A The Doors - Quando la musica si fa percezione pura

The Doors - Quando la musica si fa percezione pura

Riders On The Storm

"If the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it truly is, infinite" William Blake

La storia dei Doors passa inevitabilmente da qui. Le porte della percezione sono, sin dal nome, una presenza costante nella vicenda di Morrison e soci. La band losangelina fu innovativa dal punto di vista concettuale almeno quanto lo fu a livello musicale.

Questo spessore filosofico va ricercato soprattutto nella figura di Jim Morrison, autentico sciamano del rock, nonché eterno simbolo di trasgressione, di trascendenza e sincera catarsi. Nasce quindi da lui tutta la pregnanza esistenziale e “spirituale” della band, che la rese forse più interessante e misteriosa, agli occhi di pubblico e critica, rispetto alle altre numerose, e di pari valore, realtà rock del periodo. Difficile non rimanere affascinati dal tenebroso Re Lucertola, la cui fama non cessa di espandersi a oltre 30 anni dalla scomparsa. Tuttavia, ciò che rende davvero unica l’esperienza Doors in tutta la storia della musica è l’estrema coerenza di significato e significante, di idea e azione, di concetto e realizzazione pratica. Questo fatto dà agli altri 3 membri della band il loro giusto merito. Se Morrison era il nume tutelare e la guida spirituale, Manzarek, Krieger e Densmore furono dei perfetti seguaci, capaci di accompagnare in musica le visioni metafisiche del loro leader. Si associa non a caso spesso la parola sciamano a Morrison per descriverne il magnetismo e il carisma sprigionato, memori dell’aneddoto giovanile raccontato dallo stesso Jim: lo spirito dell’indiano morente nel deserto che si impadronì di lui, sublime anello di congiunzione tra Morrison e una delle anime più pure della cultura americana.

Musicalmente, quella dei Doors fu una delle carriere più prolifiche ed influenti del periodo. La struttura delle loro canzoni è pressoché unica; la mancanza di un basso, sostituito dalle tastiere, suonate quindi solo su ottave alte, e l’eterogeneità dei componenti forgiarono una formula inedita e peculiare. Oltre a ciò, l’originalità di Krieger alla chitarra, spesso influenzata da timbri latini e sinuosi, contrapposta alla ritmica insistente e jazzistica di Densmore, permise di creare qualcosa di unico e sorprendente. Il tessuto musicale della band, seppur con limpidi riferimenti al Blues ed al Rock n’ Roll, fu uno dei principali fattori che contribuirono al successo dei quattro. Senza questa solida base, le elucubrazioni poetiche di Jim non avrebbero mai avuto la carica di significato che poi effettivamente ebbero. È quindi ben chiaro che la grandezza del gruppo fu un merito comune e non di un singolo. È però altrettanto chiaro che un front man come Morrison non lo si trova tutti i giorni.

La sua importanza nel gruppo va al di là delle esigenze strettamente musicali, che Jim soddisfò comunque pienamente. Al contrario, l’immagine e l’indole del Re Lucertola furono fondamentali per calamitare l’interesse di pubblico e critica su i Doors, che, diversamente dalla realtà dei fatti, apparivano come una one man band. Ma andiamo con ordine.

Strange Days

Break on Through (To the Other Side)

Prima di tutto questo c’era James Douglas Morrison, figlio di un ammiraglio della marina e Ray Manzarek, entrambi studenti dell’UCLA. C’erano loro, c’erano le prime poesie dell’uno e la prime note dell’altro. C’era tutto questo su una spiaggia di Venice nel 1965, quando Morrison lesse il testo di “Moonlight Drive” a Manzarek. Da quel momento ci furono anche i Doors, che si completarono con il chitarrista Krieger ed il batterista Densmore.

I quattro, dopo i primi assestamenti, iniziarono a suonare al Whiskey A Go-Go sul Sunset Boulevard di Los Angeles. Tra i numerosi episodi di blues rock psichedelico proposti dalla band, ci fu un brano in particolare che sconvolse il pubblico e suscitò sdegno tra gli addetti ai lavori. Si trattava di un lungo brano, chiamato “The End”. Dopo una lenta danza narcotica il pezzo esplodeva in un fragoroso grido: “Father I want to kill you, mother I want to fuck you”. Questa frase, unita alle movenze schizoidi e isteriche di Morrison fecero esplodere il fenomeno Doors.

Grazie a quella sconvolgente performance la band ottenne una popolarità inaspettata e di conseguenza un contratto discografico con l'Elektra. L’affiatamento tra i membri era tale che il primo LP fu registrato in pochissimo tempo, circa 2 settimane. Il disco uscì nei primi mesi del 1967, una delle annate d’oro della musica Rock.

Ciò che nacque da quelle sessioni fu una pietra miliare del rock, nonché una delle produzioni più proiettate al futuro di quel decennio. Gli snodi cardine dell’opera erano; un forte sviluppo della formula blues-rock molto più hard delle precedenti. Un inedito approccio sensuale e passionale alla musica. Quando i Velvet Underground toglievano l’anima al rock, i Doors gliene donavano una più vera, tormentata ed animalesca, antesignana di infinite correnti musicali. Un forte gusto psichedelico, dovuto soprattutto all’organo barocco di Manzarek. La poetica ed il fascino di Morrison, che catalizzava l’attenzione del pubblico. Tutto questo miscelato in una continua trance sessuale, febbrile, arida e tenebrosa.

I capolavori si sprecano in un lavoro di tale caratura. Si parte con lo sfogo psicotico di “Break On Through”, un Blues proteso verso l’Hard Rock, ma anche fortemente intriso di furore punk, dieci anni prima dei Sex Pistols. Un blues rock poderoso che ritroviamo poi nella ritmica insistente di “Back Door Man”, autentico cavallo di battaglia live, nella secchezza febbrile di “Take It as It Comes” o nel sensuale riff di “Twentieth Century Fox”. Fin da subito le tastiere di Manzarek si ritagliano un ruolo fondamentale nella struttura dei brani, rendendo unico ed inimitabile lo stile dei Doors. L’intreccio tra organetto sibilante e chitarra esotica è uno autentico pezzo di storia della musica. Alcuni pezzi sono basati completamente su questo dialogo, come il veloce delirio esotico di “I Looked at You”, forse il momento meno teso dell’album.

Tuttavia, il manifesto indiscusso di tale intreccio è “Light My Fire”, il capolavoro eterno del gruppo e una delle migliori canzoni della storia. Fuoco, sesso, sangue. Un canto violento e sfrenato alla passione che distrugge ogni senso dell’ordine e della moralità. Questo brano si compiace di ciò, anzi, né è la perfetta rappresentazione musicale, con il suo delirante intermezzo strumentale, in cui l’organetto dipinge paesaggi scoscesi ed impervi, per poi acchetarsi con l’arrivo della chitarra suadente di Krieger, in un orgiastico trionfo dei sensi.

Non mancano però alcuni episodi meno carnali e sferzanti. La poesia notturna di “End Of The Night”, nenia funebre che spasima nella paura del risveglio in un lento vortice di gelide sensazioni, e la magnifica catarsi di “The Crystal Ship”, autentico gioiello di controsensi, ne sono un esempio. La voce di Morrison si mostra in questo modo perfetta sia in ambito rock sia in alcuni passaggi più introspettivi e toccanti.

Un altro punto fermo di questa prima opera è da cercare in “Soul Kitchen”, demoniaco sfogo psicotico, riuscitissima commistione tra strascichi depressi e slanci emotivi.

Ultimo, ma non marginale, spunto creativo della band in questo esordio fu il teatro, che troviamo nell’esilarante commedia alcolica di “Alabama Song (Whisky Bar)” ma soprattutto nel brano finale, quella “The End” che rese popolare il gruppo e che forse rimane il loro più grande dono all’arte del ‘900.

L’elogio della morte, della fine, il termine ultimo di tutte le cose, tema assai caro a Morrison, è la colonna portante del brano. Ma in realtà siamo di fronte a ben altro. “The End” è una tragedia messa in musica, è un monologo di Jim alla sua coscienza, è una tragica trasposizione dell’Edipo re ai giorni nostri, un trionfo della negatività, espressa dalle grida demoniache e dallo spasmodico accelerare delle musiche. D’altra parte, la struttura della canzone è particolarmente originale ed innovativa. Una sorta di recitazione, accompagnata da musica oscura, puramente funzionale al significato delle parole. La prova vocale è tra le più espressive mai sentite.

Non è difficile capire con quale veemenza fu scossa la scena musicale di fine anni ’60. Nessuno aveva mai proposto una miscela così fiammeggiante di morte e sesso. In questo i Doors furono tra i migliori rappresentanti della loro generazione. Lontani dall’ottimismo dei Figli dei Fiori, ma altrettanto distanti dal grigio edonismo metropolitano dei Velvet Underground.

Sarebbe stato difficile dare un seguito degno ad un’opera prima di tale valore. Difficile, ma non per Jim e soci, che registrarono il seguito nello stesso anno. Oltre alla grande rapidità con cui fu prodotto, stupisce anche la qualità sopraffina di “Strange Days”, di pochissimo inferiore all’esordio.

Tuttavia, non si tratta di un lavoro fotocopia del primo, anzi, l’evoluzione attuata dai quattro è più che evidente. Se “The Doors” poteva essere ben rappresentato come un fuoco solitario che brucia nel buio pesto di un canyon popolato di spiriti indiani, questo secondo disco è invece paragonabile al fruscio dell’erba alta di una radura, sovrastata da un cielo plumbeo e minaccioso.

Ciò che viene infatti a mancare è quel nervosismo diabolico che delineava in parte il precedente disco. L’unica vera traccia di rock blues è “Love Me Two Times”, urticante sabba sessuale scandito da uno splendido riff di chitarra.

Sono tuttavia altri i binari su cui viaggia questo disco. La note grevi e sibilanti della title track la dicono lunga sul nuovo corso, ancora più spettrale e notturno, della band. “Strange Days” è un brano liquido, impalpabile e sfuggente; per questo motivo risulta impossibile emergere dal magma sonoro che crea, se non al termine dei suoi tre minuti.

Vero gioiello del disco, nonché indimenticabile confessione intima di Morrison, è “People Are Strange”. Siamo ora nella morsa di una maledetta danza solitaria. La solitudine che trasmette non è tuttavia data solo dalle parole, bensì anche dalla musica, che raggiunge qui un nuovo apice nella carriera dei Doors. Manzarek e soci hanno ora imparato a farsi più da parte, a suonare per Jim e non con Jim. Questo non significa che manchino momenti di eccellenza strumentale, tuttavia, le trame musicali risultano ora più studiate e foderate sulle liriche di Morrison. In un periodo di tale fertilità di scrittura del cantante, questa mossa non poteva essere più azzeccata.

Troviamo poi momenti di psichedelica leggera quali “Unhappy Girl”, monologhi deliranti e sconnessi quali “Horse Latitude”, o meditazioni moribonde come “My Eyes Have Seen You”, più vivace, e “I Can't See Your Face”, più elegiaca. Brani che godono di una grande ispirazione, anche nei momenti in cui si distaccano di più dalle radici musicali dei quattro.

Moonlight Drive”, oltre ad essere il primo testo di Jim, è una indelebile sonata di pianoforte, in cui il vorticare delle linee sonore ci consegna storditi alla meravigliosa melodia di Morrison, che decanta i suoi poetici versi prima con piglio tenebroso, poi con una veemenza infuocata ed ammaliante. Una prova tecnica eccelsa quella che i Doors ci consegnano qui. Ogni cosa è a suo posto, tutti i meccanismi sono ben oliati, tutto gira come deve. Ciò che ne scaturisce è una delle canzoni leggere più indimenticabili di tutta la loro carriera.

“You're Lost Little Girl” ha la stessa indole delicata, ma con un approccio più passionale e tenebroso, dovuto soprattutto all’arpeggio esotico di Krieger e al canto misticamente avvolgente di Morrison, che ci regala qui una delle sue performance più raffinate e toccanti. Un vero gioiello dei sensi.

Il brano finale è, come nell’esordio, un lungo incubo metafisico. “When The Music's Over”, ovvero gli ultimi spasimi prima della fine. Una disperata richiesta di aiuto, una psicosi collettiva in attesa della fine, del giudizio finale, del buio pesto. Questa volta, a differenza di “The End”, la fine non è celebrata. È piuttosto temuta e fuggita; si arriva addirittura a richiedere l’aiuto del Messia. Nonostante questa spiccata differenza di prospettive, ciò che alla fine rimane degli undici infuocati minuti del brano è la stessa sensazione che ci lasciava “The End”. L’esorcismo delle paure più profonde e radicate. O forse l’esposizione di un sogno ricorrente. Quello di attraversare le Porte. Fa poca differenza, perché l’opera dei Doors suona ancora oggi come la morte incarnata, come il suono della Fine. Il buio più totale. Musicalmente siamo di fronte ad un vero e proprio delirio di timbri e suoni, un’epilessia che passa da momenti di pungente tranquillità a esplosioni granitiche.

Strange Days” risulta quindi fondamentale quasi quanto “The Doors”, soprattutto grazie al notevole cambio di atmosfere che passa da oscuro - fiammeggiante a livido – solitario. Tuttavia, al di là del quid sonoro, la secondo opera del gruppo non mostra il minimo cedimento qualitativo, anzi, se possibile, amplia addirittura il bagaglio musicale dei quattro.

Due lavori che vanno ad aggiungersi alle decine di album epocali che resero immortale il 1967.

Summer's Almost Gone

Diverso il discorso da fare per la terza opera della formazione. “Waiting For The Sun” è un disco atipico, che sa proporre alternative più che valide alla formula musicale ormai consolidata del gruppo, ma cede lievemente sotto il profilo psicologico e poetico. A livello di qualità musicale, è un disco che ha poco da invidiare ai suoi predecessori.

In generale, aumentano le melodie leggere, i suoni vellutati, ma anche la psichedelica frenetica, che aveva fatto la fortuna di “Light My Fire”, torna prepotentemente alla ribalta, dimentica delle trame oscure e sornione di “Strange Days”.

I maggiori esponenti di questa nuova vena sono “Hello, I Love You”, funambolico pop acido ed insistente, “Not To Touch The Earth”, dissonante esperimento teatrale dalle tinte epilettiche, e la meravigliosa danza latina di “Spanish Caravan”, autentico gioiello ibrido.

Ma le eco psichedeliche sono disseminate qua e là per tutto il disco. Dalle eco malinconiche di “Summer's Almost Gone”, nostalgica sonata di pianoforte, ai sibili tribali di “My Wild Love”, danza indiana che rilancia l’immagine di Morrison come sciamano del Rock.

Sul versante più delicato della band troviamo il capolavoro agrodolce di “Love Street”, dolce e penetrante come solo i Doors sapevano fare, la classicheggiante “Wintertime Love” o “Yes, The River Knows”, dipinta con sonorità blues e beat. “We Could Be So Good Together” non può essere inserita in nessun contesto, se non in un limbo a metà fra il rock delle origini ed una nuova vena malinconica. Si tratta infatti di una delle liriche più significative di Morrison, in cui esprime tutta la sua voglia di vivere e stare con gli altri.

Altra novità sono i due brani politici del disco. Il primo, “The Unknown Soldier” è l’ennesima incursione dei Doors nel teatro, in questo caso davvero eclatante, con addirittura il suono degli spari che uccidono il milite ignoto. Un brano che, pur nel suo, seppur sincero, qualunquismo, ha fatto storia. L’altro episodio politico è “Five To One”, una sferragliante danza africana, magnificamente interpretata da Morrison.

In conclusione “Waiting For The Sun” è un disco di inferiore bellezza ed importanza rispetto ai due lavori dell’anno precedente, ma sa mostrare numerose e nuove sfaccettature dei nostri, suscitando spesso un positivo interesse.

La crisi, prima personale e poi musicale, che nel disco del ’68 era stata ben camuffata dai Doors esplode rumorosamente l’anno successivo.

Ciò che rimaneva nel ’69 di quella band che solo due anni prima era riuscita ad infiammare di passione i cuori di innumerevoli fan era assai preoccupante.

La catarsi e il magnetismo dei primi lavori sono totalmente scomparsi, ma non solo. Anche quel buon gusto musicale che aveva salvato il disco precedente appare quasi totalmente svanito.

Ci troviamo così di fronte ad irrisolti abbozzi classicheggianti come “Tell All The People” o noiose ed anonime invettive blues come “Do It”. “Easy Ride” è un pallido giochetto country, che non diverte affatto e quando cerca di coinvolgere fa solo rimpiangere i vecchi Doors; “Runnin' Blue” è troppo mielosa per poter davvero esser stata scritta dall’autore di “Light My Fire”.

Per fortuna, qualche canzone è anche bella. L’ipnosi sulfurea di “Shaman's Blues”, eccentrico dialogo tra voce e chitarra; la dolce danza di “Wishful Sinful”, commossa e leggiadra, soprattutto per merito degli archi. “Wild Child” ripropone le sonorità granitiche di “Five To One” e che verranno poi perfezionate in “Roadhouse Blues”. Non è di certo un capolavoro, ma si lascia ascoltare con piacere.

Nella title track si cerca di riproporre la fortunata formula della cavalcata multiforme, del viaggio metafisico. In questo caso, più che di metafisica, bisognerebbe parlare di distorsione della realtà. Trattasi infatti di un viaggio allucinato, che svaria su diversi toni ed atmosfere, prima dolce, poi veemente, infine graffiante. L’idea non è male, ma mancano la lucidità e l’eclettismo di un tempo. Manca la passione ardente che trasudava dal canto di Morrison.

Il vero ed unico capolavoro del disco rimane però “Touch Me”, commerciale quanto perfetta, facile quanto indimenticabile. È uno dei migliori episodi di puro intrattenimento della band. I fiati hanno un ruolo fondamentale nel loro dialogare con la melodia frizzante.

The Soft Parade” è un lavoro che risente molto della condizione psicofisica di Jim. Manca l’ispirazione a livello di composizioni. L’impegno c’è, e qualche buon risultato lo dimostra, ma ciò che prevale è la noia e il disinteresse per un album che è la lampante dimostrazione di quanto la droga e l’alcool non fossero altro che ostacoli all’espressione artistica del Re Lucertola, non stimolanti. Non erano gli acidi a far si che la musica del gruppo facesse superare le Porte della Percezione. Era il talento, la poesia, la sensibilità ed un coinvolgimento emotivo - esistenziale senza pari che rendevano unica l’esperienza Doors. Scomparsi questi, scomparve anche tutta la magia mistica e poetica della band. Ciò che rimase è una discreta formazione rock-pop.

Nei mesi seguenti le varie dipendenze e psicosi del cantante si fecero sentire ancora più pesantemente, minando alle basi la solidità del gruppo. Ormai leggendaria è la sua performance a Miami nel ’69, in cui, dopo aver insultato la polizia, mostrò i genitali al pubblico, in una delirante esplosione di libera volgarità. Tale celebre episodio fu la spia di un ben più significativo fattore. Egli fu un grandissimo ( benché inconsapevole) comunicatore politico, un erotic politician, capace col suo magnetismo sessuale di sprigionare una suggestione liberatrice sulle folle, ideale colonna sonora dell’emancipazione sessantottina. Si pensi a un verso come “Gli uomini non lo sanno, ma le ragazzine capiscono” da “Back door man”, oppure alla celeberrima poetica erotica di “Light my fire”.

Spirito tormentato e vagabondo che cercava ardentemente una sorta di verità assoluta, la pace dei sensi, la fine delle paure, Morrison ha sempre cercato di far coincidere arte e vita, come si può ben intravedere in frasi come “La liberazione interiore è l'unica cosa per cui valga la pena di morire, l'unica per cui valga la pena di vivere.”. Egli cercò questa liberazione interiore, rapportabile al superamento delle Porte, nella musica, nella poesia, nelle cavalcate metafisiche dei suoi Doors, ma finì per accontentarsi di uno stato di continua incoscienza, dovuto all’uso smodato di alcool ed allucinogeni, che non gli davano una risposta alle sue domande ,ma che semplicemente gli permettevano di espandere la propria coscienza. In tal senso Jimbo intendeva sposare un altro motto di Blake: “La strada dell’eccesso conduce alla saggezza”: inevitabile viatico per chiunque intenda portare il romanticismo alle estreme conseguenze, per immaginare ogni giorno nuove visioni, per intarsiare il proprio vaso di Pandora senza avere però la capacità di trovare una risposta coerente con la materia evocata. In tal senso Morrison è stato uno dei grandi perdenti del ventesimo secolo, forse il più grande..

Waiting For The Sun

L’anno seguente venne pubblicato il quinto disco in studio della band; “Morrison Hotel”. Un lavoro che, seppur non riuscendo a ripristinare la misticità delle origini, mostra un discreto miglioramento qualitativo, oltre che un furbesco cambio di rotta. Si vira decisamente su suoni più duri, cavalcando l’onda dell’hard rock allora neonato. I Doors, che avevano anticipato la corrente con alcuni gioielli al vetriolo quali “Break on Through” o “Love Two Times”, si trovano ora costretti ad inseguire la moda per fare successo. Poco male, meglio un disco privo di originalità, ma ascoltabile, che il contrario.

Non mancano le eccezioni, come la noiosa e ridondante “Blue Sunday”, o la dozzinale “Land Ho!”, ma la sensazione che prevale è un contenuto ma deciso senso di piacevolezza ed interesse.

Le vedute desertiche di “Indian Summer”, la corsa sinuosa di “Queen of the Highway”, gli abbozzi folk blues di “Maggie McGill”, i giochi amorosi di “The Spy” sono tutti prodotti del carniere Doors, solo lievemente aggiornati.

Ciò che invece stupisce è la veemenza animalesca di altri brani. La rapida e pungente “You Make Me Real” è un viaggio allucinogeno come non lo si sentiva dai tempi di “Soul Kitchen”. Stesso discorso per “Ship of Fools”, che ricorda i soli febbrili del Manzarek di tre anni prima. La secca e ben scandita “Peace Frog” è un boogie fluorescente, di ottima fattura.

Waiting for the Sun”, brano scartato dall’omonimo disco, è uno dei momenti migliori dei Doors. Una nenia spettrale che esplode in un ritornello epico.

Tuttavia l’immortalità tocca alla traccia di apertura, quell’hard rock mischiato al country che ha fatto la fortuna di “Roadhouse Blues”, non solo il capolavoro del disco, ma anche uno dei pezzi più famosi e caratteristici dei quattro. Troviamo infatti tutte le prerogative del gruppo. Un riff assassino, il vociare disordinato e scabro di Morrison, i fraseggi alle testiere, la ritmica insistente ed una forte atmosfera bucolico – selvaggia.

Morrison Hotel” è un lavoro che lascia quindi ben sperare in una rinascita. Non è un disco eccelso, ma siamo fortunatamente ben lontani dalla sterilità e dalla noia di “The Soft Parade”.

Il successo non diminuisce, anche se internamente alla band le cose non vanno bene soprattutto per colpa di Morrison, e la Elektra pubblica un doppio disco dal vivo: “Absolutely Live”. Un buon disco, ricco di brani inediti, cover e di gran parte dei cavalli di battaglia del gruppo. Inoltre, l’esecuzione live è accurata e coinvolgente.

Insomma, il disco perfetto per rilanciare i Doors, se non fosse che Morrison si rifiutò di andare in tour per il definitivo ritrovamento di popolarità.

Nei mesi successivi la band lavorò duro per riuscire a produrre un nuovo capolavoro. Morrison stesso tentò di risalire la china, non sempre con successo.

Ciò che ne venne fuori è “L.A. Woman”, il disco della riscossa prima della tragedia.

Il disco è formato da claustrofobici e notturni paesaggi moderni, fatti di cemento e fango, ma non per questo asettici. Anzi, troviamo qui un calore umano ed una passione bruciante che da tempo mancavano nella musica della band. Troviamo una sempre maggiore influenza Blues ed un uso sempre minore della chitarra elettrica. Nasce così un nuovo suono Doors, questa volta unico ed inimitabile, non come quello mutuato da altri di “Morrison Hotel”. Magnifici esempi sono “The Changeling”, spumeggiante danza impressionista, o la title track, fangosa cavalcata metropolitana, condita da una sferzante prova di Morrison, che in questo disco cambia tono, come alla ricerca di un nuovo status. In “Cars Hiss By My Window” e “Been Down So Long” sembra un vecchio, ma ancora ardente, cantastorie Blues, in “L'America” un cinico ed ipnotico Lou Reed della psichedelia. Essa fa infatti il suo ritorno nei brani del gruppo, dopo un lungo letargo. La troviamo nei ricami subliminali di “Hyacinth House”.

Crawling King Snake” è uno degli episodi più sulfurei e dal suono blues; un lento trip notturno. Ancora più potente e graffiante è “The WASP (Texas Radio and the Big Beat)”, marmorea e stordente esplosione blues, in cui Morrison appare in splendida forma.

Love Her Madly” fu un singolo di discreto successo, un Rhythm n’ Blues colorato dalla tastiere ipnotiche di Manzarek, ancora una volta protagonista indiscusso delle musiche e marchio di fabbrica della band.

Tuttavia, questo disco verrà ricordato soprattutto per l’ultima traccia. Quel viaggio senza ritorno che è “Riders on the Storm”, la rinascita, la ritrovata vena poetica ed artistica, che corrisponde però alla fine. L’ultimo brano dei Doors non poteva che essere così. Quale gruppo se non i Doors ha confuso vita e morte, inizio e fine, luci e ombre. La fine della carriera dei Doors corrisponde proprio a quella tanto aspettata rinascita artistica. Un lavoro eccelso alle tastiere, suadenti e ficcanti come non mai, ed il canto desolato di Morrison, che declama sornione la sua poesia. Un’atmosfera riprodotta perfettamente, con il suono di un temporale a fare da cornice ai sette minuti di alterazione della psiche che formano questa “Riders On The Storm”. Un brano che evoca luoghi, materializza sensazioni e ci fa, ancora una volta, superare la Porte della Percezione. Come si può ben osservare, il punto d’arrivo corrisponde alla premessa iniziale.

Qui finisce la vicenda dei Doors ed inizia la leggenda di Jim Morrison e la sua band.

When The Music's Over

The End

Nel Marzo del 1971 Morrison parte con la compagna Pamela per Parigi. Il suo intento era quello di prendersi un periodo di pausa, in cui poter recuperare la lucidità che gli mancava da troppo tempo. Egli aveva numerosi progetti per il futuro, e non solo musicali.

Tuttavia, il 2 Luglio dello stesso anno fu trovato morto nella sua vasca da bagno, a causa di un arresto cardiaco, almeno secondo il referto medico. La Morte aveva portato via con sé uno dei suoi più grandi adepti. Non ci è dato sapere quale sensazione provò Jim pochi istanti prima di morire, ma ci piace pensare che per lui fu l’ultimo, irreversibile, e forse anche desiderato, passo oltre le Porte.

Nacque così la leggenda di Jim Morrison, agnello sacrificale del Rock immolatosi tra le fiamme del peccato. C’è chi crede che egli sia ancora vivo, soprattutto a causa del fatto che i funerali furono celebrati in gran fretta e senza avvisare la stampa e gli stessi Doors. Tralasciando queste tesi bislacche, il fatto più evidente della morte del Re Lucertola è che gli donò l’immortalità, come successe per Jimi Hendrix e Janis Joplin poco tempo prima.

È così che prese vita il culto di Mr. Mojo Risin, autentica icona del XX secolo. La sua fama non accenna a cessare e le generazioni dei decenni seguenti ne sono rimaste incantate quasi quanto le contemporanee. Di certo egli fu una delle figure più autentiche e significative della sua epoca e segnò indelebilmente l’arte e la musica degli anni successivi.

Il merito va anche agli altri tre Doors, che tradussero con genialità il linguaggio totalizzante del loro leader. Anche se, in seguito alla sua morte, tentarono di proseguire la carriera, fallendo completamente. A livello musicale, la produzione della band losangelina si inserì con una propria peculiarità nel filone psichedelico westcoastiano, ma diede un contributo non indifferente anche all’Hard Rock e alla musica Dark, nata un decennio dopo. Nonostante le numerose band che rimasero influenzate, la formula dei Doors è una delle più inimitabili e peculiari di tutta la storia del rock.

“I’m the Lizard King, I can do anything”

Ancora oggi l’icona del Re Lucertola è vivida e presente; ed è facile capire perché. Un fascino innato, uno stile canoro tenebroso, evocativo e drammatico ed una turbolenta ricerca mistica fanno del leader dei Doors uno dei personaggi della cultura Rock che più ha debordato dal suo contesto, diventando un punto di riferimento ed incarnando forse più di tutti gli altri l’idea di rock star.

Non senza imprecisioni però. Infatti l’idea comune che si ha di Jim Morrison è spesso approssimativa, generica, standardizzata. Chi lo vede come un rozzo trasgressore sbaglia; ma è altrettanto in errore chi lo dipinge come un profeta. Egli era infatti sia l’uno che l’altro, ma allo stesso tempo nessuno dei due. Di certo era una persona con una cultura profonda e radicata, un ragazzo molto sensibile ed intelligente; già al liceo Jim era visto come un mezzo artista, che si lanciava in dichiarazioni poetiche alle ragazze. Questo profondo senso poetico si riflette pesantemente nelle sue liriche e, più in generale, nelle sue performance. Va poi detto che Morrison sapeva attirare l’attenzione su di sé con estrema facilità; fu sempre un elemento imprevedibile ed eccellente in tutto quello che faceva, fin dalle prime esperienze artistiche all’UCLA. È qui che nasce l’arte psicologica, lirica e visiva del cantante. La sua innata capacità di stupire, di coinvolgere ed affascinare non faceva altro che rendergli più facile il compito.

La trasgressione, la droga, il sesso, l’alcol sono fattori influenti ma non centrali nella sua opera. Più che altro, essi dimostrano con chiarezza quanto Morrison fosse debole ed “umano”, il contrario di quella divinità del rock che molti tratteggiano. Le sue stesse dichiarazioni a riguardo vanno interpretate come lampanti dimostrazioni di immaturità, inquietudine quasi adolescenziale, nonché come testimonianza di quanto Morrison volesse divertirsi e sballarsi. Jim era sì un poeta, era si un esploratore del subconscio, ma era anche un ragazzo vivace ed un instancabile guitto, ma anche sufficientemente lucido da giocare con la sua icona ( come quando in “When the Music’s over” ironizza “cancellate il mio abbonamento alla resurrezione”). La vena poetica era presente, ma conviveva con altri aspetti meno alti e nobili della personalità del cantante. Tale lineamento caratteriale non sminuisce minimamente lo spessore artistico di Morrison; anzi, contribuisce a dare sempre maggiore valore alla sua opera, essendo essa il frutto sincero ed incondizionato di un animo tormentato ed inquieto.

Tutta la sua storia di dipendenze ed alcoolismo va semplicemente analizzata sotto il profilo biografico e non artistico. La sua esplorazione dell’infinito aveva un valore universale e poetico, più che fisico e chimico. Gli acidi, la cocaina ed il resto erano semplici strumenti, usati allo scopo di estraniare l’individuo dalla realtà. Non facevano di certo parte di un mediato piano di autodistruzione. Morrison sapeva quanto facesse male la droga e di certo non ne incitava l’utilizzo. Oltretutto, sono ben altri i motivi per cui egli è ancora oggi ricordato ad amato.

Diversi anni dopo la sua morte, il mito di Morrison è ancora presente, tanto che Oliver Stone ha realizzato un film, chiamato “The Doors”. Un’opera che forse standardizza troppo la figura di Morrison, ma sa anche rappresentare in modo suggestivo la continua ricerca di uno stato di alterazione totale e straniamento dalla realtà che perseguitò la rock star. Un lavoro controverso, come ogni cosa dopo la morte del Re Lucertola.

Tutto questo contribuisce a rendere il cantante dei Doors una delle figure capitali della storia della musica.

C Commenti

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ozzy(d) alle 18:03 del 21 agosto 2007 ha scritto:

molto bella la monografia, ma...

"già al liceo Jim era visto come un mezzo artista, che si lanciava in dichiarazioni poetiche alle ragazze."...direi che questa frase del nostro bravo recensore racchiude la statura poetica di Morrison: poesia da diario delle scuole superiori. Concordo sopratutto sul mezzo artista: purtroppo per lui, non è mai diventato un vero artista. Figura simbolo per capire l'evoluzione della figura di rockstar, l'anello di congiunzione tra Elvis presley e Johnny Rotten: ma le pagine migliori dei Doors sono da ascrivere a Krieger e Densmore a mio avviso.

I Doors sono stati molto sopravvalutati: un gruppo fondamentale per capire i loro anni, ma il tempo ha mostrato rughe impietose sulla loro musica. Come si fa a dire che "Light my fire" è una delle canzoni più belle di sempre? E' un grande pezzo pop,con tastiere barocche e legnose e con un testo che, passata l'onda ribelle degli anni 60,può eccitare giusto le ragazzine. Non a caso è stata rifatta da diverse boy band alla Will Young. Ma se parliamo di arte, non vale una sola strofa di "Venus in Furs" dei Velvet Underground, tanto per fare un esempio. Pure nel catalogo della band californiana si trovano pezzi ben più incisivi, da "When the music's over" a "Spanish caravan".

Mboma alle 17:14 del 28 agosto 2007 ha scritto:

the end of night we tried to die....

veramente una pagina intensa ed esaustiva. Bravo!

simone coacci alle 19:59 del 6 settembre 2007 ha scritto:

A dissident is here...

Mio malgrado devo dissentire dal mitico Gulliver con la cui fiammeggiante affabulazione mi sono spesso trovato in perfetta sintonia. Sta bene se parliamo della mitologia artificiosa che è stata appiccicata al gruppo dal cinema,dai tabloid,dallo show biz e da tutti i rami del marketing discografico,giusto rilevare i meriti dei tre immensi compagni di "viaggio" di Jim,troppo spesso relegati al rango di patetiche e sbiadite figurine di contorno (vedi il ritratto che ne fa Oliver Stone nel suo enfatico e storicamente inattendibile "The Doors"),sacrosanta l'ammissione della caduta verticale subita dalla qualità dei loro lavori dopo Strange Days (anche se L.A. Woman li riscatta in parte),ma altri passaggi mi paiono sinceramente ingenerosi: accanto alla paccottiglia più pubblicizzata e agli aforismi per ragazzetti in calore Jim ha scritto versi stupendi,fra i più originali della letteratura americana del dopoguerra,addirittura,(The Crystal Ship,The End,Riders on the Storm)e il fatto che come poeta sapesse esattamente quello che faceva è testimoniato dal disco postumo "An american prayer" in cui le sue liriche risaltano in tutta la loro complessità ed efficacia evocativa e dal fatto che molte sue opere siano oggi materia di studio nei corsi di scrittura creativa di alcune delle più prestigiose università americane. Per il resto,trovo,che "The Doors" regga perfettamente il confronto con la "banana" dei Velvet,la sola differenza è che mentre il secondo ha influenzato praticamente tutta la musica alternativa dei decenni successivi,il primo è rimasto un oggetto liberty-psicotropo,un po' avulso e solipsitico nel suo eccelso splendore.

Poi ognuno è libero di pensarla come vuole e nemmeno il tempo potrà mai ascrivere in toto la ragione all'uno o all'altro. Ma d'altronde,chi la vuole? Si fa per parlare e arrichire le reciproche opionini. Perdonate il mio elefantiaco sproloquio.Cosi non si fa per amore della musica.

Ciao a tutti e buona storia della musica.

Marco_Biasio alle 17:44 del 13 settembre 2007 ha scritto:

Le porte della percezione sono sempre aperte!

Grande gruppo, i Doors, forse solamente un pelino inferiori ai Velvet Underground (con e senza la grande Nico) e ai King Crimson. Bellissima la monografia.

Fabio Busi alle 17:35 del 23 novembre 2007 ha scritto:

grazie mille per tutti i complimenti

DucaViola alle 17:31 del 5 agosto 2009 ha scritto:

boh

ma hanno fatto tutte queste cose i Doors? Non me ne ero mai accorto. Io credevo che erano un gruppo di musicisti che hanno sfruttato un belloccio un po' tamarro con una certa capacità di scrittura finito poi come adesivo sopra le fiat punto o come poster nelle camere delle ragazzine.

target alle 17:36 del 5 agosto 2009 ha scritto:

Se dovessi disegnare la parola "provocazione" a pictionary disegnerei l'avatar di ducaviola.

simone coacci alle 18:22 del 5 agosto 2009 ha scritto:

RE:

Eggià. O quello o dovrei cominciare a pensare che l'eccessiva esposizione ai dischi dei Beatles provoca danni permanenti.

DucaViola alle 17:46 del 5 agosto 2009 ha scritto:

ma hanno fatto tutto questo i Doors? Non me ne ero mai accorto... pensavo fosse un gruppo di musicisti discutibili impegnati a sfruttare un belloccio un po' tamarro e gran scopatore con una discreta attitudine per la scrittura finito poi come adesivo sopra le fiat punto e come poster nelle camere di alcune ragazzine che lo hanno conosciuto grazie al film di Oliver Stone.

simone coacci alle 18:35 del 5 agosto 2009 ha scritto:

Faccina sorridente. Era una battuta, naturalmente.

PetoMan 2.0 evolution alle 9:40 del 20 agosto 2010 ha scritto:

Bravo, bello scritto. Sono uno di quelli che ha sempre considerato i Doors un gran gruppo indipendentemente dalla figura leggendaria di Jimbo. I tre musicisti sapevano il fatto loro ed avevano uno stile veramente unico. Jim ci metteva in più il carisma, i testi poetici (a volte all'acqua di rose ma tant'è) e l'immagine da star maledetta. Ma aldilà della glorificazione ricevuta dai fans (forse eccessiva?), erano un vero gruppo rock, di quelli con due pa**e così.

Anticitizen1 alle 3:16 del 6 settembre 2011 ha scritto:

Doors wide shut

I Doors furono tra i gruppi piu' originali,rivoluzionari ed importanti,ma solo i primi due album sono davvero degni di essere ricordati (e gia' il secondo e' nettamente inferiore al primo).Il blues ben più ortodosso del loro ultimo album,L.A.Woman,acclamato dalla maggioranza della critica come una rinascita artistica,rappresenta,al contrario, "la pensione" di Jim Morrison,il testamento sonoro della sua precoce vecchiaia,redatto forse nel presentimento di una morte prossima ventura (e i componimenti del postumo An American Prayer lo sono ancora di più);un disco rantolato in tono stravissuto (e mollemente adagiato) da un personaggio che,ormai,aveva poco da spartire con la figura messianica dotata di irriverente carica erotica,invasata prorompenza e ispirato misticismo che fu agli esordi.

Rimane,comunque,uno dei massimi istrioni della cultura americana e,probabilmente,la rockstar PER ECCELLENZA,ruolo di cui era ben consapevole e che li stava particolarmente stretto; desiderava,infatti,essere ricordato più come un poeta che come un "cantante",ma sia Deserto che Notte Americana,le sue raccolte di poesie,non sono poi granché;se non fosse mai entrato in uno studio di registrazione o non avesse mai calcato un palco per dar voce alle sue rappresentazioni sciamanico-dionisiache pochissimi ne conserverebbero la memoria.

luiss alle 14:58 del 4 dicembre 2011 ha scritto:

saluti

uno dei gruppi più grandi della storia del rock, con i loro alti e bassi , molti alti per la verità e qualche clamoroso basso troppo basso . come è capitato in tutte le migliori band dell epoca del resto . non dimentichiamo che il valore di un gruppo dipende da troppe variabili per un giudizio affrettato e sisntetico ... uno su tutti la produzione , cioè colui che tira furoi i soldini per venedere i pezzi... lo stato fisisco e mentale della band e del cantante o leader.. etc etc... credo che alla fine quello che hanno avuto i Doors non lo hanno avuto Jimi Hendrix i rolling stones i led zeppelin etc etc e viceversaa.. ogni gruppo si compensa in un unico grande movimento musicale e artistico... poi certo tutto è soggettivo ...