A Unità nel movimento - Intervista agli Anatrofobia

Unità nel movimento - Intervista agli Anatrofobia

I Beatles e Mark Strand, valzer tradizionali e The Van Pelt, movimento e unità e unità nel movimento, un suono ancora unico e in perenne rinnovamento dopo venticinque anni di onorata attività (e uno iato discografico che sembra quasi interminabile). Tra le punte di diamante dell’Italia sotterranea, i piemontesi Anatrofobia sono finalmente tornati, lo scorso giugno, con un disco ostico e a tratti indecifrabile ma affascinantissimo, “Canto Fermo”. Ce lo facciamo raccontare dal bassista Luca Cartolari e da Cristina Trotto Gatta, new entry alla voce.

1) Qual è il tipo di esigenza che spinge gli Anatrofobia a tornare sulle scene, con un disco nuovo, dopo ben tredici anni e con una formazione profondamente rinnovata?

Luca: Innanzitutto grazie per la passione che hai conservato per la nostra musica in tutti questi anni, è molto gratificante per noi. In effetti è passato tantissimo tempo dall’ultimo disco… Dopo tanti tentativi, dopo molti repertori montati e rismontati, dopo perfino dei dischi finiti ma che per un motivo o per l’altro sono rimasti nel cassetto, finalmente abbiamo ottenuto un risultato convincente, e ci è sembrato che valesse la pena fermarlo su disco e condividerlo. Abbiamo lavorato molto in questi anni per trovare un suono e un modo che ci rappresentasse per quello che siamo oggi, senza ricadere nei vecchi cliché. Nel 2015, inoltre, abbiamo deciso di coinvolgere Cristina, e abbiamo intrapreso diverse strade insieme a lei prima di trovare quella giusta. L’introduzione della voce e di contenuti testuali in un repertorio storicamente strumentale come il nostro non è stato facile, soprattutto perché ci interessava un rapporto con una voce e dei contenuti che suonassero naturali nel nostro contesto e non semplicemente “incollati sopra”. Dopo tantissimo lavoro l’epifania è arrivata con “Garden Song”, il brano che abbiamo registrato a inizio 2019 per la raccolta celebrativa dei vent’anni di Wallace Records. Poco prima Alessandro [Cartolari, n.d.r.] aveva deciso di prendersi una pausa da Anatrofobia e di dedicarsi ai suoi altri progetti (Masche, Extrema Ratio, The Turin Horse). Forse è stata proprio la mancanza di un elemento fondamentale del nostro suono storico - che casualmente è stata quella di Alessandro, ma poteva essere quella di qualsiasi altro - la leva che ci ha obbligati ma che ha anche dato una spinta concreta a guardare veramente oltre e ci ha permesso di trovare una strada espressiva nuova. Abbiamo costruito un repertorio nuovo che reggesse sulla formazione basso batteria voce, poi abbiamo coinvolto Paolo [Cantù, n.d.r.], il cui apporto è stato poi importantissimo per valorizzare il suono d’insieme di “Canto Fermo”.

2) “Canto Fermo” non ha praticamente nulla da spartire con la vostra discografia precedente. Da che cosa o da dove sono nati i brani che ne compongono la scaletta? In che cosa è differita la loro scrittura rispetto alle esperienze pregresse?

Luca: Certamente “Canto Fermo” rappresenta per noi un nuovo inizio, e contiene tantissime novità. Del resto, se non ci fossero state, non lo avremmo nemmeno inciso, avremmo continuato a smontare e a rimontare repertori. Secondo me tra le tante novità, una delle più significative è il nuovo ruolo assunto dalle improvvisazioni: più essenziali e circoscritte, sempre con un ruolo “narrativo”. A differenza del passato qui non ci sono quasi mai solisti, “Canto Fermo” è un disco corale. Le improvvisazioni sono sempre dentro alle strutture, tanto che è difficile capire dove inizi la scrittura e termini l’improvvisazione.Poi ci sono diversi brani cantati, addirittura delle specie di canzoni, e questa è sicuramente una grande novità per Anatrofobia. E poi, evidentemente, non c’è il sax di Alessandro, e la mancanza sua e del suo sax sono naturalmente un’assenza significativa.

È stata una nostra volontà precisa quella di guardare da un’altra parte, anche quando Alessandro era ancora stabilmente con noi. Ma io penso che in realtà quello che ci ha dato la possibilità di andare verso “Canto Fermo” sia stato anche il legame molto stabile e ancora per noi profondamente significativo con quello che è il nostro suono da sempre, forse meno esplicito e più sottile oggi, direi più maturo e meno esibito, più funzionale. Ma il lavoro di composizione mio e l’approccio alla costruzione dei brani nel complesso è stato in realtà lo stesso di sempre. Tanto è vero che, per esempio, abbiamo deciso di inserire nella scaletta del disco “Nero Di Seppia, brano che avevamo già pubblicato in “Ruote Che Girano A Vuoto”, il nostro secondo CD in studio, e che abbiamo riproposto in maniera direi piuttosto fedele all’originale. È un brano che amo molto e il cui andamento mi sembrava particolarmente adatto al clima del nuovo disco, e in effetti lo è così tanto che non si nota il fatto che sia un pezzo che abbiamo scritto 20 anni fa, esattamente così. Oltre a questo, in generale, trovo che il modo di suonare di Andrea [Biondello, n.d.r.], che caratterizza fortemente il suono di “Canto Fermo”, sia molto simile allo stile di “Frammenti Di Durata” o di “Ruote Che Girano A Vuoto”, suggerendo il tempo senza quasi mai portarlo. Resta forte l’utilizzo dei nostri tipici pattern ritmici asimmetrici, che sorreggono brani importanti del nuovo disco come “Details” e “Rubik”, e che sono da sempre una delle cifre stilistiche di Anatrofobia. E il basso porta sempre con sé il mio gusto per i suoni un po’ kitsch e gotici, non molto lontani da quelli che usavo in “Frammenti Di Durata”. Anche le elaborazioni elettroniche in Csound sono una mia antica passione, e non è detto che in futuro non le riprenda in modo ancora più sistematico. Però naturalmente questo è il punto di vista dall’interno, capisco che di primo impatto un disco di Anatrofobia senza sax e con una voce (femminile oltretutto) faccia un certo effetto. La differenza rispetto al passato per me, e il limite del nostro suono attuale, si sente molto nei live, dove è più difficile bilanciare i suoni di modo da valorizzare le novità e sicuramente se ci sarà occasione di suonare dal vivo sarà necessario lavorare molto su questo aspetto.

3) Qual è l’apporto artistico specifico che hanno introdotto nel gruppo Cristina Trotto Gatta e Paolo Cantù? E perché la scelta di non includere in formazione Alessandro Cartolari?

Luca: Cristina è arrivata nel gruppo grazie ad Alessandro, con cui condivideva il progetto Masche, e ha avuto in “Canto Fermo” e ha tuttora in Anatrofobia un ruolo importantissimo. Ovviamente la scelta e l’elaborazione dei contenuti ha un’importanza fondamentale in un disco, a maggior ragione direi per un gruppo che non si è mai confrontato con questo genere di cose. Cristina ha affrontato questa sfida con passione e garbo, e ha gestito questa responsabilità in maniera molto naturale e semplice ma nello stesso tempo meticolosa. Si è prestata a tentare ogni strada suggerita da noi, prima di riuscire a trovare lei stessa un modo convincente, ha sempre dato priorità al suono prima che alla sua presenza, scegliendo i pezzi in cui intervenire solo se credeva di poter aggiungere valore. Oltre a ciò che è evidente e che si sente nel disco, ha contribuito in modo concreto alla costruzione dei pezzi e del suono, anche nei pezzi in cui non è presente. È una ascoltatrice fine e precisa, riesce a identificare velocemente punti deboli e vizi, e i suoi commenti sono sempre stati molto a fuoco e utili per noi. Inoltre ci ha mostrato l’importanza di curare meglio gli aspetti di comunicazione del gruppo, che non è mai stata una nostra priorità in passato, ma che oggi, per come funzionano le cose in generale, ha un ruolo fondamentale nella diffusione del disco.

Con Paolo desideravamo collaborare da tanto tempo. Ho sempre riconosciuto in lui una sensibilità a noi vicina e nello stesso tempo complementare. Mi interessava anche rafforzare, proprio per l’assenza di Alessandro, altri lati musicali del polistilismo anatrofobico. Inoltre la sua sensibilità era perfetta per migliorare l’amalgama musicale e particolarmente adatta a sorreggere la voce di Cristina. Paolo ha una visione molto ampia e aperta della musica in generale ed è una persona con cui è molto facile confrontarsi, ha messo il suo talento e la sua esperienza a servizio del gruppo, colorando i pezzi di “Canto Fermo”, anche quelli in cui non ha suonato, della sua forte personalità musicale.

Infine, come dicevo, non è stata una scelta nostra quella di non includere Alessandro in formazione. Alessandro ha avuto e continuerà ad avere, se ovviamente lo desidererà, un ruolo in Anatrofobia. Tra l’altro, il 22 agosto avevamo in programma un concerto in quartetto, appunto con Alessandro ma senza Paolo, al festival di Musica Sottolio di Taurianova. Purtroppo il ritorno della pandemia ha indotto gli organizzatori a rimandare il concerto.

Il disco, come tutti i dischi passati, è stato il frutto della collaborazione di tutte le persone coinvolte. Certo il repertorio è stato quasi sempre suggerito da me, ma ognuno di noi ha poi avuto un ruolo fondamentale nel concretizzarlo. Anatrofobia è sempre stato un luogo di incontri musicali: un modo per tentare di far convivere e far fiorire musicisti classici, jazz, rock, folk, dilettanti e professionisti. Anatrofobia è sostanzialmente un gruppo di persone, di musicisti ma non solo, che ama collaborare e portarne avanti la storia. Con gli anni, per impegno e come dire, per fede, io ne sono diventato il principale animatore e organizzatore, ma ognuno di noi, da Andrea ad Alessandro, da Cristina a Paolo, a tutti i musicisti che hanno collaborato al progetto nel tempo, è o è stato importante e ha contribuito a creare la specificità della nostra musica.

4) Capitolo cover. The Van Pelt, Paul Motian, un traditional folk, infine i Beatles. Che geografia estetica ricostruiscono queste scelte? C’è qualcuno che avreste voluto omaggiare e che, per qualche motivo, non ha trovato posto in “Canto Fermo”?

Cristina: La questione delle cover è molto più semplice di quello che potrebbe sembrare. Abbiamo iniziato a studiare questi pezzi quando siamo rimasti in tre, Luca, Andrea e io. Era un momento di ispirazione senza scintille, e, visto che Alessandro per la prima volta non c’era, la priorità in quel momento era trovare un linguaggio nuovo, per stare in piedi in tre. Così ho suggerito di non accanirci sull’ispirazione e di provare a suonare pezzi che conoscevamo bene e a cui eravamo legati in qualche modo, per concentrarci sul modo. Ci è piaciuto molto suonare quei pezzi, tanto che sono diventati in qualche modo nostri e alla fine quasi per caso sono finiti anche nel disco. Abbiamo registrato una ventina di pezzi e abbiamo scelto tra questi quelli che ci convincevano di più, e il fatto che alcuni fossero cover per noi non faceva differenza, è come se dopo averli presi in mano in qualche modo fossero diventati “nostri”. Questo vale per “It Should Have Happened A Long Time Ago” e per “Golden SlumbersThe Speeding Train” invece è stata una scelta mia, il pezzo esisteva prima, e per me suonava come “The Speeding Train”, sentivo una coincidenza fortissima tra quel testo e la musica, e una coerenza con gli altri pezzi che stavamo suonando in generale, così è diventato una specie di cover. Naturalmente è una canzone a cui sono molto legata, e oltre a essere per me molto emozionante cantarla, è stato anche un modo per capire come un testo dritto e quadrato potesse stare in piedi su una struttura musicale tipicamente anatrofobica, a prima vista inospitale per una voce non esibizionista. Il valzer invece si lega a qualcosa che gli Anatrofobia coltivano da sempre, cioè l’interesse per i suoni e le le melodie tradizionali. Alessandro Sosso con cui stavamo studiando alcuni pezzi ci ha proposto questo, e a noi è piaciuto molto, così ha avuto lo stesso percorso degli altri, ed è entrato nel disco.

Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda ci sono molti pezzi che ci piacerebbe suonare a modo nostro, la fissa di Luca da quando lo conosco è di rifare un pezzo di Battisti, chissà se ci riusciremo mai...

5) Tredici anni di iato, oggi, equivalgono praticamente ad un’era geologica. Come avete lasciato l’underground allora e come lo avete ritrovato ora? Soprattutto, ha ancora senso parlare di underground nel 2020?

Luca: La pubblicazione del nuovo disco ci ha messo nelle condizioni migliori per riprendere i contatti con tanti amici, musicisti, giornalisti, associazioni, locali che da anni per un motivo o per l’altro, o senza motivo in effetti, non sentivamo più. È molto bello ritrovare le stesse persone appassionate di allora, e conoscerne di nuove naturalmente. Esiste ancora oggi, certamente una rete di persone che fa musica o che la ospita per concerti, o la recensisce, per pura passione. Certo se ci fossero più ascoltatori, se si vendessero più dischi, se i concerti fossero più frequentati e fosse più semplice organizzarli, se il livello culturale del nostro paese fosse più alto, se ci fosse maggior consapevolezza nel dare valore alle cose, se e se e se, sarebbe bello, certamente, ma non è poi così importante in fondo! Voglio dire, ciò che vuole esistere (e resistere) esiste e basta, nonostante tutto. Quindi, per rispondere alla tua domanda sull’underground italiano: Sì! l’abbiamo ritrovato ancora ricco di belle persone, ma, come sempre è stato del resto, penso che continuerà a rimanere del tutto sotterraneo. L’unica cosa che mi sembra di vedere, e che un po’ mi spiace, è che non c’è stato molto ricambio generazionale, perlomeno nei contesti che frequentiamo noi, ma non abbiamo una visione abbastanza ampia di come sono le cose oggi per dirlo con sicurezza, e in ogni caso penso che probabilmente questo discorso sia valido in generale per un po’ tutti i generi musicali, non solo il nostro.

6) Che fattezze ha quell’entità che ancora ci si ostina a chiamare “jazz italiano contemporaneo”? Gli Anatrofobia ne fanno ancora parte? Ed esiste oggi qualcuno che porti su di sé le chiare tracce della vostra influenza?

Luca: È vero che alcuni dei nostri ascoltatori considerano Anatrofobia un gruppo jazz, ma con tutta onestà, non credo che lo sia, né lo sia mai stato. Non siamo quasi mai  stati invitati a partecipare a festival jazz: forse una volta o due. I nostri dischi sono stati raramente recensiti su riviste, fanzine o webzine di area jazzistica. È vero che abbiamo ospitato musicisti jazz italiani, il più famoso dei quali è probabilmente il violinista Stefano Pastor, ma la musica che abbiamo realizzato, pur utilizzando frequentemente forme improvvisative, non mi sembra assimilabile al jazz. Certo bisognerebbe intendersi con le parole, ma, non credo che nessuno di noi possieda realmente un linguaggio significativo dal punto di vista jazzistico. Non siamo dei solisti jazz. Gli elementi o stilemi jazzistici della nostra musica finiscono nell’acquisire un senso proprio in quanto utilizzati in contesti che jazzistici non sono. Ci ha fatto comunque enorme piacere che per la prima volta un nostro disco sia uscito anche per etichette legate, in un certo qual modo, alla scena jazz italiana come la Aut Records e l’Amirani. Quindi ad essere onesti non credo che, ad oggi, ci siano gruppi che si siano ispirati a noi. Siamo veramente troppo periferici e marginali. Ovviamente da ascoltatore, ritrovo in molte musiche delle affinità con la nostra, ma credo che siano del tutto casuali. Comunque grazie per l’implicito complimento! 

7) Muoversi per conservare l’integrità delle cose: un concetto, quello che inforna la title track, quasi filosofico. Mai come ora l’imperativo esistenziale, metaforico, sembra quello del “muoversi”, anche e soprattutto di fronte alle grandi sfide geopolitiche del nostro tempo. C’è ancora speranza di “keep things whole” o il dissidio interiore che ci lacera è oramai insanabile?

Cristina: C’è sempre una forma di speranza, secondo me, quando decidi di muoverti, soprattutto quando ci si muove perché è l’unica cosa che si può fare per conservare qualcosa di importante. Parlare di speranza è parlare di vita, è una proiezione in avanti, fa parte di noi. Accettare il movimento come unica condizione possibile di conservazione sembra un concetto contraddittorio e estremo, che ha molto più a che fare con la disperazione che con la speranza. In realtà è una cosa molto naturale, è quello che fanno gli animali, e anche le piante, a modo loro. Normalmente si fa riferimento a discorsi di integrità sempre rapportandola a sé stessi, alle proprie scelte, a ciò in cui si crede o che si è costruito nel tempo, o più ampiamente a un contesto nel quale ci si riconosce o non ci si riconosce più. Una parte molto importante di questa poesia è però anche, secondo me, quella che sottolinea come nel momento in cui tu esisti in un contesto qualsiasi per forza lo modifichi, oppure sei la parte che in un certo momento in quel contesto manca, esaurito il bisogno non hai più senso di esistere lì e ti devi muovere. Ogni movimento quindi implica una responsabilità, non solo verso sé stessi, perché genera conseguenze che vanno oltre te, e questo aspetto - fondamentale - passa sempre un po’ in secondo piano, ma è quello che genera le conseguenze a impatto più ampio. Personalmente sono più spaventata che fiduciosa se mi guardo intorno, ma mi capita, se guardo sotto la superficie quotidiana delle cose, per esempio quando andiamo a suonare in giro, quando conosco persone nuove che riconosco simili a me e in un attimo mi sento a casa, di avere speranza, di pensare “stringiamoci, è l’unico modo per mantenere intere le cose”. La parte difficile, il vero passo, è stringersi con chi è diverso da te, e questo vale per tutti i contesti, riconoscere che tutti siamo la stessa cosa, abbiamo paura delle stesse cose, e abbiamo bisogno delle stesse cose. Per aiutarci a capire le cose le etichettiamo, in declinazioni di significato sempre più articolate e in modo che generino appartenenza, e questo di conseguenza separa, implica giudizio (tra l’altro spesso a priori), gerarchie, alimenta aggressività. ma la natura delle cose e delle persone va oltre. Finché si ragionerà per dividere e etichettare le cose non credo che si potrà mantenere intero niente di importante, forse solo i preconcetti stessi. Penso invece che spezzare i legami con i contesti di appartenenza abituali generi forza e possibilità, e che consenta di stabilire degli interi di significato molto più ampio.

8) Se la pandemia lo consentirà, vi piacerebbe portare “Canto Fermo” dal vivo? E quali sono i progetti che contate di perseguire nel prossimo futuro? All’attività studio di Anatrofobia sarà data maggiore continuità?

Cristina: Certo! Avevamo in programma un piccolo tour nel sud Italia a fine aprile, e una data a Taurianova quest’estate, tutto è stato rimandato, ma appena sarà possibile recupereremo le date con molto piacere. Il gruppo in questo momento si sta dedicando a studiare diversi modi di portare in giro “Canto Fermo”, ci piacerebbe proporre concerti diversi a seconda del contesto, coinvolgendo magari anche musicisti che nel disco non hanno suonato. Luca sta componendo musica nuova e io per la prima volta sto provando a lavorare al contrario, cioè scrivere testi da cui prendere ispirazione per la musica che verrà. Non so come saranno le cose in futuro, ma penso di poter dire che sicuramente continueremo il nostro lavoro e la nostra ricerca. Se tutto questo sarà poi condiviso dipenderà dagli esiti, e naturalmente dalla fortuna che avremo. Per ora grazie dello spazio che ci avete dedicato, speriamo di vederci presto dal vivo!

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