A Un Ragazzo di Strada

Un Ragazzo di Strada

 

I nuovi vicini di casa erano appena arrivati dalla Sicilia. A metà degli anni ’80, e in un paese che era conosciuto più come “AllaFIAT” che con il suo vero nome, non era certo una novità. “AllaFIAT” la novità erano i “barotti”, i piemontesi che si nascondevano nelle campagne e uscivano solo la mattina presto per comprare il pane, sperando di non incontrare troppi “napuli”. I nuovi vicini si sistemarono al piano sopra di noi, trasportando elettrodomestici e mobilia su per le scale per un pomeriggio intero. La tecnica era semplice: la moglie (Maria, una donna dai capelli neri come il catrame e lo sguardo solennemente incazzato) e i due figli adolescenti (Michele e Marianna) si limitavano a caricare comò, poltroncine in pelle, lampade e lavandini in ceramica sulla schiena del capo-famiglia Antonio. Antonio (prontamente ribattezzato “Antonio il Siciliano”) era un uomo che sfiorava a fatica il metro e sessanta, abbronzato come un haitiano nonostante l’inverno inoltrato e dotato di un paio di anomali occhi verdi “alla Terence Hill”.

Quando non andava a lavoro a bordo di un camion cabinato carico di mattoni e sacchi di cemento, Antonio il Siciliano usciva dal garage con la sua 127 Sport 70hp arancione, orgoglioso lascito dei tardi anni ’70. Quel bolide corazzato era in realtà l’unico avamposto di modernità nella vita di Antonio. Perché “Tony il Muratore “ era fermo negli anni ’60. Quando la sera caricava Maria, Michele e Marianna sui sedili in finta pelle nero-arancione per “andare a comprare il gelato”, l’autoradio sputava sempre fuori musica beat italiana degli anni ’60. La prima canzone registrata su quella cassetta (perché Tony in macchina aveva solo un bloc-notes attaccato con una ventosa al parabrezza, una cartina dell'Italia, un rosario appeso allo specchietto retrovisore e quella cassetta) era “Un Ragazzo di Strada” de I Corvi. Per intere estati, Antonio e famiglia risalivano la rampa del garage quasi ogni sera con i finestrini aperti e I Corvi a tutto volume. La cassetta conteneva anche altre perle che a volte sentivamo provenire dal garage la domenica mattina, giorno dedicato alla pulizia della 127: “Bang Bang” cantata dall'Equipe 84, “Una Bambolina che fa no, no, no...” cantata da Michel Polnareff, I Rokes e la loro versione di “Che colpa abbiamo noi” , I Profeti con “Era Bella”, Gli Uragani che osavano tradurre gli Who (“Con Quella Voce” ). Eppure, la mia attenzione era tutta per I Corvi: “Un Ragazzo di Strada” non era beat, era garage-rock marcio e polveroso. Il testo invertiva i canoni della canzone d'amore tipica dei '60: il bello e innamorato veniva sostituito da un ribelle (“Io sono quel che sono/non faccio la vita che fai/Io vivo ai margini della città/non vivo come te”), che minaccia la sua amata (“Io sono un poco di buono/lasciami in pace perchè/sono un ragazzo di strada”) accusandola di superficialità (“...e tu ti prendi gioco di me”) e rimarcando la differenza di condizione sociale (“Tu sei di un altro mondo/hai tutto quello che vuoi/conosco quel che vale/una ragazza come te”). Queste parole, unite all'immagine “western” di Antonio il Siciliano con il braccio fuori dal finestrino e il mozzicone di MS acceso tra le labbra, stimolavano il mio immaginario infantile più di qualsiasi cartone animato.

 

Nell'arco di pochi mesi, i nuovi vicini divennero nostri amici. Mio padre ogni tanto aiutava Antonio nel lavoro in cantiere e mia madre si fermava a chiacchierare sul pianerottolo con Maria. La signora Maria in realtà era una donna piuttosto chiusa, quasi altezzosa. Non parlava mai del marito o dei figli e passava le giornate davanti alla tv e dietro ai fornelli. Al piano di sopra la regina era lei, e con lei regnava il silenzio: niente discussioni, niente rumori notturni, niente beat a tutto volume. L'unica attività dei nostri vicini era il solito stanco copione serale: garage, 127 Sport, “Un Ragazzo di Strada” e via verso la gelateria.

 

Questa calma fu spazzata via un sabato sera d’Agosto. Ero affacciato al balcone in attesa che Antonio aggredisse la rampa del garage con i suoi 70 cavalli-vapore e I Corvi a volume da stadio, e quello che accadde fu sconvolgente: dal piano di sopra si sentì un tonfo, poi una serie di colpi sul pavimento ed infine una latrato lungo e straziante, qualcosa a metà tra l’Otis Redding di “I’ve been loving you too long” e il Robert Plant di “Immigrant Song”. Mentre mio padre si fiondava lungo le scale vidi Antonio uscire dal portone di corsa, con la camicia bianca sbottonata sul petto e una borsa sotto braccio. Raggiunse il garage, mise in moto la 127 e schizzò via con la velocità di un rapinatore: a metà rampa, al caos totale della scena si aggiunse la colonna sonora: “Io sono quel che sono…”. Antonio il Muratore, Antonio il Siciliano, il ribelle, il “Ragazzo di Strada” aveva l’amante. La signora Maria fu portata via in ambulanza mentre bestemmiava e imprecava in dialetto con la schiuma alla bocca e la faccia gonfia di rabbia. Non tornò mai più. La settimana dopo, un camion targato Catania portò via tutto l’arredamento.

 

Antonio e la sua 127 si materializzarono improvvisamente dopo circa un mese. Dall’autoradio provenivano le note dei The Blackmen e della loro “Il Vagabondo” (“Come un vagabondo me ne andrò/anche sulla luna se vorrò/mi han stancato le tue lacrime/quelle tue false lacrime/ma se vuoi continua a piangere/io con te non ci sto più” ) mentre dal sedile del passeggero scese lei, Larisa. L’amante di Antonio il Muratore era una ventiquatrenne russa, alta venti centimetri in più di lui e bella come un’attrice degli anni trenta.

 

Vissero insieme gioiosi come due allodole per quasi un anno. Antonio si faceva in quattro per renderla felice e per non far mancare i soldi ai figli, che erano definitivamente tornati in Sicilia. Aveva trovato un secondo lavoro: distribuiva le brioches calde nei bar, tutte le mattine dalle quattro alle otto. Poi andava in cantiere. E la sera riusciva anche a uscire con Larisa: garage, 127 Sport, “Un Ragazzo di Strada” e via. La domenica mattina andava sempre in garage a prendersi cura della sua auto, e mentre scendeva le scale suonava il nostro campanello, scambiava due parole a mezza voce con mio padre e gli lasciava una scatola di cartone ricolma di ciambelle, cannoli e croissant. Io lo adoravo: era sempre sorridente, attivo, entusiasta e gentile con tutti. Era l'uomo più felice del mondo.

 

Una mattina squillò il telefono. Erano le otto. Rispose mio padre e subito fece una faccia che non mi piacque. Riattaccò la cornetta e corse su per le scale dicendo: “tu resta qui”. Capii subito che era uno di quei momenti in cui se mi avesse detto di abbaiare, avrei abbaiato senza pormi tante domande. Mentre ero immobile come una statua nell’ingresso di casa, squillò di nuovo il telefono. Risposi. Era Antonio: “Fabio…”. Mi resi conto solo allora che non mi aveva mai parlato. Ogni tanto mi dava una pacca sulla spalla, e quando veniva a casa a trovare mio padre mi chiedeva solo: “Come va, piccirì?”. Quella volta, al telefono, parlo eccome: “Fabio sono Tony, tuo papà è su da me?”. “” – e aggiunsi – “Sta bussando ma non apre nessuno”. La sua voce sembrò strozzarsi: “Vai su e digli che deve sfasciare la porta. Muoviti Fabio, digli che deve sfondare la porta!”. Il suo tono disperato non mi lasciava scampo, infransi gli ordini di mio padre e lo raggiunsi: "Ha detto Antonio che devi sfondare la porta”. Mio padre sgranò gli occhi e per un attimo sembrò sul punto di scoppiare a ridere: iniziò a prendere a calci la porta bestemmiando e facendo un tale casino che dopo pochi minuti lungo le scale si era radunato mezzo quartiere. Nessuno sembrava capire cosa stesse succedendo, ma tutti si misero a colpire quella porta finchè non si schiantò a terra. Entrò solo mio padre, mentre la piccola folla osservava dal pianerottolo. La casa era in ordine, vidi un vaso pieno di fiori in mezzo al tavolo, un vecchio poster dei Dik Dik appeso in soggiorno e un divano arancione. Ma Larisa non c’era, e non sarebbe mai più tornata.

 

Non tornò neanche Antonio, non telefonò e non diede mai più sue notizie. Dopo qualche mese i vigili urbani portarono via il camion che era rimasto parcheggiato sotto casa pieno di mattoni e attrezzi da lavoro. Il piano di sopra rimase sfitto per un po’, poi arrivarono una coppia di ingegneri silenziosi quanto antipatici. Provammo ad avere notizie di Antonio e di Larisa. Mia madre provò anche a chiamare la signora Maria in Sicilia, ma lei fece capire che la cosa non le interessava, e che anche noi avremmo dovuto farci i fatti nostri. Io proprio non capivo: due persone erano sparite nel nulla e nessuno se ne interessava. E la 127, che fine aveva fatto la 127? Con il tempo, vennero fuori alcune teorie. L’edicolante del pian terreno sosteneva di aver letto del ritrovamento di un cadavere carbonizzato dentro una 127 Sport, e ipotizzava quindi una fuga di Larisa in Russia con conseguente suicidio di Antonio. L’idea che Antonio si fosse ammazzato subito dopo avermi parlato per la prima volta mi toglieva il sonno. La panettiera, che di Antonio era cugina di secondo grado, disse che era tornato a vivere con Maria in Sicilia, e che Larisa era scappata per la delusione. La telefonata di Antonio quindi si spiegava: aveva paura che Larisa avesse compiuto una pazzia. Ma c’erano dei punti oscuri comunque. Perché farlo di nascosto? Maria era sempre sua moglie. Onofrio, un poliziotto in pensione che abitava al quinto piano, disse che Antonio – pochi mesi prima – gli aveva chiesto un consiglio perché riceveva minacce dalla famiglia di Maria, nota per essere affiliata ad un noto clan mafioso catanese.

 

La verità ufficiale non si è mai saputa. Ma spesso mi viene in mente il sorriso di Antonio quando apriva la portiera per far entrare Larisa e contemporaneamente faceva uscire I Corvi dall’abitacolo: magari l’intro “alla Doors”, oppure il minuto 00:28 quando la voce di Angelo Ravasini si increspa gridando “Sono un ragazzo di strada”, o ancora il minuto 01:04, quando parte un solo di chitarra distorto e sporchissimo che dura quasi trenta secondi. E in onore di Antonio il Siciliano ho ascoltato “Un Ragazzo di Strada” centinaia di volte, ho cercato il brano originale dei Brogues (“I ain't no miracle worker”, leggermente più veloce e “fuzz”), le versioni live (con il corvo Alfredo appollaiato sulla paletta del basso di Gimmi Ferrari), mi sono innamorato di ogni versione possibile, da quella “wave” di Ivan Cattaneo a quella punk degli Skiantos, da quelle riuscite alla grande (come quella di Tonino Carotone, che ad un certo punto piazza lì un “Hey Fighettiii” da antologia) a quelle che preferirei dimenticare.

 

Poco tempo fa, alla Rai andò in onda l'ennesima versione di “Un Ragazzo di Strada”, eseguita (male) dal vivo da Vasco Rossi. Mia madre quasi mi lesse nel pensiero: “Chissà che fine ha fatto Antonio. Non si è mai più saputo niente”. Io buttai lì i miei sospetti: “Secondo me ci ha fregati tutti, e adesso sarà in Russia con Larisa, la 127 Sport e I Corvi a tutto volume nell’autoradio”. Mio padre fissava il vuoto in direzione della rampa del garage, ma non riuscì a trattenere un sorriso.

 

C Commenti

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target alle 10:34 del 9 gennaio 2012 ha scritto:

Fabio, ti voglio bene.

Marco_Biasio alle 11:53 del 9 gennaio 2012 ha scritto:

Prosa veloce, scattante, coinvolgente. Fabio, ora posso dire ufficialmente che, dopo tanti sospetti, è arrivata la conferma: sei un nuovo Stefano Benni. Questo articolo è quasi più bello di quell'altro, davvero...

bargeld alle 17:17 del 9 gennaio 2012 ha scritto:

Mi fai annegare, maledetto! Grazie, Fab.

Dr.Paul alle 17:32 del 9 gennaio 2012 ha scritto:

che storia fab! "Un Ragazzo di Strada” de I Corvi è fica, ma è una delle poche cose beat italiano che conosco! Un'altra è "Una Bambolina che fa no, no, no" ma nella versione 1966 de I Quelli, la band che poi diventerà la PFM, ai tempi di bambolina c'era ancora teo teocoli alla voce...quel 45 giri oggi ha un discreto valore commerciale! quando deciderò di cambiare macchina lo vendo ghghgh...

Emiliano alle 19:30 del 9 gennaio 2012 ha scritto:

Bravo Fab.

fabfabfab, autore, alle 0:00 del 12 gennaio 2012 ha scritto:

Grazie a tutti, sempre troppo buoni.