A Uri Caine Trio @ MPX, Padova, 04/02/2012

Uri Caine Trio @ MPX, Padova, 04/02/2012

Si aggira nell’atrio, Uri Caine, quando il concerto è finito da una decina di minuti e l’orologio segna appena le 23. Poco dopo, alla spicciolata, fanno capolino anche John Hébert e Ben Perowsky, nomi fino a poco tempo prima superficialmente conosciuti ed ora scolpiti, marmorei, nel cervello. Vorresti provare ad avvicinarli, a stringere loro la mano, chiedergli un autografo (can you give me… un autografo?) o, magari, complimentarti con loro, approfittare del tuo inglese claudicante per un veloce scambio di battute. Ma che cosa si può voler davvero dire a musicisti del genere? Insistere sulla straordinaria tecnica strumentale consolidata in decenni di infuriata passione è banale, se lo saranno sentiti dire centinaia di volte e la centunesima, si sa, è sempre quella che rompe le palle. Informarsi sul gradimento del posto, e di Padova sui generis, è un modo come un altro – appena più vacuo – per rompere il ghiaccio e poi ricomporlo in un solo gesto. Varie ed eventuali (prossime date, prossimi progetti, cazzi loro) sono archiviate ormai da tempo immemore. Quindi? Li si segue con lo sguardo, attentamente, mentre nel cervello mulina un’idea più strampalata dell’altra su come attirare la loro attenzione, quando però non si ha davvero la volontà di farlo.

La verità, più spartanamente, è che su musicisti di questo calibro, di questo blasone, non c’è davvero più niente da dire, se non schivare accuratamente tutti i passaparola di circostanza e i “l’altro giorno qualcuno mi ha detto che…” per andarsi ad informare, direttamente, dalla stessa materia prima, sperando, nel contempo, di non far parte di quella nutrita maggioranza in smoking e pellicce che presenzia ai concerti altolocati non per malcelato spasimo di costruirsi tardivamente una cultura, o per uno sghiribizzante sovversivismo, quanto per potersi annoiare con gusto e dire “io c’ero”. Anch’io c’ero, senza vestito d’ordinanza. Perché quello che suona Uri Caine Trio altro non è – non diciamolo troppo forte – il classico, vecchio, bastardo, lunatico, cartoonistico jazz newyorchese che tiritera per un po’, saltabecca da un capo all’altro dei generi musicali, possiede il dinamismo di un giovane, la ferocia di un egoista e la voracità di un insaziabile, tira e molla e allunga e deforma le versioni originali di canzoni già allora non-solo-canzoni, unisce sacro e profano, cincischia fino all’ultimo con le melodie e, lapalisse!, prende ancora una volta tutti (tutti) per il culo.

I tre – pianoforte, contrabbasso, batteria – salgono sul palco con un ghigno sul volto e, senza una parola di troppo, iniziano a fare a pezzi il loro repertorio, vecchio e nuovo. I lampi più recenti sono datati 2011 e provengono da “Siren”, primo disco in cui il posto del virtuoso Drew Gress è preso dall’altrettanto eccezionale Hébert. Fiumi di musica scorrono, torrenziali, in un fittissimo dialogo non parlato dove l’accademia è citata, ossequiata e seviziata. Caine, seduto spalle al pubblico su un lucido Zanta nero, possiede un mesmerizzante approccio allo strumento che fa intrecciare singole note, swingate e sbertucciate, con intere cascate sonore di assonanze e dissonanze, dove ben poco rimane del formalismo e la figura del compositore diventa quella dello spericolato sperimentatore. Hébert unisce velocità e gusto dell’incastro a sprezzanti incursioni avanguardistiche, momenti di pura cacofonia in cui la narrazione si ripiega su sé stessa, fratturata in più punti, ed il basso diviene semplice oggetto, mezzo da torturare con spaghi, unghie, fili di ferro. Perowsky è il batterista perfetto, motore di una macchina che caracolla e sembra sempre perdere il bandolo della matassa, quando non ci si accorge che l’andatura sbilenca rientra nei piani prestabiliti: in lui confluiscono la delicatezza della spazzola, la tentacolare tecnica fusion, i vapori muriatici dell’hardcore, l’anticonvenzionale foga del jazzista consumato, una gamma pressoché infinita di soluzioni.

Un’ora e quaranta per sette brani. Gli applausi crescono, educatamente, di pezzo in pezzo, ma sarà solamente uno il grido di approvazione, al termine di un breve inciso cool che rappresenterà il momento più statico ed accomodante dell’intero concerto. Uri Caine Trio, per il resto, è la molotov che esplode in piena faccia, il gruppo che dice una cosa, ne pensa un’altra e ne fa un’altra ancora: cerebralità, passione, (s)compostezza, assoli che lasciano senza fiato (spettacolare la prestazione di Perowsky su “Smelly”, un’estasi impro-jazz dalle esaltanti cerniere ritmiche dilatata a quasi venti minuti), momenti di spinta autoironia e di spietato umorismo zorniano – i fraseggi di musica classica innestati nel corpo di “Hazy Lazy Crazy”, gli improbabili e divertentissimi scampoli bebop che intervallano il lungo rimestare matematico di “Siren” – e concentrazione professionistica che sfora il parossismo, come nel delicato e puntuale ingresso di ogni individualità nell’iniziale impasto pianistico di “Tarshish”. Nessuna cosa è lasciata al caso, ma l’apparente anarchia con cui tutto si dispone ha una tale forza distruttiva da lasciare basiti coloro che si sarebbero aspettati un’esibizione ben diversa.

A loro, l’abbiamo capito, non diciamo più niente. Ogni ringraziamento va al Centro d’Arte dell’università di Padova che, con la sua annuale rassegna “Ostinati!”, per l’ennesima volta, si è adoperato per sconfessare la colossale palla di un jazz prono e supino alle esigenze altrui. Forse aveva davvero ragione Hannah Arendt: ci salveranno l’arte e la creatività…

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.