punto annoia il dualismo vocale Tankian-Malakian (il quale comincerà da qui la sua scalata al microfono). Nonostante questo, sono consigliate tracce come “Mr. Jack”, con intro ed outro eccezionali, “Highway Song”, una semi-ballata fra xilofoni e chitarre distorte, “F*** The System”, cabarettistica ed imbellettata protesta politica, e soprattutto l’accoppiata “Roulette” – interamente affidata a voce e chitarra acustica – e “Streamline”, emozionante cavalcata con un meritevole assolo. Per chi ha amato “Toxicity”, però, qualche dubbio rimane.

Il disco ottiene comunque un buon successo commerciale, e proietta definitivamente i System Of A Down nell’Olimpo dei grandi. È proprio in questo periodo che l’immagine del gruppo comincia a mutare e a regolarizzarsi, per evitare il poco gentile “ammorbidirsi”, aprendosi al grande pubblico ed in particolare alla facilona platea di MTV. Tankian e soci compaiono nei Latin Awards del 2002, esibendosi con una “Chop Suey!” sinceramente sottotono, e collezionano poi altre varie comparsate più o meno note (storica quella del Reading, un po’ meno il bis all’Ozzfest). I fan storici cominciano a dileguarsi, lo zoccolo duro viene sempre maggiormente sostituito da un permafrost di ammiratori modaioli. Arriva anche qualche problema di salute per il vocalist, costretto a sottoporsi ad un’operazione alla gola per risanare un’ulcera alle corde vocali, fin troppo usate ed abusate in quattro anni di frenetica attività, senza un adeguata regolazione dei tempi di riposo e modulazione. L’intervento, che fa rimanere col fiato sospeso mezzo mondo, viene considerato “perfettamente riuscito”.

 

5) Prove generali da solista

A questo punto, i SOAD, evidentemente soddisfatti dal successo planetario, decidono di prendersi una pausa compositiva, l’ideale per schiarire le idee e ritornare in studio con un’ispirazione nuova ed arricchita. Ognuno dei membri si prodiga ad alcuni piccoli side-project, dei quali il più importante è certamente “Serart” (2003, Serjical Strike), il disco che Serj Tankian realizza interamente con Arto Tunçboyaciyan. Eliminate del tutto le chitarre elettriche, l’opera si presenta come un’improbabile unione di folk, sound etnici, world music e rumorismi vari. Tante idee (i pezzi sono ben 16!), solo sporadicamente ottimate a fuoco. Sicuramente indigesto per gli inesperti al genere, di difficile metabolismo anche per gli aficionados: da ricordare “Black Melon” e “Narina”.

 

6) “Mezmerize” e “Hypnotize”: coraggio o ipocrisia? I SOAD si separano.

È la primavera del 2004, e i System Of A Down possono ritornare in veste ufficiale, con più di venti nuove canzoni prodotte in poco meno di un anno e mezzo di lavoro. Invece di realizzare una cernita, e presentare un unico prodotto finale al grande pubblico, il gruppo decide di conservare tutto e dividerlo in due parti differenti, in due dischi separati, l’uno gemello all’altro, venduti l’uno a sei mesi di distanza dall’altro. Da tutte le parti piovono critiche sui quattro, accusati di voler sfruttare fino in fondo il beneplacito dei fan costringendoli a comprare un doppio disco facilmente condensabile in un’unica opera. Nonostante ciò, dopo qualche tempo, esce “Mezmerize” (2004, American Recordings), prima parte del progetto, con una delle tracce, “Cigaro”, in file-sharing un paio di mesi prima della release ufficiale.

Con un artwork disegnato dall’artista armeno Vartan Malakian, padre di Daron, ed un apparire ripulito dagli eccessi e, se vogliamo, “perbene”, i System Of A Down avvicinano un approccio differente anche al suono e alla forma/canzone. Undici canzoni per trentasei minuti di musica appena fanno di “Mezmerize” il disco più breve dei System e, in un certo senso, il più accessibile. Riff sempre meno spigolosi, aperture melodiche più accentuate, poco spazio alla sperimentazione, un disperato bisogno di divertissement, tematiche ancora apertamente anti-americane che, però, vengono disciolte su una patina strumentale easy listening e quasi più puntellata dal growl di Tankian, così puro e disperato (forse, anche in virtù dei problemi medici sopra accennati).

Trainato dal singolone “B.Y.O.B. (Bring Your Own Bombs)”, spietata critica all’amministrazione Bush ed alle generiche guerre nel mondo a suon di chitarre in levare e ritornelli di facile presa (e il grido, ormai famoso, “Why do they always send the poor?”), il disco presenta momenti eclettici e piacevoli che, nonostante tutto, talvolta sfociano in tappabuchi inutili e senza nerbo. Si avrà quindi lo ska/folk di “Radio/Video”, martellante girovagare fra Gogol Bordello ed isterie metal, affiancato al nonsense scriteriato di “This Cocaine Makes Me Feel Like I’m On This Song”, pezzo rapido e violento, ma monotono ed involuto. Od ancora il frenetico incrocio vocale dell’orecchiabile “Revenga”, con un ottimo assolo che potrebbe riportare alla mente addirittura qualcosa del black metal, con la già citata “Cigaro”, trascurabilissimo dispendio di watt seppur semi-disimpegnato e divertente (“My cock is much bigger than yours”, sbraita allucinato Malakian). Belle le danzerecce “Violent Pornography” e “Old School Hollywood” (con tanto di vocoder elettronico à la Kraftwerk), relativamente innocua la ballatona finale per chitarra acustica e voce “Lost In Hollywood”. La perla del disco è comunque “Question!”, un meraviglioso pezzo dalle tinte dark con un’andatura progressiva e delle convulsioni vocali da capogiro.

Mezmerize” spacca in due critica ed ammiratori. Viene premiata la fruibilità del lavoro proposto, ma una fiumana di disapprovazione travolge Daron Malakian, reo di voler occupare un peso eccessivo all’interno del gruppo, a causa anche del suo intervento vocale sempre più frequente (qualche malelingua direbbe, non a torto, “invadente”, anche per l’incomparabilità palese dei due timbri). Tankian è relegato a seconda voce, scrive solo il testo e la musica di “Question!” e per il resto si limita a seguire l’egocentrico estro del compagno. Anche il basso di Odadjian viene soffocato sempre di più dalla rumorosa chitarra di Malakian, passato intanto ad una rossa Gibson Diavoletto con l’accordatura di mezzo tono più alto (cambio apertamente contestato da una frangia di fan).

I quattro, inoltre, vengono bollati di ipocrisia: dov’è finita la rabbia che permeava i primi due album, si chiedono gli addetti ai lavori? Perché criticare il sistema americano quando oramai il gruppo ne fa parte integrante? Perché spalare fango sul mercato discografico quando “B.Y.O.B.” è un singolo che passa moltissimo su MTV? I System si lasciano scivolare addosso queste illazioni e, anzi, ne fanno aggiungere di nuove, con un’esibizione a dir poco pessima al termine degli MTV Europe Music Awards 2005. Infine, a novembre dello stesso anno, ecco arrivare “Hypnotize” (2005, American Recordings), il disco gemello di “Mezmerize” che, in un’intervista, il solito tuttofare Malakian definisce “un ritorno alle nostre sonorità, dopo le sperimentazioni del precedente disco”.

Questa volta il gruppo sembra volersi impegnare più a fondo, e “Vicinity Of Obscenity” è un calderone d’esempio che passa in rassegna tutte le loro influenze decennali, tra Faith No More e Dead Kennedys, fra hard rock e scatti noise-pop, tra funk e metal, in un turbinio di cambi di tempo e melodia davvero irrazionali e un ritornello nonsense, quel “banana banana banana banana terracotta banana terracotta terracotta pie” ripetuto convulsamente per quasi tre minuti.

Peccato, però, per il resto del pacchetto, a volte davvero inadeguato. Code sempre più melodiche e zuccherose infarciscono pezzi che sovente si auto citano e finiscono per non decollare quasi mai: “She’s Like Heroin”, noiosissimo downtempo balcanico senza verve né personalità, la title-track, melensa ed amorfa, e “Tentative”, brano melanconico e struggente sulla falsariga di “Dreaming”, ma molto meno convincente di quest’ultimo.

Altrove si salva ancora qualcosa: il veloce punk di “Kill Rock’N’Roll”, buona per un pogo veloce senza troppi pensieri, l’opener “Attack”, sorta di incrocio genetico in minor fra “Prison Song” e “Sad Statue” – dalla quale viene praticamente copiato il riff iniziale – e l’interessante “Stealing Society”, ennesima finto bordata contro il capitalismo in salsa quasi hardcore. Si segnalano, infine, “Holy Mountains”, pregna di un’insolita oscurità, e la hit “Lonely Day”, classica ballata per voce (…indovinate di chi?) e chitarra (…indovinate di chi?) che viene segmentata da un assolo (…indovinate di chi?) davvero imponente. Il disco riesce alfine a strappare la sufficienza. Il che intristisce, se si prova a ritornare ai tempi di appena sette anni prima.

Questa versione dei System, però, convince sempre di meno la stampa: salgono a mille i fiumi biliosi contro i quattro armeno-losangelini, ed in particolare contro Malakian, colpevole vittima della situazione. Il fatto che “Hypnotize”, in una settimana, raggiunga la n°1 della classifica USA degli album più venduti, bissando l’exploit di “Mezmerize” datato appena qualche mese prima (pochi artisti possono vantare due nuove uscite alla numero uno nello stesso anno, questo è da dire), sembra non garantire più ordine e serenità all’interno del gruppo. Voci di liti intestine fra il chitarrista e gli altri membri, in particolare Tankian e Odadjian, riguardo a divergenze creative delle più disparate, sono oramai all’ordine del giorno, anche durante il consueto tour mondiale che fa registrare un vero e proprio bagno di folla anche qui in Italia, con l’unicum di Assago.

E, quello che sembrava solo gossip da parrucchiere, pian piano comincia a prendere una forma sempre più definita, fino all’ufficialità sfornata nei primi del 2007: i System Of A Down si prendono una pausa, per staccare le spine e dedicare anima e corpo ad alcuni progetti solisti inseguiti da tempo, esperimenti che, ad unanime detta dei quattro, “non avrebbero mai potuto trovare spazio nel suono della band madre”. Se questi ufficiosi panegirici nascondano in realtà una rottura definitiva, solamente il tempo potrà dirlo, visto che dai diretti interessati, tutt’ora, arrivano solo secchi e laconici dinieghi.

Dunque, messa in cantina, obiettivamente, una delle più importanti band del Nuovo Millennio, con opzione di scongelamento preventivato, i quattro separano distintamente anche le loro nuove ricerche. Serj Tankian si ritira negli studi della sua etichetta, la Serjical Strike, per registrare un disco solista: Daron Malakian si organizza e decide di mettere in piedi un progetto parallelo, quello degli Scars On Broadway, che vede figurare alla batteria il compagno John Dolmayan, a sua volta coinvolto nella realizzazione di un sito internet sui Torpedo Comics, sua passione fin dalla tenera età. Shavo Odadjian, infine, si dedica ad alcune collaborazioni coi Wu-Tang Clan, collettivo rap statunitense, e ad una propria band. La palese diversità che concorre fra ognuna delle direzioni intraprese dagli armeno-losangelini è un ennesimo segno della tortuosità che caratterizza i rapporti sociali fra di loro e sembrerebbe di appurare che, in atto, ci sia uno sfacelo assoluto.

 

7) “Elect The Dead” e “Scars On Broadway”: due differenti modi di concepire una carriera decennale

Il primo a dare segnali di vita, nell’ottobre del 2007, è Serj Tankian: “Elect The Dead” (2007, Serjical Strike), tutto sommato prodotto alla velocità della luce, può vantare una quantità di ospiti più o meno illustri davvero notevole (il soprano Anj Maldjan, il violinista Antonio Pontarelli, il batterista dei Primus Brian Mantia, con una comparsata di Dolmayan in “The Unthinking Majority”, “Feed Us” e “Saving Us”).

Ai primi ascolti il disco acchiappa, intriga, coinvolge: pezzi tirati in stile SOAD, altri più intimisti –magari con ritornello elettrico – e, soprattutto, escalation di pianoforte dall’inizio alla fine, che vanno a contaminare praticamente tutti i brani. Serj suona tutto: chitarra, basso, batteria, tastiere. Fantastica la produzione, che ne mette in risalto la splendida voce, mai così potente e passionale. Ahimè, la longevità non è il punto di forza del pacchetto che, dopo i canonici cinque/sei ascolti di rito, perde via via pathos ed interesse. Più che sufficiente, comunque: strepitosa “Praise The Lord And Pass The Ammunition”, con i suoi continui cambi di tempo, genere e tonalità.

Di tutt’altro stampo è il materiale che compone “Scars On Broadway” (2008, Interscope), esordio della nuova, omonima band di Daron Malakian e John Dolmayan (a cui, per dovere di cronaca, si debbono aggiungere il secondo chitarrista Franky Perez, Danny Shamoun alle tastiere e Dominic Cifarelli al basso). Spinto da un singolo insulso e mediocre come “They Say”, un centrifugato rancido di Dead Kennedys in formalina, il disco è la perfetta istantanea dello stato confusionale in cui versa il chitarrista dei System (e, a ruota, anche il suo collega dietro le pelli, ma solo per mancanza di una forte personalità).

Appena quaranta minuti o poco più di nu metal in hard rock, in pop in chissà quanti altri generi. Un vero peccato, però, che qui dentro ci sia una sola canzone, ripetuta doverosamente per quattordici volte, con minime variazioni di tempo, melodia e modalità. Ed è una canzone decisamente brutta, arrancante, inutile. Si salva dal mucchio solo la tastiera schizoide di “Exploading/Reloading” – quasi a rendere il tutto un po’ più psych – in un coacervo di nonsense, ballatine nemmeno indurite da un riff o da una soluzione vocale, pezzi stiracchiatissimi o davvero troppo già sentiti. Il quesito sgorga spontaneo: perché ridursi fino a questo punto? La risposta è davvero troppo semplice, ed è purtroppo stancamente ciclica: tutto si riduce nella forma e nella sostanza di quel “In God we trust”. Ma per i fan di vecchia data, questo è uno schiaffone morale non indifferente da mandar giù.

 

8) Le ambizioni soliste si esauriscono: le sinfonie di Tankian ed il ritorno dei System Of A Down

E la storia si ripete. Il 2010 è un periodo costellato da se, ma, forse. Piccoli passi mediatici di ciascun membro, l’uno nella direzione dell’altro, che messi assieme formano la cornice sommaria di un puzzle già scritto, con ogni probabilità, nel momento stesso in cui i quattro avevano deciso di separarsi. La miccia viene accesa ad inizio anno, quando Odadjian lancia un osso volutamente ambiguo sulla sua pagina di Twitter: “Siete pronti per i System?”, è il laconico micro-post datato 11 gennaio. Il rumore sollevato dalla dichiarazione è così assordante che il bassista sarà costretto a raffreddare, appena ventiquattr’ore più tardi, gli entusiasmi prematuri di chi vedeva già sopra un palco il ritorno in pompa magna del gruppo. Una falsa partenza che non può, tuttavia, smentire il progressivo riavvicinamento del nucleo base – il concerto a sorpresa tenuto la notte di Halloween 2009, con il solo Tankian ufficiosamente assente per impegni personali e per questo sostituito da Franky Perez, era già un segnale tangibile del clima di distensione – ed in virtù di questo giustificare la palpabile eccitazione attorno alla rinascita, vera o presunta, di uno dei progetti metal meglio rappresentativi dell’ultimo quindicennio.

 

Il resto del copione è, più o meno, consueto. Già cessata, fortunatamente, la breve e dimenticabilissima avventura degli Scars On Broadway, sebbene non in via definitiva ed ufficiale, rimangono risibili notizie provenienti da casa Tankian. Non sono certo ultime delle migliori. In “Elect The Dead Symphony” (Reprise, 2010), cd + dvd registrato dal vivo al teatro neozelandese Auckland Town Hall nel marzo 2009, i discreti brani dell’omonimo disco vengono ipertrofizzati con steroidi sinfonici ed orchestrali, le chitarre sostituite dagli archi dei 70 elementi della Auckland Philharmonia Orchestra, gli slanci emotivi cristallizzati in un’idea di massiccia pomposità ed inevitabile magniloquenza fuori da ogni medietà estetica. Non si sta però assistendo ad un’opera di semplice arricchimento, quanto piuttosto di uno snaturamento classico del nocciolo centrale di canzoni sostanzialmente rock: e, come già tante altre volte nella storia della musica, l’accostamento ed il tentativo di incrociare i due universi finisce per concludersi in un irrefrenabile sbadiglio. Il bis non tarda ad arrivare: è di settembre il successore studio di “Elect The Dead”, intitolato “Imperfect Harmonies” (Serjical Strike, 2010). Questa volta Serj spara alle stelle la sua idea di contaminazione, arrostendo le papille gustative della stampa con fantomatiche nuove influenze jazz ed elettroniche. Nulla di tutto ciò: il disco è semplicemente la parabola conclusiva del cammino di inarrestabile sfarzo sonoro intrapreso dal cantante subito dopo la pausa della band madre, e si risolve in uno sconclusionato e deludente bombardamento di input e barocchismi che veleggiano tra modeste ballate (“Gate 21”, “Wings Of Summer”), inutili chitarre (“Left Of Center”), qualche esperimento interessante (“Beatus”) e troppi eccessi da dimenticare.

Appena un mese prima del rilascio di “Imperfect Harmonies”, tuttavia, anche Tankian torna a parlare dei System Of A Down: “Ci siamo incontrati tutti, abbiamo parlato perché siamo tutti amici, ma non è cambiato nulla. Abbiamo avuto numerose offerte per suonare, per fare tour, ma parliamo di tutte queste cose una volta ogni tanto. Non abbiamo preso alcuna decisione sul da farsi. Ma quando lo faremo, sarà abbastanza ovvio”. Impegno rispettato alla lettera. Complice anche la bocciatura più o meno condivisa delle armonie imperfette da parte della stampa specializzata, la decisione maestra viene accelerata alla lettera. Così, più di quattro anni dopo l’ultimo concerto, il sito ufficiale si schiude a nuova vita, annunciando il ritorno ufficiale del complesso per una tournee primaverile di rodaggio sui maggiori palchi europei (con l’unica data italiana fissata per il 2 giugno, alla Fiera di Rho).

Hello All, we are excited to announce that System will be playing some dates together in 2011. We also want to thank you for your loyalty and support, not only to System Of A Down, but to all of our solo efforts as well. We have no master plan of sorts - we are playing these shows simply because we want to play together again as a band and for you, our amazing fans. We look forward to seeing all of you! For a list of tour dates, and on-sale information, go to the NEWS section at systemofadown.com. Peace, System Of A Down”.

 

DISCOGRAFIA DEI SYSTEM OF A DOWN

System Of A Down: 9/10

Toxicity: 10/10

Steal This Album!: 7/10

Mezmerize: 6.5/10

Hypnotize: 6/10

DISCOGRAFIA SOLISTA DI SERJ TANKIAN

Serart (con Arto Tunçboyaciyan): 6/10

Elect The Dead: 6.5/10

Elect The Dead Symphony: 5/10

Imperfect Harmonies: 5/10

DISCOGRAFIA DEGLI SCARS ON BROADWAY

Scars On Broadway: 4/10

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