A System Of A Down (w/ Anti-Flag, Volbeat, Sick Of It All, Danzig) @ Fiera di Rho, 02/06/2011

System Of A Down (w/ Anti-Flag, Volbeat, Sick Of It All, Danzig) @ Fiera di Rho, 02/06/2011

A Pioltello, anonimo e tristemente plumbeo comune della deprimente provincia di Milano, c’è una stazione ferroviaria. Una sala d’accoglienza vuota e dimenticata, un altoparlante che diffonde rockabilly invece degli avvisi di arrivi e partenze dei treni (così che non sai mai, esattamente, quale mezzo prendere e quando prenderlo) e tre squallidi binari. Uno torna indietro verso Verona, l’altro accompagna alla centrale. Poi ce n’è un terzo, costruito ad hoc per non essere visto dalle persone comuni, che muore sul nascere e che è adibito a linea di trasporto per scassatissime navette, lungo il raccordo suburbano della metrò meneghina e fino a Novara. Uno scenario agghiacciante, degno della migliore Milanograd (senza sospetti gadget di Pisapia, peraltro): e chissà quante generazioni di nottambuli e beoni avranno passato, sulle panchine non panchine, gli sbeccati marciapiedi, le striminzite hall vista casermoni, interi segmenti delle proprie vite. Ma la vigogna di cui sembra essere incellofanato l’ambiente è il normale dazio da sopportare, per arrivare alla meta conclusiva.

Rho, tredici anni dopo. Ancora Nord Italia, ancora System Of A Down. Allora c’era un disco di esordio da presentare, una platea da conquistare, un palco da ridurre in cenere, Slayer permettendo. Ora c’è la compostezza manageriale di chi è ben conscio di avere una consistente liquidità alle spalle, quarantamila persone ai propri piedi, e di non dover praticamente sforzarsi per trascinarle nel gorgo della follia collettiva. Allora c’erano Rick Rubin e qualche migliaia di fan tricolori che, pur nella loro nuova passione, non avrebbero scommesso un centesimo sulla solidità e la durata della carriera dei quattro losangelini. Ora ci sono parecchie voci di disapprovazione (settanta euro di ingresso, specie per un set composto da nomi non mediaticamente eccelsi come quelli prescelti, marcano a fondo la differenza fra tiepido appassionato ed inguaribile romantico) ed una folla proveniente da tutto lo Stivale per festeggiare l’epifania di uno dei gruppi più amati ed odiati del recente – si fa per dire – corso metal. Una liturgia messianica celebrata, ancora più che mai, a suon di soldi e visibilità, e nessuno potrebbe (dovrebbe?) negarlo. I paramenti sacri del fuck the system sono cimeli per gli stolti, ninnoli ornamentali funzionali all’estetica complessiva ma deprivati da tempo di qualsiasi significato. Resta da saggiare solamente il contributo musicale, invero ridottosi sensibilmente nelle ultime apparizioni, e l’oliatura di un meccanismo rimessosi in moto dopo sei anni di stallo, senza illusioni di sorta o aspettative troppo al di sopra della norma: perché l’ora non è (più) l’allora.

Vi è un aspetto della questione che sollecita qualche riflessione in merito. Il sold out tanto agognato si è concretizzato appena un paio di settimane prima dalla data fissata, nonostante la scelta propizia della giornata, coincidente con i festeggiamenti della Repubblica. L’ultimo passaggio italiano dei SOAD, nella mecca dei palasport Assago, aveva, invece, fatto registrare un deflagrante tutto esaurito a distanza di qualche giorno dall’annuncio ufficiale. Successo sì, quindi, ma non trionfo assoluto. Disamore? Disaffezione? Impossibilità di reggere uno sforzo economico, soprattutto per i non residenti in zona, particolarmente gravoso? Indifferenza verso il contorno, appositamente allestito per dare la massima risonanza possibile al gruppo principale? Sono parecchie le ipotesi papabili, nessuna quella definitiva. Nel frattempo ragazzini di quattordici anni sono seguiti a vista da padri apprensivi, qualche tardo quarantenne si accoda timidamente, metallari di ogni risma si mischiano a persone comuni, ragazze borchiate, coppie curiose. Si ride, si scherza, si chiacchiera, ci si fa largo, capita di fare amicizia. Un before party che segnala la distinta eterogeneità dell’identikit del tipico ascoltatore medio.

L’evento prende il via attorno alle 16.30, quando ancora si ozia sotto un’afosa pioggerellina e i fusti di birra sono letteralmente presi d’assalto. Chi è già sotto il palco accoglie positivamente l’ingresso degli Anti-Flag, quartetto punk di Pittsburgh attivo da vent’anni e più, che rompe il ghiaccio con una leggera mistura di chitarre chiassose, ritmiche veloci, cantato malleabile e sottilmente melodico. “We’re Anti-Flag, we’re antifascist and antiberlusconian!”: sono sufficienti poche parole, qualche fuck e fuckin’ distribuito qua e là, un paio di slogan per arringare una numerosa platea obiettivamente di poche pretese. Il suono è impeccabile, la ruffianeria c’è, la scelta di piazzare a tradimento una cover di “Should I Stay Or Should I Go?” dei Clash diverte i (pochi) che la riconoscono. Forse non per colpa loro, la caratura artistica dei brani autografi proposti – tra cui spicca una versione adrenalinica e sing-along di “Power To The Peaceful” – è abbastanza limitata, e più che riportare alla mente le scorrazzate alcoliche dei Rancid, o gli ammodernamenti su di esse operati dalla generazione pop-punk immediatamente successiva, non riesce a fare. Se questo sia un peccato, oppure no, dipende esclusivamente dai vari punti di vista.

Introducendo un’impeccabile esecuzione di “Sad Man’s Tongue”, l’imbrillantinato leader dei Volbeat, Michael Poulsen, chiede agli astanti se anche loro, come lui, sono perdutamente innamorati del personaggio di Johnny Cash. Non scopriamo certo ora questa morbosa fascinazione del complesso heavy metal danese per le icone del country-folk virato rock’n’roll – se non rockabilly: Pioltello insegna... – made in America, a tratti così intensa da emergere prepotentemente nella muscolare e rovente texture di chitarre fortemente amplificate. Quello che non ci si aspettava, tuttavia, è che l’uditorio potesse respirare a pieni polmoni la particolare commistione anche su un terreno di gioco più insidioso, il concerto dal vivo. Missione agevolmente superata e facilitata dal generale beneplacito che riscuotono i pezzi, tra giovani e meno giovani. Poulsen cavalca un coacervo dissonante di Metallica – il finale di “Boa (jdm)” – e Living Things (“Guitar Gangsters & Cadillac Blood”) con una matura e convincente prova di maturità vocale, che porta al parossismo il sensuale traccheggiare da crooner (“The Human Instrument”) senza scadere nella ridondanza. Per una “The Garden’s Tale” che, clamorosamente, manca all’appello – accidenti a voi! –, i Volbeat strizzano l’occhio alla frangia più oltranzista e, senza preavviso, inseriscono in un contesto completamente altro il riff di “Raining Blood”: è il sigillo di ceralacca, la consacrazione definitiva.

Principale errore degli organizzatori del cartellone, oltre al continuo stillicidio finanziario a cui sono sottoposti i portafogli dei presenti (una t-shirt 30 euro? una vaschetta di patatine 4 euro? il parcheggio della macchina 15 euro?), è stato l’inserire, quasi come cuscinetto tra una band e l’altra, i Sick Of It All, che per storia personale, genere proposto, provenienza geografica e pubblico di riferimento sono distanti anni luce dai colleghi con i quali sono stati costretti a dividere il palco. Il rumoreggiare della platea lungo tutta la loro esibizione, pur compatta e tiratissima, testimonia una sotterranea avversione verso il metalcore del quartetto (anche se Lou Koller, a più riprese, si ostinerà a chiamarlo “old school hardcore from New York City”: divergenze di giudizio). Violenza sonora e continuo assalto all’arma bianca, che si producono in devastanti scariche metalliche arrotate dalle urla belluine del frontman, raggiungono l’apice quando, dall’infernale circle pit creatosi in mezzo alla folla, due ragazzi vengono portati via, colpiti duramente nel trambusto. La monotonia di fondo delle canzoni – fra le quali spicca solo “Us Vs. Them” – e, strano a dirsi, una certa staticità della sezione ritmica non agevolano l’ascolto. Bene, bravi, ma niente bis.

Il sole inizia a tramontare e, con l’arrivo dell’imbrunire, lo spazio aperto della fiera di Rho viene imprigionato da una cappa di calore. Accoglienza infausta per il grande vecchio Glenn Danzig e la sua omonima band, pipistrelli pure da sempre in simbiosi con certi tipi di oscurità. Rubando una riuscita metafora ad Anna, una delle mie compagne di viaggio, l’ex cantante dei Misfits assomiglia un po’ a quei vecchi che, partiti con l’intenzione di macinare rampe su rampe di scale, si fermano col fiato corto a metà strada, rendendosi conto di non riuscire a portare a termine l’impresa. Forma appesantita, lunghi capelli corvini che non riescono a nascondere un principio di calvizie, sguardo sfatto e pallore innaturale: che qualcosa non vada s’intuisce sin dall’apparire, sul main stage, del complesso. Il parametro caratterizzante del canonico prototipo metal dei Danzig – strumentisti lungocriniti, riff mortiferi, assoli disarticolati, voce belluina – s’infrange proprio sul più bello: l’ultimo punto. Giornata storta o meno, esplicita avversione di ampie fasce del parterre a parte, il cantante semplicemente non ne imbrocca una, ansimando paurosamente già dal secondo brano in avanti. Gli altri musicisti fanno quello che possono e, tra midtempi e ballate elettriche, si salvano per il rotto della cuffia. Certo, non dev’essere stato facile suonare nella condizione di essere visti come l’ultimo, ingombrante ostacolo tra i System Of A Down e i loro fan, ma da professionisti rodati, con trent’anni di carriera sulle spalle, ci si sarebbe aspettato ben altro che un set di quaranta minuti, una serie infinita di bending e una scialba versione conclusiva di “Mother”.

Infine, loro. Li copriva, visibilmente, un lungo telo, con sopra stampato il logo, a caratteri cubitali: li copriva, palpabilmente, un’aura di eccitazione e di entusiasmo che è traboccata, in tutta la sua evidente manifestazione fenomenica, al crepitare delle prime note di “Prison Song”, con la quale quarantamila persone si sono mosse all’unisono. Serj Tankian in mezzo: sobria camicia e poche parole. Tra queste, un poco gradito “Sorry, tonight my voice’s weak, so you have to help me singing louder!” (tiro mancino, soprattutto dopo aver pagato quell’oneroso biglietto per Yuma…). Daron Malakian a sinistra: cappello in testa, giacca fucsia, lunghi capelli svolazzanti e mortifera ironia da dispensare – esilarante la presentazione melodrammatica di “Cigaro” –. Shavo Odadjian a destra, viso segnato da qualche ruga – il tempo passa per tutti – e martello pneumatico tra le mani. John Dolmayan, il migliore, defilato sullo sfondo: zero espressività e solito, classico senso di concretezza. Come effetto amarcord, la lacrima di commozione ci sta tutta. Ma la macchina dello show business non vuole sentimento, vuole un copione da recitare a memoria. Pertanto, benché tra i componenti non vi sia il minimo segno di interazione (gli attriti interpersonali non si cancellano con i soldi), le canzoni fluiscono da sole, balbettanti talvolta, ma sempre vissute integralmente dal pubblico, che le intona allo sfinimento. L’intro di “Soldier Side” accende il terremoto di “B.Y.O.B.”, con ritornello in levare trasportato di peso a Kingston, donando poi la scena ad episodi minori nella scelta – ma non nell’esecuzione –, come la non banale “I-E-A-I-A-I-O”, unico estratto da “Steal This Album!” (2002).

Difetti e cadute di stile ce ne sono, sebbene la presenza mobile frammezzo ad una massa urlante renda a tratti difficile questionare sul nocciolo. Massimo punto dolente riguarda certamente la prestazione vocale di Tankian. Pessimo è il misero impianto audio, ma il riccioluto (leader?) dei SOAD non è più in grado di reggere gli sforzi che la produzione del gruppo, specie quella iniziale, richiederebbe. Non solo gli scream e i growl sono ridotti ad un ruolo così comprimario da apparire quasi un contentino alla memoria (e vabbè, non è più una notizia, direte voi), ma anche le tonalità più alte sono rigorosamente scalate verso il basso, o addirittura lasciate cantare integralmente agli spettatori. L’istrione Malakian interviene dove può, non inutilmente invasivo come nel recente passato, e regala momenti di ilarità, con le movenze demenziali al ritmo del riff incalzante di “Suggestions” e la cavalcata balcanica dell’applauditissima “Radio/Video”. Più delicato diventa l’argomento, quando estratti di puro e virtuosistico cabaret metallico, come “Darts” – graditissimo ripescaggio – o “Suite-Pee”, vengono stravolti in base alle nuove esigenze di ordine disordinato, finendo per essere ugualmente godibili, ma in gran parte scaricati del loro potenziale distruttivo. Ancor più emblematico è forse il caso di “Sugar”, l’improvvisa conclusione arrivata a tradimento dopo appena novanta minuti e le cui carenze strumentali sono state abilmente scavalcate dagli strali antiberlusconiani lanciati da Tankian.

Quasi per un’ideale legge del contrappasso, tuttavia, i “nuovi” System Of A Down pungono di più in fase realizzativa. Il tornado di “Toxicity” si abbatte impietoso sulla folla e scatena un inferno: il mistico assolo di “Psycho” prima, suonato nel mezzo di un volteggio, e l’ipertrofico hardcore kennedysiano di “Needles” poi completano il quadretto. Nuove sfumature emergono, imperiose, dalle ballate o dai brani più lenti. La progressiva poesia epica di “Question!” viene un po’ sbertucciata nel passaggio da acustico ad elettrico, ma la facile presa di “Lonely Day” e, soprattutto, la levitante pesantezza di “Aerials” mantengono, immutate, il loro grande fascino. Da sopra il palco non ci si scompone mai particolarmente, nemmeno quando nel bel mezzo di “War?” si inserisce un troncone etno-elettronico (anche le derive soliste vogliono la loro parte?) che lascia spiazzati molti astanti, oppure la bella esecuzione del capolavoro “Chop Suey!” fa urlare di gioia l’intero circondariato. Misteri dell’assuefazione. I quattro si abbracciano, si inchinano e spariscono nel backstage.

I ricordi si affollano e si intrecciano l’un l’altro, mentre una piccola cittadella defluisce verso la circonvallazione. Nel mezzo facce deluse, rosse d’emozione, esaltate, perplesse, estasiate, incazzate: un puzzle che, messo assieme, compone il ritratto della nutrita schiera di fedelissimi di un gruppo che ha dimostrato, a scanso di ogni smentita, di non aver quasi più senso di esistere nella realtà.

 

"Prison Song - Soldier Side (Intro) - B.Y.O.B. - I-E-A-I-A-I-O" -> Video

"Needles - Deer Dance - Radio/Video - Hypnotize" -> Video

"Question! - Suggestions - Psycho - Chop Suey!" -> Video

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