A Wilco - Report da Berlino

Wilco - Report da Berlino

Vado per fumarmi una sigaretta prima che tutto cominci e i buttafuori (gentili e sorridenti, mica come i tacchini ipersteroidei nostrani) mi chiedono la mano per il timbro. Un cuoricino che risplende. Invece di soffermarmi sulla subliminalità di certi messaggi che metterebbero a serio rischio la mia riconosciuta carica eterosexy, decido di prenderla come una sorta di richiamo all’attenzione sull’oggetto della serata. Suonano i Wilco, i Wilco che mi amano tanto (lo dicono loro, eh), assolutamente ricambiati –luogo e data astrale della folgorazione definitiva: Conservatorio di Milano, 14 novembre 2009- e per i quali in buona sostanza mi sono organizzato questa spedizione brandeburghese insieme al fido socio di altri concerti.

Insomma, arriva il momento e mi ritrovo con questa sigaretta fumante e l’ennesimo bicchiere di birra nel cortiletto dell’Admiralspalast, questo teatro in pieno centro, l’atmosfera che inizia a friggere, le persone che iniziano ad affollarsi, che poi i Wilco riescono a far sentire i propri fan quasi una comunità, c’è quel senso di appartenenza ad una cosa che non sai se condividere o custodirla gelosamente da qualche parte. 

Springsteen probabilmente genera una roba simile, o Dylan. Pubblico sulla media della quarantina, misto. Pochi ragazzini, stasera non ci sono ciuffetti o mossette (segnalazione dalla centrale: testosterone malcelato machista/progressista in aumento), nè eyeliner,  né canzoncine da ipod –a parte quello che probabilmente sta in qualche cassetto dello studio ovale a Washington-, né coiti inutili da quindici minuti di gloria. Qui passa la storia, e questo lo diranno i nostri successori fra qualche anno, ma forse non occorre nemmeno attendere natale per celebrare l’epifania: si può tranquillamente dire che i Wilco la storia la stanno già facendo con la loro musica, e soprattutto con i loro concerti.

C’è qualcuno che sta leggendo che non si è mai visto un concerto dei chicagoani? La mia invidia lo colga, ma sappia che dovrà sbrigarsi perché nulla è eterno, tantomeno Tweedy che sembra in perenne stato di semi-igiene mentale. Ma a parte cio, e semplicemente, i Wilco sono il miglior spettacolo rock in circolazione. E questa è un’affermazione che non è soggettiva:  sfido chiunque a portarmi prove del contrario, o a citarmi qualcuno che possa essere loro superiore (forseforseforse ci sarebbe un nome, ma solo uno, per chi scrive) Se proprio dovessi trovare il pelo nell’uovo (ogni rimando è puramente casuale), c’è forse uno zoccolo duro di canzoni in scaletta che è sempre presente e che potrebbe dare adito alla stanchezza. Ma parlo da fan. E da fan dico che queste canzoni (per citarne alcune: Via Chicago, Impossibile Germany, I am trying to break your heart, A shot in the Arm) sono talmente belle e cristalline che il solo citarle mi fa venire voglia di riascoltarle, adesso.

 La serata.

Sono ancora alla birra –la terza- quando parte il support act di John Grant. Confesso di avere prestato pochissima attenzione al suo lavoro solista, arrivo all’appuntamento abbastanza impreparato. Forse è questo il motivo che non me lo fa apprezzare per nulla. Piano e voce, ma composizioni che non lasciano segno alcuno, a parte qualche smascellamento sbadigliare. Un Elton John sotto naftalina. Roba che mi metto a rimpiangere Rufus, che perlomeno ha personalità da vendere.

Finito Grant (fortunatamente un set coinciso), pochi minuti e poi i sei sono sul palco.

Il teatro è sold-out, io sono in ultima fila. Apertura con Wilco (the song), il volume è basso, o sono io che sono troppo indietro, alcuni tizi –ammerigani- sono già in piedi che si agitano. Uno in particolare lo scorgo in primissima fila: tutto il concerto in piedi a ballare, sarà stato contentissimo quello seduto dietro. La canzone scorre in automatico, a parte un divertissement sul finale con voci preregistrate che mi pare una novità.

È dal secondo pezzo (Bull Black Nova) che i volumi si assestano e i Wilco piazzano già un montante da ko alla platea. Io mi dico: un gruppo che fa un pezzo come questo e dopo lo fa seguire da Hell is Chrome DEVE essere un gruppo di fenomeni. E infatti, la circolarità crescente di BBN inizia ad espandersi nel teatro, le stratificazioni diventano sempre più sensibili, quasi reichiane, Kottche –un batterista che fa letteralmente quello che vuole, e nel 90% dei casi sono cose sopraffine- è un metronomo, Stirratt stantuffa con il basso, Tweedy gracchia nel microfono sforzandosi di non sembrare malato, la canzone è un incubo a lietissimo fine, lo show inizia qui. Hell is Chrome è poesia pura, distillata, chiarissima, le spazzole ad accompagnare un testo incredibile nella sua semplicità. Laddove prima si lambiva il white noise, adesso è acustica di livello altissimo. È la prima volta che la ascolto dal vivo, da brividi.

La grandiosità d’insieme dei Wilco fa volare le note, c’è una coesione, una perfezione anche nella sistematica destrutturazione di pre-finali che fa tornare in mente un motto di non mi ricordo chi (“sono il classico gruppo che se non suoni ti fa venire voglia di imparare, e se suoni ti fa venire voglia di smettere”), la scaletta pesca in maniera abbastanza varia dal loro catalogo –ovviamente i più saccheggiati sono gli ultimi, da yankee in su-, arriva anche un pezzo da novanta seminascosto come Poor Places, se l’avessero fatta seguire da Muzzle of Bees mi avrebbero ritrovato a fine concerto con il cuore a pezzi.

Spiders (Kidsmoke) è riarrangiata in versione country, ma rimane sempre avvolgente, con Impossible Germany arriva anche il momento di Cline, che a conti fatti stasera si è dedicato più al cesello e alla steel che agli assolo, ma qui esplode letteralmente, la canzone è oramai un classico , partenza sognante che racchiude il meglio di certo songwriting, le chitarre che si inseguono a creare una struttura portante da manuale del rock , quasi aperta,  che poi va pian piano a concretizzarsi anche visivamente con Tweedy e Sansone che si ritrovano faccia a faccia e Cline che libera una cascata di note passando dal vibrato alla distorsione con facilità quasi irrisoria, durante questo pezzo ho visto gente felice in sala, e non mi è sembrato un dettaglio da poco.

Tweedy ha probabilmente iniziato ad accorgersi di avere un pubblico da qui, le prime parole rivolte all’audience intrise della consueta simpatia: “many americans here” (“Yeeeeeaaaah” sparsi un po’ da tutta la sala) “…but we are here to play for the germans.”, punto e a capo.

Altri siparietti in cui il nostro amatissimo ci ricordava che NOI il giorno dopo saremmo andati in ufficio a lavurà, un amabile confronto con tutti quelli che stavano scattando foto in sala, dito puntato e “tu stai scattando foto, e a me non va bene”, pure una discussione con il fan in prima fila e Hummingbird ormai partita. Vabbè, gli si perdona tutto, durante i bis tutto il teatro era in piedi a ballare, Walken è stata chirurgica, pur essendo sostanzialmente uno stomp, Handshake Drugs è una delle migliori canzoni degli ultimi vent’anni, e dal vivo diventa una vetrina dove a turno ognuno condisce con il proprio ingrediente una ricetta succosa, Theologians ha un testo che mi fa rivalutare appieno la simpatia verso Tweedy, Via Chicago non potrebbe essere coverizzabile da nessun altro che non sia i Wilco stessi (o perlomeno, ci vorrebbe una band che avesse Kotche dietro ai tamburi).

Mi rammarico per alcune cose che avrei voluto in scaletta, ma in casi come questi c’e sempre qualcosa che ti avrebbe fatto piacere ascoltare, faccio giusto in tempo a ripensare all’ennesimo concerto da ricordare e da raccontare, ma stanno diventando troppi, maledetti loro.

“We love you, baby”  

Setlist – Wilco, Admiralspalast Berlin  27.09.10

Wilco (the song)/Bull Black Nova/Hell Is Chrome/I Am Trying To Break Your Heart/One Wing/You Are My Face/A Shot in the Arm/Poor Places/Spiders (Kidsmoke)/Impossible Germany/Via Chicago/Sonny Feeling/Jesus, etc./A Magazine Called Sunset/Handshake Drugs/You Never Know/Hate It Here/Theologians/I'm The Man Who Loves You/    Encore:Hummingbird/California Stars/Walken/Heavy Metal Drummer

 

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