A Zu + Stefano Sguario + Laura Moro - Report Live

Zu + Stefano Sguario + Laura Moro - Report Live

Che rapporto ci può essere tra gli Zu e l’India? Forse che il trionfale “Carboniferous Tour”, da quasi un anno portato, con enorme riscontro, per le strade d’Italia e del mondo tutto – ricordiamo, fra gli altri, Irlanda, Stati Uniti, Giappone e Olanda -  abbia toccato anche le sponde del paese ove si fermarono le smisurate ambizioni panmacedoni del grande Alessandro? Non ci è dato saperlo. Per quanto riguarda i fatti reali e concreti, il solo collegamento possibile è quello da farsi con lo Shindy Club, ristorante indiano incastrato fra i monti della gelida Bassano del Grappa ed indicato, su una delle tante brochure prelevabili all’interno, come “la discoteca preferita, da trent’anni, dai bassanesi doc”. Sarà. L’ambientazione, piccolina ed incensata, richiama vagamente la più rinomata Gabbia della vicina San Giorgio in Bosco, ma per il resto si vedono solo pouf rossi, tappeti orientali, lunghe tavolate con commensali seduti a terra. Incuneato, in fondo alla sala principale, un piccolo palco con un drum kit già pronto.

Il copione delle ore successive, del resto, è quello che da tempo si conosce e che affligge, purtroppo, la quasi totalità dei club italiani. Su tutti i flyer, il concerto del terzetto romano è anticipato prima dalla danzatrice e coreografa Laura Moro, poi dal noiser Stefano Sguario. Inizio, ore 23. Gli addetti al merchandising accennano, come probabile orario di apertura, un posticipo di mezz’ora. Il risultato è che, a mezzanotte inoltrata, una piccola folla di un centinaio di persone, capace tuttavia di colmare il locale, aspetta ancora impaziente di sentire una sola nota, se si escludono le tonnellata di pezzi, dal mistico raga al post-metal al garage rock, proposti da un iperattivo dj set. Della Moro, in definitiva, nessuna traccia, anche se affiora il dubbio di aver mancato la sua esibizione per una sciagurata discordanza di orari. Sguario si fa desiderare a lungo, un po’ troppo per i miei gusti. L’attesa, inizialmente, sembra essere addirittura infruttuosa: il musicista, da solo davanti ad un tavolo coperto da distorsori, drum machine e tamburi, sul quale si arrampicherà, dondolando su e giù, aggrappandosi ai corrimani e tenendo in bocca due spinotti, dà vita ad un’infernale spirale di puro rumore bianco, con sovrapposizione di loop manipolati da soffi e sbuffi. Noioso, a dirla tutta. Solo col passare dei minuti il prodotto, in lenta ma irreversibile mutazione, si carica di momenti percussivi di grande efficacia, strappi di pura violenza ed atonalità rimarcati da campionamenti di voci, cori, brusii alterati, che si susseguono a valanga, riversando sulla platea la rabbia primordiale di No New York miscelata all’apocalittico industrial harsh-noise degli Sword Heaven. Di colpo, così com’è venuto, il marasma si zittisce.

La tattica del killeraggio a base di volumi non cambia con l’arcigno e concentrato ingresso degli Zu ma, anzi, se possibile, aumenta. Massimo Pupillo, nonostante alcuni problemi tecnici che affliggeranno il suo basso durante tutto il set, più volte invoca veementemente ai fonici un aumento esponenziale dei watt. Si resta, in particolare, sbalorditi quando, dopo un’apertura devastante con “Chthonian”, frastornante babele noise-metal giocata su incastri math nerissimi e limacciosi, i ragazzi allungano ad oltre otto minuti la durata del brano, strepitando nel frattempo la volontà di suonare a frequenze più alte. Un gioco al massacro micidiale, dove la gente si accalca con la speranza di parteciparvi. La scaletta è interamente imperniata sui migliori brani di “Carboniferous”, vantando una condizione psicofisica ed una precisione balistica ottimali, a dispetto dello sfiancante numero di date finora sostenute. Luca Mai, pizzetto, pelata, pancione e sax, infervora continuamente le idee dei compagni riducendo in poltiglia le ance del suo strumento. Pupillo scava trincee con linee di basso scorticanti (“Mimosa Hostilis”) e rifinisce il pacchetto regalo con una serie di effetti volutamente stordenti e stranianti (come quelli di “Carbon”, accolta fra il tripudio generale). Tuttavia il vero protagonista è sempre lui, Jacopo Battaglia, un metronomo dietro le pelli che dispensa raffiche martorianti, giochi di abilità sui piatti, cattiveria inappuntabile nei frangenti maggiormente spietati (“Maledetto Sedicesimo”, orgasmica versione strumentale di “Soulympics”: quando si dice che il disco non rende…), humour verso il pubblico (“Ci sentite tutti bene?”, prima di riattaccare con una pesantissima “Erinys”) e provocazione ai fotografi, colpevoli di usare troppi flash. Le luci della ribalta, però, sono tutto fuorché immeritate: solo “Obsidian”, senza la chitarra stratificata di Giulio Ragno Favero del Teatro Degli Orrori, perde della sua sospesa poesia post-core in favore di una fisicità forse troppo ostentata. La doppietta “Beata Viscera”, elegantemente distruttiva tra samples di film in spagnolo e bordate di fiati, ed un’”Ostia” che scatena addirittura il pogo nelle prime file, sono l’istantanea migliore dell’incredibile maturità raggiunta dagli Zu: arte in movimento con licenza d’uccidere.

Il resto, per nostra gioia, si divide in un entusiasmo debordante – e, ammettiamolo, un po’ patriottico – e nella constatazione, assolutamente non angosciata, della perdita totale della funzionalità della mia coclea. Ore 2.08: alla faccia della seratina tranquilla…

Per approfondire: http://www.shindy.it

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